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il foglio-lettere
Gennaio 2008 Alcuni amici mi hanno chiesto di scrivere qualcosa su quello che sta succedendo qui in Kenya in seguito alle elezioni. Scrivo dopo qualche giorno, quando l’interesse dei media italiani si è spento, perché non vorrei raccontare gli orrori di cui siamo testimoni, né fare una analisi dei fatti, ma solo dire qualche parola su quello che vive la mia comunità. Durante la preghiera all’inizio del nuovo anno, John ha raccontato di come avevano ucciso suo fratello e Monica ha narrato la violenza subita dalle sue sorelle. Altri hanno condiviso storie di dolore, di paura, di preoccupazione per familiari e amici chiusi in campi profughi o dei quali non si hanno notizie da giorni. Ne è seguito un lungo silenzio. Non giudicare, ma riconoscere il male in me Njoroge ha rotto quel silenzio per raccontare di sé: «Sono Kikuyu, e dalla nascita mi è stato detto che la mia tribù è migliore delle altre. Sono nato a Eldoret dove i Kikuyu sono una piccola minoranza eppure i miei genitori hanno sempre votato un Kikuyu a rappresentarli in tutte le istituzioni, perfino in parrocchia. Anch’io ho votato come loro: non ho mai trovato una persona degna di rappresentarmi che non fosse Kikuyu. Mi avevano insegnato a dividere il mondo in buoni e cattivi e io appartenevo al gruppo dei buoni. Il nemico era fuori dal mio gruppo e il male una minaccia esterna. Riconosco che proprio questo modo di vedere le cose crea muri di separazione tra di noi e ci allontana gli uni dagli altri, ci rende ciechi alle ragioni altrui e sensibili solo alle nostre. Adesso ho aperto gli occhi: il male non è fuori, ma è dentro di noi. Chiedo perdono. Sono io che devo cambiare e il mio cuore che ha bisogno di essere trasformato. Vi chiedo di pregare per me». Le parole di Njoroge commuovono molti di noi. Altri si indignano: lo giudicano arrendevole, debole e senza riconoscenza per il clan a cui appartiene. Chi tenta di mediare non è benvenuto e il tribalismo mette le sue tende anche tra di noi. Devo imparare a essere paziente: quelli che incontro non sono cuori cattivi, ma cuori feriti che si chiudono e si difendono. Chiedere loro di aprirsi e capire anche la sofferenza degli altri può diventare una ulteriore violenza. Devo imparare da Njoroge a non giudicare i miei fratelli, ma a riconoscere che il male abita dentro di me: sono io a dover cambiare. In questi giorni difficili, ho riletto il diario che Etty Hillesum ha scritto prima di venire cremata in un campo nazista: «Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi; e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa del mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove. È proprio l’unica possibilità che abbiamo, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale». Riconosco che la mia è una posizione privilegiata: non appartengo a nessuno dei due gruppi che lottano tra di loro. È facile parlare per uno come me. Maria custodiva queste cose nel suo cuore Ci sono momenti in cui non si deve insistere con le parole, ma rimanere in silenzio, pregare e cercare di entrare nel mistero della sofferenza come Maria, la quale «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». È il vangelo del Natale, ma è anche il vangelo di Pasqua, quando Maria resta in silenzio sotto la sua croce non potendo più fare nulla per suo figlio se non custodire la speranza. Dopo avere fatto tutto il possibile per aiutare i nostri fratelli e crescere assieme verso la giustizia e la solidarietà, dobbiamo anche imparare a rimanere sotto la croce, in silenzio, meditando ogni cosa nel nostro cuore per trasformare il dolore in un amore più umile e più vero. Imparare da Maria che rimane sotto la croce, ma non con un vuoto nel cuore. Rimane vicina a suo figlio, custodisce la speranza nel suo cuore e mantiene viva dentro di sé la fede in Dio e la fiducia negli uomini. Sono testimone di questa speranza nel sorgere della società civile in Kenya. Mass media, associazioni, club, rappresentanti di tutte le chiese e di molte organizzazioni governative e non governative stanno facendo una forte pressione sui due candidati alla presidenza perché ci sia pace in questo paese. Il loro è un insistente appello perché Kibaki e Raila possano sedersi allo stesso tavolo e cercare un compromesso accettabile per entrambi, mettendo da parte il proprio tornaconto a favore del bene comune. Non so quale frutto porterà questo movimento, ma rimarrà nella storia di questo paese come una reazione straordinaria e un segno di maturità che si contrappone alla follia delle violenze di questi giorni. Sono testimone di speranza anche tra le migliaia di sfollati Kikuyu che arrivano qui da noi dopo essere fuggiti dalle zone degli scontri. È incredibile la mobilitazione in atto: molti di loro trovano ospitalità da parenti, da amici e conoscenti che hanno creato una rete di solidarietà improvvisata e straordinaria. Molti rimangono nei campi profughi allestiti in questi giorni. Una parte del nostro personale ha lasciato le normali occupazioni per dedicarsi all’accoglienza. Cerchiamo di coinvolgere le nostre comunità nell’assistenza di queste persone che hanno perso tutto, tranne la loro dignità. I profughi raccontano le orribili violenze che hanno subito e la nostra gente risponde con gesti di fraterna accoglienza e generosità. Quanto tempo ci vorrà per guarire le ferite? Gli opposti si toccano dentro il cuore degli uomini: c’è rabbia, vendetta, violenza, ma c’è anche tanta generosità, capacità di condividere e amore fino al sacrificio di se stessi. Mi piacerebbe tanto saper cantare la solidarietà, che è il fiore della speranza nato dentro le piaghe di questa gente. Affido il mio canto di speranza a un’altra pagina del diario di Etty Hillesum: «...sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la finestra, in una vita c’è posto per tutto. Per una fede in Dio e per una misera fine... Le mie rose rosse e gialle si sono completamente schiuse. Mentre ero là, in quel inferno, hanno continuato silenziosamente a fiorire. Molti mi dicono: come puoi pensare ancora ai fiori, di questi tempi. Ieri sera, dopo quella lunga camminata nella pioggia, sono ancora andata a cercare un carretto che vendesse fiori e così sono arrivata a casa con un gran mazzo di rose. Ed eccole lì, reali quanto tutta la miseria vissuta in un intero giorno. Nella mia vita c’è posto per tante cose. E ho così tanto posto, mio Dio. Oggi, mentre passavo per quei corridoi così affollati, ho sentito improvvisamente un gran desiderio d’inginocchiarmi sul pavimento di pietra, in mezzo a tutta quella gente. L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello di inginocchiarci davanti a Dio... si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». Ieri sera mi sono fermato in ufficio fino a tardi e la guardia notturna mi ha informato che davanti al cancello c’era un bambino. Sono uscito e ho trovato Ndirango: era impaurito, tremante e affamato. La sua mamma è Luo, il papà Kikuyu. Il papà è stato ucciso negli scontri di questi giorni e la mamma ha fatto salire Ndirango su un camion perché potesse fuggire e salvarsi. Il camion lo ha fatto scendere a Nyahururu e lui si è nascosto e ha pianto per due giorni. Disperato. Aveva fame e l’ho accompagnatoato nel nostro centro per ragazzi di strada e ho visto la gioia nei suoi occhi nel sentirsi accolto e protetto. Di quanto tempo e pazienza avrà bisogno Ndirango per guarire le ferite del suo piccolo cuore? Saremo capaci di accompagnarlo in questo cammino, noi che a nostra volta abbiamo sofferto? È così facile vedere Gesù in Ndirango, essere solidali con la sua triste storia, e sostenere le sue debolezze. Ma il vangelo ci chiede di vedere Gesù anche nei nostri nemici, di riconoscerlo in coloro che ci perseguitano e pregare per loro. L’odio è un fardello troppo pesante da portare. Scegliere la via della pace Oggi ho speso tutta la giornata a far visita a famiglie dove vivono persone che hanno disabilità mentali e fisiche. John ci ha accolto nella sua casa e ci ha fatto una grande festa. Chiama mamma una donna che a me sembra perfino più giovane di lui. Chiedo spiegazioni e la donna racconta. Si chiama Maria e nel 1997 è dovuta fuggire da Molo a causa degli scontri tribali senza neppure avere il tempo di seppellire i suoi cari uccisi negli scontri. Dopo essersi sistemata alla meglio in un pezzo di terra che non le appartiene, ha voluto diventare volontaria del progetto che si occupa di persone disabili. I suoi vicini erano i genitori di John e una notte lasciarono la capanna dove abitavano, abbandonando John al suo destino. Lei non pensò alla miseria della sua condizione e lo prese a casa sua. Assieme ai suoi figli, dividono il poco che hanno con John da ormai sette anni. Ci apre il suo cuore e racconta: «Non auguro a nessuno quello che ho vissuto a Molo e le violenze che la mia famiglia ha dovuto subire. Quando John è stato abbandonato ho capito che il Signore mi chiamava a trasformare il mio dolore in amore. L’odio è un fardello troppo pesante da portare e solo l’amore può eliminarlo dal nostro cuore. Accogliendo John tra di noi potevamo aiutarlo, e questo amore avrebbe aiutato anche noi. Siamo felici di essere assieme». La gioia che ho incontrato in questa mamma sostiene la mia povera fede e mi rincuora. Sono stato anch’io testimone di quelle violenze 10 anni fa, e non avrei mai pensato che quella sofferenza potesse trasformarsi in bene nel cuore di una povera donna. Vorrei imparare da Maria, a rimanere sotto la croce dei miei fratelli crocifissi per custodire la speranza e la fiducia, senza permettere al mio cuore di essere abitato dal rancore e dal risentimento perché l’odio é un fardello troppo pesante da portare. Chiudo questa mia lunga lettera con un frammento di una predica di Martin Luther King jr: «Ho visto troppo odio per voler odiare anch’io, e ho visto l’odio sulle facce di troppi sceriffi per voler odiare anch’io; e ogni volta che lo vedo, dico a me stesso, l’odio è un fardello troppo pesante da portare. In qualche modo dobbiamo riuscire a metterci davanti ai nostri più accaniti oppositori e dire: “Noi faremo fronte alla vostra capacità di infliggere sofferenze con la nostra capacità di sopportare le sofferenze; andremo incontro alla vostra forza fisica con la nostra forza d’animo. Fateci quello che volete, e noi vi ameremo ancora. Metteteci perciò in prigione, e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora, per quanto difficile possa essere. Mandate i vostri sicari incappucciati nelle nostre case, a mezzanotte, trascinateci fuori ai margini di qualche strada e lasciateci mezzi morti dopo averci picchiati, e noi vi ameremo ancora. Mandate in giro per il paese i vostri agenti di propaganda e dipingeteci inadatti culturalmente, e da ogni altro punto di vista, all’integrazione, ma noi vi ameremo ancora. Però siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire e un giorno conquisteremo la nostra libertà. Non solo vinceremo la libertà per noi stessi: faremo appello al vostro cuore e alla vostra coscienza a tal punto che alla fine vinceremo anche voi, e la nostra vittoria sarà duplice”». Vi chiedo di pregare per questo popolo perché ritrovi presto la strada della giustizia e dell’unità. Il paese è a un bivio pericoloso, ma io spero che avremo il coraggio di scegliere la via della pace. Vi chiedo di pregare anche per me. don Gabriele
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