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società
350 - Fiera del libro 2008 |
I libri sono innocenti?
Il governo, lo stato, il popolo, l'editoria, gli autori, gli scrittori, la politica, la cultura, la letteratura, di Israele: che cosa o chi sarà presente, come invitato d'onore, celebrato, contestato, boicottato, alla prossima Fiera del libro? Difficile capirlo, se stiamo alla dinamica organizzativa della manifestazione e del dibattito, nato intorno ad essa, a seguito della forte protesta dell'Unione degli scrittori arabi per un'iniziativa che si tiene nell'anno dell'anniversario della proclamazione dello stato di Israele. |
A chi ha dovuto rivolgersi il comitato organizzativo per avere Israele come invitato d'onore? Chi, oltre agli invitanti e agli editori coinvolti, sostiene le spese per organizzare la presenza degli autori israeliani di lingua ebraica, araba o inglese? Chi, insieme ai consulenti culturali della Fiera, li ha scelti e sceglie gli argomenti delle conferenze e dei dibattiti? Certo, dobbiamo pensare alle istituzioni e alle associazioni culturali del paese invitato; ma possiamo davvero ritenere che lo stato, anzi il governo che storicamente lo rappresenta nei rapporti internazionali, non sia in ultimo il punto di riferimento essenziale di tutto ciò? Non è forse stata consultata l'ambasciata di Israele prima di rispondere alla proposta di invitare anche voci che potessero riferirsi all'autorità palestinese?
Sull'altro versante: non ha più ragioni politiche e ideologiche che culturali la protesta degli intellettuali islamici contro tale evento? Non è forse per solidarietà nazionale, ben più che per ragioni letterarie, che molti scrittori palestinesi sentono il dovere di segnalare che lo stato di cui si finisce col celebrare la nascita, celebrandone la cultura, è lo stesso con cui il loro popolo è in conflitto, un conflitto che ha provocato il loro stesso dilaniarsi intestino, che imprigiona, affama, bombarda, uccide più civili che militari e combattenti di ambo i fronti, nei giorni stessi in cui si svolge la manifestazione?
Dove si rifugia la pace
Certo distinguere bisogna. Bisogna puntare su ciò che più è costruttivo ed evitare ciò che resta nell'orizzonte della contesa omicida. Bisogna riconoscere che certi percorsi sono quasi obbligati, se si vuole dare spazio concreto, storico, efficace al dialogo, alla ragionevolezza, alla pacificazione. Ma soprattutto bisogna riconoscere che aggiungere frattura a frattura allarga la distanza tra le parti in causa, invece che avvicinarle. Proviamo dunque a riflettere su tutto ciò e a tentare un approccio nonviolento alla situazione.
A una tragedia iniziata duemila anni fa si è tentato di porre fine, provocando un'altra tragedia che dura ormai da sessant’anni, con troppe vittime da ambo le parti e ricadute drammatiche altrove. La storia non offre possibilità di modificazione del passato, ma solo di correzioni del presente, più o meno traumatiche, più o meno stabilizzatrici e pacificanti.
Se due popoli di diverse tradizioni, culture e religione debbono convivere sulla stessa terra, o si dà vita a uno stato multietnico, pluralistico e laico, a una vera democrazia (ideale per ora insoddisfatto qui come altrove) o si creano due stati. Non si è proceduto lungo la prima via sessant'anni fa, per indisponibilità degli uni come degli altri. Ora non è possibile che mirare a una parziale realizzazione della seconda, allora rifiutata dai palestinesi, col sostegno, anche militare, degli stati arabi. Ciascuno deve fare la sua parte, ma non tutti, tra gli uni e tra gli altri, possono fare tutto. I politici si sono dimostrati impotenti e le loro scelte si sono avvitate sulle strategie conflittuali iniziali. I religiosi troppo spesso si sono persi dietro i loro incubi e fomentano intolleranza. I passi più grandi di avvicinamento reciproco li hanno fatti alcuni volenterosi guidati da forte senso etico e spirituale, associazioni di familiari delle vittime di tutti e due i popoli, volontari di pace di diversa provenienza, gruppi religiosi interconfessionali, e tanti uomini di cultura: musicisti, artisti, poeti, scrittori. Sono essi una fonte di speranza. Se anche loro si combattono, dove si potrà rifugiare la pace, da chi i nemici di oggi troveranno strumenti, pensieri, modelli di convivenza?
Ecco perché comprendiamo, ma non condividiamo, l'invito degli scrittori palestinesi e islamici che sollecitano il boicottaggio. Può darsi che dietro l'iniziativa della Fiera del libro stia nascosta anche l'idea di utilizzare il sessantennio dello stato di Israele per dare a se stessa risalto mediatico. Proprio come si è deciso di rinviare all'anno prossimo l'invito all'Egitto per farlo coincidere con la mostra di Venaria sui Faraoni. La Fiera del libro è marketing, oltre che cultura, o meglio: cultura che si regge sul marketing. Certo i profeti ebrei, i mistici dell'Islam, i Padri del deserto hanno alimentato la spiritualità universale, laica e religiosa, nei secoli, ma questo anche grazie alla letteratura profetica, mistica, alla raccolta e diffusione, multimediale (canzoni, spettacoli, libri, film...), dei detti e delle vite. La violenza della mano e della lingua schiavizza e uccide gli uomini, la mitezza, la profondità, la saggezza, l'eticità, la bellezza della parola li rende liberi e capaci di serenità e a volte di felicità.
Essa ha, però, le sue regole, le sue forme espressive, forme che le sono connaturali e non possono contraddirla. Non aggredisce, non boicotta, al più contesta, non con fischi e insulti, ma con argomenti. Non deride, sorride. Non schernisce, ironizza; ma soprattutto cerca il dialogo.
Boicottare, contestare, dialogare
Allora? Allora alla Fiera del libro non si vada per impedire gli ingressi, ma per diffondere con mezzi pacifici le proprie posizioni. Non si contesti con slogan e non si demonizzino i contestatori con metodi analoghi. Non si urli per esprimere le proprie ragioni, il proprio risentimento, il proprio dolore. Si cerchi di comunicare tutto ciò in modo da farsi capire e, se qualcuno non può farne a meno, non lo si insulti come incivile, barbaro, ignorante, da posizioni di presunta superiorità, frutto al più della situazione di forza e benessere in cui, senza merito, ci si trova. Si cerchi di dialogare, di discutere, di confrontarsi e di favorire ogni iniziativa che metta in contatto uomini e donne, artisti, scrittori, religiosi, politici dei due diversi campi. Infatti ricordare il sessantesimo anniversario di Israele significa ricordare la sua tragica storia, passata e presente, le guerre, le stragi, la colonizzazione, le deportazioni, le ghettizzazioni, antiche degli uni e recenti degli altri, gli attentati e i bombardamenti contro i civili israeliani, palestinesi e, non più di due anni fa, libanesi, il terrorismo, le uccisioni mirate, le espropriazioni e i muri divisori, i sogni di vita e non di morte dei diversi popoli della regione.
Soprattutto si cerchi di non confondere il politico col culturale, l'ideologico con l'etico, il religioso col confessionale, il governo con lo stato, lo stato col popolo, la cultura di Israele con la cultura ebraica. Primo Levi era uno scrittore torinese, italiano, e così Freud era austriaco non sionista, dove sionista non è insulto ma orientamento ideologico. Così Einstein e infiniti altri autori del passato e del presente diasporico del mondo ebraico, che tengono al proprio radicamento culturale nazionale tanto quanto al proprio radicamento culturale ancestrale. Nulla favorisce di più l'antisemitismo, di infaustissima memoria religiosa e socio-politica, della confusione praticata da molti avversari e sostenitori della politica di Israele, tra israeliano e israelita. Questo sia quando si attacca qualsiasi ebreo, considerandolo responsabile delle scelte politiche e militari del governo di Israele, sia quando sul versante opposto si accusa ogni critico della politica interna ed estera israeliana di essere mosso da sentimenti anti-ebraici, di volere la fine del nuovo stato e la distruzione del vecchio popolo. Mesta nel torbido chi nel torbido vive.
Per evitare di trovarsi in situazioni analoghe, d'ora in poi la Fiera del libro eviti di invitare come ospiti d'onore paesi in guerra esterna o interna, oltre che dittature sanguinarie. Oppure s'invitino insieme i vari contendenti per costringerli a confrontarsi non con le armi ma con gli strumenti dialogici della cultura. Si corre il rischio, nel primo caso, che restino pochi paesi da onorare e che ancor meno accettino un invito che non li privilegia sugli avversari? Meglio pochi onorati che tutti disonorati. Meglio ancora tutti i paesi invitati alla pari a confrontarsi su un tema onorevole o da onorarsi.
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