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teologia
Ora, tenendo presente questo rimando solo come invito alla presa di coscienza dei nostri limiti, tentiamo di districare alcuni nodi dell'ineffabile groviglio, per trarne un guadagno davvero insperato e mettere in cascina il raccolto di una faticata, ma fruttuosa, fienagione, da ruminare con la pazienza della riflessione nei tempi lunghi della vita di fede. Cominciamo chiedendoci: perché mai Paolo si caccia in questo ginepraio? Lo fa di suo? È obbligato dal contesto culturale in cui il suo pensiero teologico prende forma? È sconvolto dall'assoluta novità dell'evento cui cerca di dare spiegazione? Direi per tutte tre i motivi. Paolo stesso esordisce confessando che la questione che sta per affrontare è per lui personale e vitale insieme (9,1-2). Come ebreo, che riconosce in Gesù il Cristo, di cui ha sentito parlare dagli avversari e dai sostenitori, tutti ebrei come lui, senza averlo incontrato di persona, se non in una visione problematica e sommaria, sente il dovere di chiedersi perché mai onesti e pii ebrei si trovino su fronti opposti e quale possa essere la sorte ultima degli uni e degli altri, nonché come sia possibile che dei pagani, molto meno degni, semplicemente affidandosi alla misericordia divina manifestatasi nel Crocefisso-Risorto, possano sopravanzare nella corsa al Regno gli ebrei che hanno rifiutato Cristo e stare alla pari con quelli che lo hanno accolto. Se lo chiede e non trova altra risposta da quella del «mistero di Israele», secondo cui, tanto nell'elezione quanto nel ripudio, il popolo di Dio è e resta veicolo e strumento di salvezza per sé e per le genti tutte (11,25-26). Una visione del mondo dominata dalla necessità La forza innovatrice del pensiero paolino è grande, ma non può che svilupparsi all'interno della visione generale del mondo, dell'uomo e di Dio propria della cultura teo-filosofica, antropologica e cosmologica del suo ambiente culturale, dell'humus spirituale e linguistico in cui nascono, si sviluppano e prosperano le civiltà, le letterature e le religioni dell'Oriente mediterraneo di quei secoli. Politeista o monoteista che sia, questo universo culturale affronta, infatti, ogni questione teorica ed esistenziale all'interno di ben definiti parametri, che vengono messi in discussione solo nell'eventualità di una completa e compiuta rivoluzione storico-culturale, in sostanza in occasione di cambi d'epoca rarissimi e lentissimi. Il sapere come libertà ingabbiata La cultura ci rende liberi mentre ci ingabbia. Ciò vale per ogni autore e per ogni tempo. È una sorta di regola universale del dire e del fare intellettuale. Regola che l'arte dell'interpretazione deve tenere presente. Qualsiasi fenomeno o evento edito e inedito può essere compreso ricollegandolo ai parametri del suo universo civile, interpretandolo secondo i canoni propri delle ragioni e delle esperienze al tempo comuni e, quindi, contestualmente comunicabili. Anche le eccezioni sono tali nel quadro di regole precise e accettate. Possono sfuggire ad esse solo se le riconfermano, altrimenti cadono nella vanità del sogno, nell'inconcludenza della follia, nell'incomunicabilità del balbettio, destinato a perdersi. Se un atto o un detto vuole lasciare qualche traccia di sé e incidere nello sviluppo del pensiero e dei fatti, deve riuscire a farsi accettare dall'insieme dei dati normali, entrare come una delle eventualità inusitate, ma non impossibili, e così avere l'occasione di modificare il già assodato dall'interno, magari persino di rivoluzionarlo. È ciò che Paolo tenta di fare col «suo vangelo» (Romani 2,16), sapendo bene che quanto va predicando è «scandalo e follia» (1Cor 1,23). Ora, la visione cosmologica del tempo in cui Paolo scrive si muove nell'orizzonte di una realtà, creata o eterna, data e definita in ogni sua legge e struttura interna, in ogni suo singolo essere. Congedata, da oltre sette secoli, la visione metamorfica del mito, l'umano sapere si muove all'interno di un cosmo, finito o infinito, retto dalla necessità o dal caso, sostanzialmente immodificabile, che è quello che è, perché così è e basta. L'intervento umano e lo stesso intervento divino (sia Dio unico o un pantheon) è definito da sempre e per sempre. Ogni singolo uomo o dio ha nella storia dei fatti spazi minimi di azione propria e, per lo più, finisce col fornire proprie ragioni al divenire di quanto deciso all'inizio, se c'è stato un inizio, o da sempre, se l'universo è eterno. Deciso da chi? Mai dall'individuo o da un altro qualsivoglia potere particolare, ma sempre e solo da un'entità universale e superna, sia essa il Fato o la Ragione o il Dio Unico e Creatore, o persino il Caso, visto che anche il caso democriteo ed epicureo coincide in ultimo con la necessità ed evita che mai si dia qualcosa di nuovo sotto il sole. In tale quadro il singolo o qualsivoglia gruppo storico, ogni abitante degli spazi intramondani, superiori o inferiori, può, se può, agire sul proprio modo di vivere e sentire soggettivamente ciò che di necessità gli accade oggettivamente. Può accettare o rifiutare il suo destino, farsene in qualche modo responsabile, etichettandolo col proprio sì o il proprio no. Il che vale per il mondo greco, persiano, egizio, e per ogni altra civiltà a noi nota, che si affaccia sul Mediterraneo centro-orientale, nei tempi e nei luoghi che precedono e seguono l'opera di Paolo. Vale anche per il mondo ebraico? La teologia dell'amore nel tempo della necessità Verrebbe da rispondere di no a cuor leggere e sarebbe bello, per far dipendere l'intera cultura biblica, che coinvolge anche la religione ebraica e cristiana, da una fonte alternativa a quella delle umane tradizioni, capace di appellarsi alla novità della cosiddetta rivelazione dall'alto, di fondarsi sull'alterità assoluta della «Parola di Dio». Purtroppo così non è, visto che da sempre la parola rivelata esclude per principio di rivolgersi a uno spazio culturale e storico tutto suo, sacro e non laico, a una sorta di enclave separata dal resto del mondo. Se di rivelazione si vuole parlare, se si vuole parlare di «Parola» di Dio, bisogna andarle a cercare nella parola storicamente connotata della vita quotidiana degli uomini. Questo ci dice il tema teologico fondamentale dell'«incarnazione» di Dio, tanto nella cultura ebraica, quanto in quella cristiana. E allora? Allora, specifico del pensiero e della cultura religiosa biblica non è la credenza, più o meno universale, in Dio creatore del mondo e neppure quella di un Dio giudice e guida della storia, e neppure l'enfatizzazione, spesso esasperata e non sempre accettabile, del ruolo fatto svolgere in questo orizzonte deterministico dall'onniscienza e onnipotenza di Dio, inteso in senso rigorosamente monoteistico, come unico essere libero e necessitato insieme, perché in Lui coinciderebbero volere, potere e ragione, essenza ed esistenza, da sempre e per sempre. La specificità della rivelazione va cercata nell'insistenza sul legame privilegiato, anche se non esclusivo, della storia e dell'azione di Dio con la storia e l'azione degli uomini e, in particolare, di un clan di uomini, ridotti a schiavi e riportati alla libertà e all'unità di popolo. La rivelazione è rivelazione di un Dio che unisce misericordia e giustizia e finisce col privilegiare la seconda, al punto da fare diventare l'elezione d'amore di un uomo, elezione d'amore di un popolo, l'elezione d'amore di un popolo, elezione d'amore di tutti i popoli e atto di suprema giustizia e carità religiosa la giustizia e la carità laica, rivolta dagli uomini agli uomini. Il tutto, inevitabilmente all'interno del contesto interpretativo, storico e culturale di coloro a cui si rivolge; nel caso, all'interno della cultura e della civiltà antica, che fino a Paolo e oltre resta nel quadro, sopra evidenziato, della cosmologia, dell'antropologia e della teo-filosofia della necessità, scossa ma mai del tutto negata. De potentia Dei absoluta nel Deutero-Isaia Chi non crede nella rigidità teologica di questa visione vada a rileggersi i capitoli del Deutero Isaia (Isaia 40-55), in cui si afferma per la prima volta massicciamente la rivelazione monoteista. Qui, secondo l'antico profeta, chiave di volta dell'ebraismo e del cristianesimo insieme, Dio fa ogni cosa in cielo e in terra, passata, presente e futura. Crea il mondo, manda Ciro a liberare Israele, prevede tutto dall'eterno, fa il bene e fa il male. Nessuno gli sta alla pari. Nessuno può prevedere quello che Lui ha preparato. Sa da sempre, ma anche improvvisa. Determina il passato, determina il presente e determina il futuro. Tutto per il bene del suo eletto: Israele, che può anche ribellarsi, essergli infedele, tentare di fare fallire il suo disegno di salvezza. Ma alla fine Dio trionferà. Lo piegherà alla conversione. Lo salverà volente o nolente. Dio è giustizia e misericordia, ma la giustizia opera al servizio della misericordia e la misericordia al servizio della giustizia. Senza fallo tutto andrà a buon fine. Israele sarà salvo e saranno salve anche tutte le altre genti, ammaestrate da quanto vedono accadere ad Israele, che è stato eletto gratuitamente, ripudiato per le sue infedeltà, e rieletto, ricondotto a fedeltà e salvezza, così che tutti, vedendo quanto Dio ha operato in lui, si convertano e vengano salvati. Tutti creati, tutti puniti, tutti salvati. Tutti egualmente rappresentati anche da un re giusto, da un profeta sapiente, da un innocente martirizzato per il bene di tutti e che, singolo o popolo, da solo tutti rappresenta e tutti salva, ebrei e non-ebrei. Grazia, peccato, grazia e infine solo l'amore Ecco lo schema teologico entro cui si muove Paolo per interpretare la vicenda di Gesù, che con la sua morte e resurrezione offre elementi di novità capaci di sconvolgere l'intera impostazione teologica in cui Paolo vive e in cui cerca ancora di inserire il suo pensiero di buon giudeo: la “salvezza per grazia, elezione e fede”. Gesù è da lui accolto come messia ebraico, inviato agli ebrei e temporaneamente respinto per fare posto, nella storia dell'elezione, all'innesto delle genti all'albero ebraico della salvezza. Gesù, che, diventato così Messia universale, recupera infine anche quegli ebrei, che non lo hanno riconosciuto, ma saranno salvati egualmente, anche senza esplicito riconoscimento, perchè ciò sta oggettivamente nel disegno eternamente stabilito da Dio. Il tutto un po' singolare? Il tutto regolato dalla grazia e dalla fede, saltando a piè pari quasi del tutto la libera decisione umana. Compreso l'intero orizzonte dell'obbedienza volontaria alla Legge? Il tutto retto sull'adesione quasi passiva dell'uomo a Dio, perché Dio resta solo ed unico protagonista nella triplice veste di Dio Padre e di Figlio umano-divino, di dono spirituale? Il tutto immerso in plumbeo e insieme luminosissimo, libero disegno di salvifica necessità? Esatto. Il tutto opera di rivelazione? Il tutto quintessenza della fede cristiana? Così crede Paolo, così dobbiamo credere noi? Inesatto. La nostra fede non ha più di fronte la cultura teologica, cosmologica e antropologica del millennio paolino. Può, anzi deve, abbandonare l'orizzonte dell'immodificabilità della realtà del mondo, della necessità della storia, dell'onnipotenza e dell'onniscienza di Dio. Deve dare conto della forza originaria da sempre operativa e mai esaurita della libertà creativa di Dio, dell'uomo, della natura e della storia e consentire alla fede evangelica di vivere e dare frutti in un orizzonte antropologico, cosmologico e teo-filosofico del tutto nuovo. Compito della viva ricerca di fede è, oggi come ieri, interrogarsi sul senso globale e autentico di quanto davvero inaudito e rivelato può essere , oggi come ieri, colto nel testo biblico antico e neotestamentario, nelle pagine più felici della storia delle fede e delle cultura umane, nell'esperienza attuale di vita e offrire uno sguardo nuovo d'insieme di se stessa, dare al mondo la sua nuova e sempre antica testimonianza. Passato è il cristianesimo storico, come è passato l'ebraismo storico, ma il cristianesimo storico e l'ebraismo storico vivono ancora oggi. Sta a noi farli rivivere sotto il soffio dello Spirito, sotto lo guida del Dio creatore sempre attivo in noi e del Cristo risorto, guida e compagno. Aldo Bodrato
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