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 330 - DIO E L’UOMO DI FRONTE AL MALE

Chiedere a Dio ragione di Auschwitz non è titanismo

Del tuo Dio si parlò, io dissi

contro di lui, lasciavo

al cuore che era in me

di sperare

nella sua

suprema e rissosa, nella sua,

rantolante, parola.

P. Celan, A Nelly Sachs

 

Piero Stefani, profondo conoscitore del pensiero ebraico e fine teologo, conclude una riflessione dedicata al tema della misericordia e della giustizia di Dio con questa osservazione: «Di fronte a molte catastrofi, prima di tirar in ballo l’impotenza di Dio, occorrerebbe interrogarsi sulle responsabilità umane. Solo chi ha passato la vita a cercare di comprendere perché il nazismo salì al potere, a chiedersi come fece a organizzare uno sterminio di tali proporzioni e a tentare di capire quali furono le responsabilità di breve e lungo periodo dentro e fuori la Germania che ne consentirono l’attuazione, può interrogarsi in modo autentico sul silenzio di Dio ad Auschwitz. Domanda divenuta spesso retorica proprio perché posta con scontata immediatezza».

Mentre condivido l'insieme della riflessione, trovo affrettata questa stoccata finale sull'eccessiva immediatezza e sulla sospetta superficialità di certe dichiarazioni a proposito dell'impotenza e dell'"assenza" di Dio nei momenti cruciali del patire umano. Personalmente osserverei invece che troppi discorsi su Dio, tanto di religiosi quanto di laici pii e non, suonano retorici, e che troppi teologi traducono il loro compito di riflessione critica sulla fede nell'esaltazione della grandezza, della perfezione, della giustizia e della misericordia divina a spese della miserevole abiezione umana. Mi pare, infatti, che almeno in ambito ebraico e cristiano, la questione del ruolo di Dio di fronte ai mali della storia abbia la stessa rilevanza teologica di quella del ruolo dell'uomo di fronte a quelli della natura.. Il vero limite di molte affermazioni sull'assenza o sull'impotenza di Dio, se mai, è che lì si fermano, senza veramente tentare una coraggiosa riflessione su cosa ciò comporti per il nostro pensare e agire religioso.

 

Il mito della caduta

Fin dalle prime pagine della Bibbia l'interrogativo su cosa comporti per l'uomo e per Dio la presenza molteplice del male ha puntato il dito sul peccato umano e ha teso ad alleggerire il peso che poteva minacciare le spalle di Dio. Dio, racconta l'interpretazione tradizionale cristiana e, per molti versi anche ebraica, dei capitoli iniziali del Genesi, ha creato la natura buona e l'uomo a propria immagine. Gli ha fatto dono di ogni frutto del giardino del mondo, ponendogli un unico limite, che l'uomo ha puntualmente valicato, proiettando sul suo benefattore la propria invidia. Il male è entrato così nella storia come conseguenza di una colpa umana e col male, conclude il più recente scritto anticotestamentario del Canone cattolico, anche la morte (Sapienza).

È l'ottica in cui su questo tema si sono posti i pensatori dal medioevo all'età moderna. Tanto che la stessa filosofia, anche quando rifiuta ogni teodicea, volentieri sottolinea gli errori umani nell'interpretare il senso etico dell'esistenza e facilmente denuncia le colpe del progresso ogni volta che eventi naturali provocano morti e sofferenze. Così, mentre i non credenti preferiscono utilizzare la presa di coscienza della pervasività del male storico e naturale per liberarsi del discorso su Dio, piuttosto che servirsene per ridiscutere criticamente il senso dell'interrogarsi umano sui temi teologici, i credenti, salvo rari casi, evitano di affrontare il discorso sulla portata e sulla dimensione della Sua storica presenza e rinunciano a rilanciare l'annuncio della Sua promessa di salvezza, per non doversi misurare col permanere incontrastato della morte e dei mali e con la fine di ogni fede e speranza nella prossimità del Regno.

Quinzio aveva ragioni da vendere quando si chiedeva se non si stessero consumando le briciole residue dell'originaria attesa salvifica cristiana ed ebraica. Chi nella nostra Chiesa parla ancora pubblicamente, con convinzione, di liberazione dai mali e di resurrezione dei morti? Chi si preoccupa di dare testimonianza della dirompente ed escatologica novità evangelica, in luogo di cercare solidi radicamenti culturali, etici, sociali, economici e politici, storico-mondani?

 

Prendere sul serio le promesse di Dio

La crisi profonda della fede cristiana e la sua trasformazione in mondano principio di identità culturale, la dice lunga sulla stanchezza degli uomini di fronte a discorsi che presentano Dio come il fondamento necessario a tappare i buchi delle nostre conoscenze e dei nostri poteri, come un principio di potere astratto e formale. Di fronte alla ripetitività della predicazione cristiana, per lo più orientata alla denuncia degli altrui peccati e alla rivendicazione del ruolo magisteriale della Chiesa, è comprensibile che quanto sopravvive della sensibilità religiosa si orienti a forme di credenza diverse, provenienti dall'estremo oriente, dalle sopravvivenze tribali o ricreate con la tecnica del sincretismo. Se non altre, per la loro novità, tali forme religiose possono ancora ingenuamente sembrare portatrici di trascendente salvezza.

Appellarsi al recupero della tradizione culturale italiana ed europea per rivitalizzare la fede cristiana è illusorio. Bisogna tornare a parlare del Dio di Abramo, di Mosè e di Cristo come di una presenza viva. Bisogna tornare a sfidarLo biblicamente a rendere conto delle Sue promesse. Bisogna interpellarlo, tentando di confrontarsi con Lui o almeno col nostro concreto ed esistenziale sentirne o non sentirne la presenza nella nostra vita.

Non possiamo fingere che il Dio cristiano sia un generico creatore, garante di un'etica naturale o soprannaturale indifferente alla concretezza dell'umano patire, perché proiettato sull'incommensurabile e eterna perfezione finale dell'amore disincarnato e destoricizzato. Il Dio biblico ci ha sedotti, per dirla con Geremia, promettendo salvezza, spacciandosi come colui che libera concretamente e storicamente dalla schiavitù dell'oppressione e dai mali della vita. La Sua assenza, il Suo silenzio, il Suo abbandono, nel momento del bisogno, è un colpo durissimo alla Sua credibilità. Si può dire, per un poco, che è giusta punizione per la colpevolezza umana, come hanno fatto i profeti e i sapienti dell'esilio. Si può giustificarLo ancora, constatato il mezzo fallimento delle promesse di glorioso ritorno, che questo in verità, deve ancora venire e che è da sempre previsto in un tempo non brevissimo, ma ragionevolmente calcolabile, come hanno fatto Daniele e gli apocalittici. Ci si può arrampicare sui vetri con lo slogan che per Lui «mille anni sono come un giorno». Ma poi, quando si viene al dunque, quando viene al dunque colui che in Lui ha creduto e sperato più di ogni altro, non resta che il grido «Dio mio , Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

È l'esistenza nella memoria umana di questo grido e la possibilità di ripeterlo anche nelle sue due altre variazioni («Padre nelle tue mani abbandono il mio spirito» e «Tutto è compiuto»), ciò che ci permette oggi di tenere ancora umanamente spendibile il Suo Santo Nome. È la morte in croce di Gesù che ci consente, come ci testimoniano il centurione di Marco e Matteo, il buon ladrone di Luca e il Tommaso di Giovanni, di riconoscerlo «figlio di Dio», giusto e destinato al Regno, nostro Signore e nostro Dio, di confessarlo risorto. Se Gesù è vivo grazie a Dio, il Dio cristiano lo è ancora, per qualcuno almeno, grazie a Gesù, alla sua parola, alla sua pratica di vita e di annuncio, alla sua morte, che tutto sono meno che esempio di gloriosa onnipotenza. Se gli ebrei sono ancora un popolo, dopo duemila anni di diaspora e persecuzione, grazie all'elezione e al dono della Torah, le promesse e la Legge di Dio sono ancora attivamente presenti nella storia degli uomini, grazie alla fedeltà dei martiri giudei, persino atei e non-osservanti, dei pogrom e dei lager.

 

Il dovere della contesa

Quando la teologia si farà davvero carico di tutto ciò? Quando si renderà conto che è compito dell'uomo, che sull'uomo riflette e con lui lavora, aiutare l'uomo a farsi carico delle sue responsabilità e che è compito di Dio, o almeno di coloro che su di Lui pretendono di riflettere col Suo aiuto e per Lui operano, chiarirsi o aiutarLo a chiarire il ruolo che si è assunto rivelandosi come «Colui che è», non assente ma presente? Chiedere all'uomo di tenere aperta la sua contesa con Dio, senza trasformarsi in Titano, credere che il Dio di Gesù il Cristo non è l'idolo giustiziere degli amici di Giobbe, ma il Vivente, sempre ancora capace, come allora, di un'almeno simbolica, teofania, non è forse un dovere per chi vuole darsi e dare ragione della sua fede e della sua speranza?

È ancora Stefani a ricordarci che «la grandezza del libro di Giobbe non è la capacità di uscire dalla logica retributiva, ma al contrario quella di trarne le conseguenze più esigenti: l’unico che può armonizzare il corso del mondo con il comportamento del giusto è Dio (Shaddaj, il Potente), perciò, quando un lancinante stridore si innalza dagli accadimenti, il Signore va tirato direttamente in causa. Il punto più alto toccato da Giobbe è aver aperto un contenzioso (in ebraico si potrebbe dire riv) con Dio, vale a dire averlo fatto scendere direttamente in campo senza nascondersi dietro la fragile paratia delle «cause seconde». Quanto importa non è conseguire la vittoria (chi può sconfiggere il Potente?), ma essere legittimato nella protesta. Che Dio quando appare faccia ammutolire la sua creatura (Gb 40,3) ha un peso relativo, la svolta decisiva sta nel fatto che il Signore si manifesta. Il libro di Giobbe non propone alcuna teodicea proprio perché sfocia in una teofania».

Quale teofania dobbiamo attenderci dopo le molte Auschwitz dell'ultimo secolo? Possiamo sentire per noi ancora risolutiva quella della divina onnipotenza creatrice, che tacita e consola l'antico giusto di Uz e anima i teologi che hanno lavorato alla creazione del suo straordinario midrash? Possiamo accontentarci di continue reinterpretazioni dei testi del passato? Possiamo vivere dell'ermeneutica di esperienze altrui, o, sulle tracce dei padri e alla loro scuola, non dobbiamo piuttosto pensare alla potenza giustificatrice e salvatrice di Dio in termini attinenti alle nostre? Possiamo mantenere viva la tradizione della fede, senza riviverla con nuova e sempre più intensa partecipazione, con quel vigore intellettuale e passionale che il Cristo dubita, ma desidererebbe, trovare al suo ritorno?

Aldo Bodrato

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