Torino ha una drammatica storia di incendi (a parte i bombardamenti): il Teatro Regio prima della guerra, il cinema Statuto (febbraio 1983, con 64 morti), la cappella della Sindone (1997, senza vittime), ora questo, tragicamente simbolico, dell’acciaieria ThyssenKrupp in prossima chiusura, che ha ucciso successivamente tutti e sette gli operai ustionati.
La grande manifestazione di lutto e protesta, lunedì 10 dicembre, si è svolta in un’atmosfera pesante e tesa come poche altre. Qualcuno l’ha paragonata ai funerali delle vittime, negli anni del terrorismo. Il tema dei troppi incidenti mortali sul lavoro, del morire per lavorare, è tornato di prepotenza all’attenzione del paese, con tutti i suoi aspetti già noti.
Oggi nessuno si può permettere, come un tempo, di presentare come eroi del progresso le vittime di un modo di lavorare teso e condannato a spremere dal tempo e dai gesti del lavoratore, e dalla perfezione delle macchine, il massimo di efficienza e di profitto, perché la concorrenza morde le calcagna dell’imprenditore, della multinazionale, e dunque dell’operaio, in definitiva.
L’antico operaio-artigiano della piccola boita, da cui è nata per superfetazione anche la Fiat immensa, faticava e tirava la carretta, anche negli stenti, ma il lavoro usciva dalla sapienza delle mani e dalla fatica delle braccia e tornava, bene o male, ai bisogni dell’uomo. La fabbrica, il capitalismo, inquadrarono sempre più l’uomo nel meccanismo tecnico e sociale, ma ancora l’operaio, gli operai insieme, sapevano di poter rivendicare i diritti della loro fatica intelligente, grazie alla coscienza del proprio ruolo sociale. Le macchine via via ridussero la fatica, poi anche il numero degli uomini, che divennero sempre più superflui.
Senza alcun romanticismo, che non ha motivo, possiamo dire che l’orgoglio del lavoro, quello che Primo Levi ha saputo descrivere, la solidarietà nel lavoro, sono diventati un privilegio individuale di fronte al disoccupato e al precario. Ognuno è più solo, deve accettare qualunque lavoro, e contrattare quasi da solo il compenso alla fatica necessario per vivere.
In questa triste occasione è corsa di nuovo la parola sfruttamento, l’antico nome della condizione operaia, smascherata quando si formò la coscienza di classe. Nella manifestazione del 10 si sono visti di nuovo gli operai, oggi sparpagliati come un gregge assalito dal lupo, ma in quel momento raccolti in corteo tra i cordoni, le fila, gli slogan rabbiosi urlati nel freddo, anche in parte contro i sindacati. E si sono visti nei funerali celebrati nelle varie chiese della città, sempre in un clima di raccoglimento e con una grande partecipazione dei cittadini. Come si sono visti nel luogo per eccellenza della visibilità odierna, e cioè in tv, dove hanno dato inedita mostra di sé: composti, anche nel dolore, dignitosi, in grado di presentare ben più ragionevolmente dei tanti alla ribalta le proprie ragioni e la domanda forte, ineludibile di giustizia. Ci è sembrato allora di aver capito, ancora una volta, in questo sessantennio della Costituzione, che cosa significa che «l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro».
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