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 350 - BELLEZZA E GIUSTIZIA

 

Per una teologia della libertà

 

Nella teologia degli ultimi cinquant'anni si è affermata con discreto successo l'abitudine di costruire le proprie riflessioni sistematiche o saggistiche a partire da una filosofia personalista che si richiama da una parte all'antica filosofia greca, maestra delle classi colte delle terre della prima missione in Occidente, dall'altra alle originarie concezioni ebraiche antico e neotestamentarie, così come vengono riscoperte dalla nuova esegesi storica e critica.

Ora, senza demonizzare o accusare di falsificazione la necessaria e giusta inculturazione della fede apostolica giudaica nel contesto umano dei popoli dell'impero romano, largamente ellenizzati, inculturazione che ha dato origine al cristianesimo storico di cui noi siamo figli, mi sembra venuta l'ora di fare i conti con un duplice realtà. Innanzitutto col fatto che la nostra fede si incarna e deve dare ragione di sé a uomini, noi e i nostri compagni di strada, che vivono in un contesto umano che non è più quello dominato dalle concezioni cosmologiche e antropologiche del pensiero greco-latino ed ebraico-giudaico. In secondo luogo con la presa d'atto che, da mezzo millennio ormai, sappiamo che su molti aspetti le interpretazioni del reale del pensiero filosofico greco e della tradizione giuridico-spirituale che ha dato origine alla Bibbia non sono né al loro interno unitarie né tra loro concordi. Questo senza dimenticare la necessità di riappropriarsi vitalmente del proprio passato patristico e medievale per potere rendere fruttuoso il dialogo, sempre più necessario, con civiltà e popoli dai costumi, dalle tradizioni, dall'ethos e dalle fedi molto distanti dai nostri.

 

Necessità o possibilità

Per non essere troppo lungo e complesso, mi limiterò a delineare un problema. Allorché, per affrontare un qualsivoglia tema teologico, ad esempio quello del bello e della sua conciliabilità con la giustizia, si parte da Anassimandro, Platone, Seneca e Plotino, si evoca un universo culturale dominato dalla categoria della necessità, mentre, quando, per attualizzare il discorso, si passa alle prospettive filosofico-teologiche del personalismo, si è costretti a utilizzare il linguaggio dell'ontologia cristiana della libertà, che ispirandosi a Pascal e a Kierkeegard non può che centrarsi sulla categoria della possibilità.

Alle radici del mondo greco sta l’unità originaria del tutto e l'inevitabile confluire dei diversi in un universo eterno e ciclico. Ciò che nella vita e nella storia si moltiplica e dissipa, nella vita e nella storia si raccoglie e ritorna. Infallibilmente raggiunge la sua meta, che è anche il suo inizio. L'armonia è fonte e culmine di giustizia e di bellezza. Il che vale per le arti figurative, non per la poesia e la tragedia, che tale equilibrio spezzano. È così che Platone le bandisce come diseducative e corruttrici e Aristotele le valorizza come catartiche, utili a liberare l'uomo dalle passioni più distruttive. Ma la catarsi non è soluzione dei conflitti, bensì capacità di accettare e sopportare l’ingiustizia della giustizia reale come inevitabile destino. Necessità comporta identità tra inizio e fine, libertà come accettazione del destino, inevitabile presenza del male come mezzo per raggiungere il bene, unità indistinta del molteplice nell'uno, illusorietà della diversità e del tempo, etica della sottomissione.

Si possono inserire senza rotture in tale orizzonte i temi biblici della libertà di Dio e dell'uomo, della creaturalità di cielo e terra, della storicità della rivelazione, del potere di giustizia e bellezza della croce, della responsabilità e della grazia? Non credo. Credo che tale inserimento sia opera di un'inculturazione meritoria, ma non sempre felice e assai problematica. Lo hanno evidenziato gli studi classici e biblici del Cinquecento e lo evidenzia oggi la rottura tra i saperi che privilegiano la necessità e quelli che valorizzano la possibilità.

Ora l'attenzione alla logica del possibile sembra meglio coniugarsi con la visione biblica del reale. È la categoria messa in gioco dalla libertà ebraico-cristiana di Dio e dell'uomo e comporta l'inevitabilità della decisione, la drammaticità della scelta, l'eventualità dell'errore, l'alternativa tra finalizzazione positiva e negativa dell'azione, l'incertezza sugli esiti ultimi, l'etica della responsabilità.

 

Croce icona del sublime

La possibilità, come la necessità, non spiega la presenza del male e della morte nella vita, ma offre una base alla speranza di una qualche vittoria del bene. Ecco perché la Croce, nell'orizzonte della speranza di resurrezione, si presenta insieme come culmine di ingiustizia, di sofferenza e di morte e come atto libero di donazione di sé a beneficio dell'altro, come divina universalizzazione del potere di vita dell'amore, e diventa simbolo di giustizia invocata da chi soffre ingiustizia e di bellezza che traluce nell'orrore.

Chi, come molti tradizionalisti cristiani, come i numerosi non cristiani o post-cristiani, vede nella Croce l'esaltazione espiatoria del dolore, l'esito cruento di un imperscrutabile volere (cosa in fondo insegnata da ogni teologia ellenizzante, quando parla di un cammino preordinato da sempre, eternamente voluto da un Dio impassibile e onnipotente, di una storia provvidenziale già scritta ab eterno), non può che averne timoroso terrore o profondissimo orrore. Mentre chi la interpreta come supremo e libero gesto d'amore la pone al di sopra di ogni bellezza e la celebra come icona del sublime.

Noi nella storia sperimentiamo la morte e speriamo la resurrezione. Viviamo l'inevitabile consumarsi del senso della vita e l'affrontiamo in nome della possibilità della sua piena realizzazione. Crediamo che l'essere che è ed è stato, ancora sia. Speriamo tutto ciò, ma non possiamo sentirlo come certo e infallibilmente garantito. Infatti non si può promettere ciò che è sicuro e scontato da sempre. Non ha senso sperare ciò che si dà per inevitabile. Si ha fede in un libero impegno, ci si orienta ad un incontro di libertà. L'unità tra bellezza e giustizia sta come possibilità all'origine dell'essere, ma nella storia si presenta nella fame e sete di giustizia, nel dolore che cerca salvezza, nel peccato che invoca perdono, nell'amore che vince la morte, nell'orrore che sprigiona bellezza. L'unità tra bellezza e giustizia si trova nella Gerusalemme celeste, nella realizzazione della libertà di molti, insieme e in ogni istante, nella pienezza di una creazione da sempre possibile e non necessaria, liberamente voluta, invocata e cercata, non inevitabilmente emanata e sottoposta alla dialettica pre-definita della caduta (exitus) e della restaurazione (reditus).

 

Aldo Bodrato

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