La vera novità delle elezioni politiche del 13 e 14 aprile non è la vittoria della coalizione guidata da Silvio Berlusconi: l’evento era ampiamente previsto da tempo, anche se con un’incertezza relativa alle sue dimensioni (soprattutto al Senato). L’innovazione risiede invece nella vistosa semplificazione della rappresentanza parlamentare. Dalla ventina di partiti e partitini presenti nelle Camere uscenti si è passati di colpo a soltanto sei formazioni: il Partito democratico, l’Italia dei Valori, l’Udc (peraltro quasi cancellata dal Senato se non fosse per i tre seggi conquistati in Sicilia), il Popolo della libertà, la Lega Nord e il Movimento per l’autonomia. Ad essi si aggiunge, in entrambe le assemblee, una manciata di rappresentanti dei partiti localisti della Valle d’Aosta e dell’Alto Adige. Le due coalizioni larghe ed eterogenee che avevano finora imbrigliato la frantumazione partitica si sono dissolte, lasciando spazio ad un quadro che pare strutturarsi su tre poli maggiormente compatti: a sinistra il Pd, alleato col partito di Antonio Di Pietro; a destra la coalizione Pdl-Lega-Mpa; al centro un piccolo polo rappresentato da un’Udc che, al momento attuale, sembra intenzionata a restare autonoma.
È certamente ancora troppo presto per affermare che tale configurazione sia destinata a caratterizzare il sistema politico negli anni a venire; la stabilizzazione dei partiti pare infatti ancora lontana dall’essere definitiva. In ogni caso la semplificazione del quadro partitico è innegabile. Essa, com’è noto, è la conseguenza della decisione assunta da Walter Veltroni di giocare la partita a dispetto dei vincoli della legge elettorale sbarazzandosi della megacoalizione di centrosinistra che aveva sostenuto il governo Prodi; decisione che, per reazione, ha scatenato una serie di modifiche, di separazioni e di nuove fusioni nell’intero sistema dei partiti.
Se la scomparsa di alcune formazioni era prevedibile ancora prima del voto (il Partito socialista e la Destra di Storace-Santanchè, tanto per fare un esempio), la sorte della Sinistra arcobaleno è stata invece una delle vere sorprese del voto del 13 e 14 aprile. Non per quanto concerne il Senato, dove lo sbarramento dell’8% a livello regionale rendeva la sfida pressoché persa in partenza; ma i ripetuti sondaggi pre-elettorali assegnavano alle forze in questione un 5-6% che avrebbe consentito loro di accedere comodamente almeno alla Camera. Essendo un livello già di per sé piuttosto risicato rispetto al bottino ottenuto da Prc-PdCI-Verdi-Sinistra democratica nel 2006, era davvero difficile immaginare un ulteriore calo di consensi. Eppure, con poco più del 3% su tutto il territorio nazionale, la Sinistra arcobaleno ha perso circa i tre quarti del suo potenziale elettorale.
Le prime analisi dei flussi di voto (necessariamente sommarie) ci dicono quali percorsi hanno seguito gli elettori che nel 2006 avevano optato per la sinistra radicale e nel 2008 hanno mutato la loro scelta. Si stima che soltanto il 40% degli elettori di Rifondazione, il 20% dei Comunisti italiani e il 25% dei Verdi abbiano consegnato i loro suffragi alla Sinistra arcobaleno. Circa un elettore potenziale su due si è invece spostato sulla coalizione Pd-Idv, soprattutto in forza di una strategia di “voto utile” (il Partito democratico non è cresciuto più di tanto perché ha contemporaneamente ceduto consensi a Italia dei valori, Udc, Pdl e Lega); i rimanenti si sono dispersi fra l’astensione, il voto per Pdl e alleati e l’opzione per le neonate formazioni di Sinistra critica e Partito comunista dei lavoratori. Le forze della sinistra etichettabile come “non riformista” si ritrovano così ad un livello prossimo a quello raggiunto da svariati loro omologhi in giro per l’Europa. Con la differenza che il crollo è avvenuto in soli due anni e con l’esclusione dal Parlamento di tradizioni politiche storiche e radicate.
La Sinistra arcobaleno paga i mesi trascorsi al governo, durante i quali alcune iniziative in linea con le promesse elettorali sono state inibite dalla preoccupazione di non provocare la caduta dell’esecutivo guidato da Romano Prodi. La crisi è però avvenuta ugualmente, questa volta aperta da piccole formazioni di centro, e la sinistra si è ritrovata per di più “scaricata” da Veltroni; per una fetta di elettori non si è certo trattato di un bel biglietto da visita. Contemporaneamente, i partiti in questione hanno restituito non di rado l’impressione di logorare l’esecutivo di cui pure erano parte prendendo posizioni in contrasto con quelle assunte collegialmente al fine di ottenere una presunta “visibilità”. A ciò si aggiunga la presa che hanno, su alcuni potenziali sostenitori, i discorsi populisti tenuti dalla Lega – che non a caso ha incrementato i suoi voti – e dal Pdl. Infine occorre segnalare che Rifondazione comunista sconta ancora oggi la decisione di determinare la crisi del primo governo Prodi nel 1998: scelta che una parte di elettori non ha mai perdonato a Bertinotti e compagni, anche alla luce degli sviluppi successivi.
Il Partito democratico, dal canto suo, pur nella sconfitta ha motivi di conforto. È vero che il risultato finale, poco più del 33%, appare a molti deludente in quanto di soli due punti superiore alla somma di Ds e Margherita. Ma è altresì vero che il vantaggio del centrodestra era stimato nell’autunno scorso a circa venti punti percentuali; la percezione dell’esperienza di governo da parte di molti italiani è alquanto negativa, e il Pd rimane pur sempre il partito voluto da Prodi; i Ds avevano subito una scissione a sinistra che rischiava di rivelarsi per nulla irrilevante; il quadro generale, insomma, non era dei più favorevoli ad una buona performance. Ciononostante il Pd, sia pure grazie alla strategia di voto utile, è cresciuto notevolmente in molte realtà urbane, anche laddove la Lega ha conseguito i suoi risultati migliori. Inoltre Veltroni ha centrato quello che è facile immaginare fosse un suo obiettivo: liberarsi della miriade di ex alleati coi quali i democratici sarebbero stati nuovamente costretti a trattare e mediare.
Il Pd è praticamente l’unica forza progressista dell’arena parlamentare; si tratterà di vedere se sarà in grado di offrire adeguata rappresentanza anche a quegli elettori che ne sono stati privati dalla scomparsa della Sinistra arcobaleno, la cui presenza nelle istituzioni politiche è comunque assicurata dal gran numero di amministrazioni regionali e locali nelle quali Rifondazione e alleati siedono in consiglio o sono determinanti per la sopravvivenza delle giunte di centrosinistra. Allo stesso modo, guardando alla composizione socioprofessionale della sua base (i voti sono giunti in misura maggiore della media da impiegati pubblici e pensionati), si può cogliere appieno la necessità che il partito di Veltroni sappia riallacciare i rapporti con quei settori – ad esempio gli operai, le realtà produttive del Nord – dati in passato per acquisiti ma che negli ultimi anni sembrano sempre più sfuggire alla sinistra italiana.
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