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 355 - Riflessioni in vista del convegno dell’8 novembre

 

«Vi ho chiamati amici». Laici responsabili per il Vangelo e per il mondo

 

La sfida che la rete chiccodisenape ha sperimentato nei mesi scorsi è stata cercare strade nuove per rispondere alla chiamata di essere laici responsabili per il Vangelo e per il mondo, libera da sterili rivendicazioni e lontana da modalità anacronistiche.

Il gruppo si è incontrato per la prima volta nel marzo 2007 per scrivere una lettera aperta piena di preoccupazione verso un clima ecclesiale nel quale da tempo sono deboli l’espressione del pensiero, la ricerca, il dialogo (cfr. il foglio 340). Nell’ottobre 2007 è stata lanciata la proposta di un percorso tematico comune, sollecitando la nascita di piccoli gruppi di riflessione capaci di lavorare in autonomia e, al contempo, di aderire a un progetto comune. Da novembre 2007 a luglio 2008, 13 gruppi piuttosto vivaci – segno della presenza di nuovi aderenti agli originari firmatari della lettera – si sono incontrati per discutere insieme su tre tematiche ritenute cruciali per il momento attuale della chiesa: Ricercare le parole per dire Dio nel nostro tempo, Essere cristiani nel mondo, Sperare in una chiesa di comunione e di profezia. Ogni gruppo ha prodotto una relazione finale che ha messo a disposizione degli altri gruppi e del coordinamento (e che sono disponibili sul sito www.chiccodisenape.wordpress.com).

A partire da questi testi sono state elaborate tre relazioni – delle quali il testo che segue non è che un ampio estratto – che saranno i punti di partenza per il convegno del prossimo 8 novembre (vedi box a pag. 2). I relatori – Serena Noceti, Giuseppe Ruggieri, Marco Vergottini – si confronteranno su questi testi, nello spirito comune di riconoscersi «amici» nel Signore, che ha definito in questo modo i chiamati ad annunciare e testimoniare il suo amore (cfr. Gv 15,12-17).

I diversi gruppi di riflessione hanno tracciato analisi omogenee, pur nella varietà dei modi di approccio al problema. Oltre a questo accurato quadro “diagnostico”, i gruppi hanno tracciato ampie prospettive propositive e concrete ipotesi di lavoro, delle quali si avrà modo di parlare durante il convegno.

Sono tutte tracce della speranza che, in un confronto serio e caritatevole, nel costante confronto con la Parola, sarà forse possibile superare le lacerazioni che attualmente attraversano la chiesa, lacerazioni che possono sfociare nell’indifferenza e nella marginalizzazione di molti credenti e che impoveriscono la testimonianza della chiesa nel mondo.

Ricercare le parole per dire Dio nel nostro tempo

Riguardo a questo tema esistono alcuni nodi cruciali. Il primo convincimento manifesta l’esigenza, quasi come di una precondizione, di un passaggio negativo: «Non nominare invano». Prima ancora che dire o fare, si coglie la necessità che l’intera comunità ecclesiale riprenda il cammino verso la semplicità attraverso degli spazi – il digiuno, la ricerca del silenzio, la rinunzia a occupare ruoli di potere – che spesso sono vissuti come appelli alla singola persona del discepolo. Non è forse richiesto invece in quest’ora di passare in questa lotta dal verbo al singolare al verbo al plurale? Non è forse anche domandato di passare da un’accezione negativa del deserto – deserto delle relazioni, della solitudine e degli outlet come oasi, deserto della dottrina insufficiente, deserto della pseudo-catechesi scolastica ai fanciulli – a quella positiva di spazio dove possa risuonare l’annuncio della consolazione e della bella notizia?

Il secondo punto riguarda l’esigenza di un movimento per mettersi alla presenza del Signore, in ascolto della Sua voce, l’unica che può dare le risposte alla domanda: «Chi ci dirà le cose da dire?». «Come dire Dio oggi? Chiedendo a Lui “chi sei?”. Il Dio incarnato in Gesù Cristo non è un’idea ma una persona, e il modo più diretto per incontrare una persona è conoscerla attraverso ciò che fa e dice; quindi più che parlare di Dio/su Dio, forse occorre ascoltare Dio stesso, che si racconta così come vuol essere conosciuto». E invece troppo spesso nella vita dei cristiani non c’è tempo e spazio per ascoltare la Parola, confinata spesso nei soli momenti liturgici o ridotta a semplice studio, mentre è indispensabile uscire dai rifugi e stare vigilanti, in attesa che il Signore passi per dire quello che ha da dire.

In terzo luogo, proprio nell’ascolto, come uditori, tutti i credenti sono costituiti evangelizzatori: «Chi parlerà?». Vi è un legame intrinseco fra lo status di laici e l’annuncio evangelico: fuori dal tempio, nella vita ordinaria, «sulla strada» (come diceva Romano Penna), tocca ai laici annunciare, per missione propria e non soltanto per supplire alla carenza di ministri ordinati. Questo sguardo permette anche di appropriarsi del proprio vissuto vocazionale: «laici non si nasce ma si diventa attraverso una decisione, una scelta, quindi il laico non è il semplice battezzato … il battezzato può scegliere di diventare prete, religioso, diacono oppure laico», come ricordava Carlo Molari.

Declinati questi aspetti, si giunge al punto centrale: «Che cosa diremo? E perché? E come?». Solamente il riconoscimento di se stessi come persone evangelizzate può portare a un annuncio autentico, che riesca a trasmettere la profondità dell’incontro personale con una Persona che ha mutato la comprensione del mondo donando il suo perdono e la notizia dell’avvento del Regno di Dio. Il Vangelo raggiunge le vite nell’esistere quotidiano, ordinario e banale, di indifferenza e di rassegnazione, ovvero di regole da rispettare per sentirsi all’altezza. «Qui» e «ora» è la Galilea, una terra non particolarmente “santa” dove il Vivente ci precede dopo avere instaurato il Regno. Il perdono è incondizionato, e proprio qui sta l’aspetto stupefacente e creatore: grazie all’esperienza del perdono gratuito, ricevuto e accolto, e nuovamente dato, si creano relazioni di qualità nuova, «gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco» (per usare le parole di Enzo Bianchi), in cui si mostra che la pace è effettivamente possibile e che è parte integrante dell’annuncio. Questo annuncio assume un significato solo a partire dal progetto di uomo che Dio ha pensato. Infatti, senza la rivelazione dell’amore di Dio e della sua chiamata, l’uomo sarebbe imperfetto, egoista, orgoglioso, violento, corrotto... ma non sarebbe peccatore. Forse più che preoccuparsi della perdita del senso del peccato, dobbiamo chiederci se noi veramente riusciamo ad annunciare a quale pienezza di vita ci ha chiamato Dio creandoci. Forse infatti solo la testimonianza di donne e uomini “eucaristici”, ossia persone che tentano di vivere nella propria vita l’atteggiamento di Gesù-Eucarestia, di offerta per Dio e per i fratelli, facendo scelte di pace e di comunione, può incidere sulle persone che quotidianamente sperimentano la fatica, la sofferenza, la morte.

L’ultimo nodo da sciogliere riguarda le domande: «Con chi parleremo? E dove?». Si è già detto che la strada è il luogo di annuncio, ma ora si vuole aggiungere una parola sui destinatari: se c’è chi vede la necessita di annunciare ai lontani – come la figura di Charles de Foucault, approfondita da un gruppo, testimonia –, vi è in tutti i gruppi l’esigenza nuova di ri-annunciare ai vicini o ai semi-vicini. Il popolo di Dio è infatti variegato e formato anche persone che hanno sì avuto un certo grado di vaga formazione cristiana in gioventù ma che possono essere considerate in questo ambito «analfabeti di ritorno»; comprende coloro secondo, coloro che hanno un interesse per Dio e per Gesù Cristo, ma sono scoraggiati dall’insegnamento o dall’atteggiamento di persone della chiesa o anche ostili ad essa, percepita esclusivamente come istituzione; e abbraccia anche i giovani estranei alla cultura “cattolica”, privi ormai quasi del tutto della possibilità di contatti linguistici diretti con il Vangelo.

 

Essere cristiani nel mondo

La liquida (per usare la definizione del sociologo Zygmunt Bauman) società contemporanea è il complesso contesto in cui il credente vive e in cui la sua identità sembra diventare sempre più sfuggente e precaria, anche se per motivi quasi opposti.

La chiesa infatti sembra assumere un forte posizione identitaria; accentuando però gli elementi di compattezza e di autorità – quasi solo a livello di dottrina e di dottrina morale – di fatto espone il credente alle sue sole forze nel tentare di tradurre la fede nel vissuto della condizione quotidiana.

Di converso, le tendenze di pensiero e di vita diffuse non possono non influire anche sulla vita del credente, per quanto egli voglia assumere una posizione critica, anche se sempre più costretta nei limiti dell’individualità per l’affievolirsi di una ricerca comunitaria reale e condivisa.

chiesa e mondo ritornano a relazionarsi polarmente. Le prospettive del Vaticano II –la chiesa nel mondo contemporaneo – sono state abbandonate, quasi che la chiesa voglia uscirne per ridefinire se stessa. Per il laico questo indirizzo ha l’effetto di costringerlo a una condizione dilaniata con conseguente divaricazione: credenti critici o credenti acritici. Nel primo caso si è risospinti ai margini della chiesa, perché in assenza di luoghi di ricerca e di dibattito l’aspetto critico è avvertito come inaffidabile e pericoloso; nel secondo vi si è installati ben dentro ma si evitano le domande e le questioni poste dalla vita e ci si affida a soluzioni nette e preconfezionate.

Dalle relazioni di sintesi del percorso di riflessione dei gruppi emerge un forte desiderio di dialogo che non trova però la possibilità di esprimersi perché non è pratica corrente nella vita della chiesa. Ciò che il Vaticano II aveva detto del laicato sembra arretrare nel passato di un’acquisizione teologica senza corso nella vita recente e attuale della chiesa. Nell’opinione pubblica ma anche nella pratica ecclesiale la chiesa ritorna ad essere la gerarchia. E se questa è molto più presente nella vita pubblica, senza deleghe e mediazioni, non ne consegue una maggior comunicazione anche nello stesso popolo credente («va ribaltata la procedura attuale secondo la quale la gerarchia si pronuncia e i laici si arrabattano»).

«È comunque sotto gli occhi di tutti che, a 40 anni da quei momenti, oggi, anche limitando lo sguardo all’accoglienza delle indicazioni del Concilio per quanto riguarda il laicato, il bilancio appare non solo modesto ma sostanzialmente scoraggiante».

 

Sperare in un chiesa di comunione e di profezia

Il frequente richiamo al Vaticano II si radica sulla sensazione che il Concilio non abbia potuto dare i suoi frutti, perché è prevalsa la volontà di annacquare o addirittura di archiviare. Sembra infatti che temi quali il sacerdozio universale, la chiesa come popolo di Dio, la responsabilità primaria dei laici nella testimonianza del Vangelo del mondo siano progressivamente diventati in gran parte obsoleti.

Nasce di qui un diffuso senso di disagio e qualche volta di frustrazione: il Concilio, che aveva aperto la speranza di una chiesa di comunione e di profezia (e i due termini sono inseparabili), è per molti una speranza delusa. Alla comunione si oppongono, infatti, due atteggiamenti molto diffusi. Da un lato, un irrigidimento della struttura verticistica della chiesa – dalla chiesa universale alla parrocchia – che può essere valutato sul piano sociologico come un esito inevitabile di tutte le organizzazioni sociali, ma che non per questo non va contrastato. Esso ha sottratto ai laici anche i neonati spazi di autonomia che qualche decennio fa ancora sussistevano e ha accentuato il dualismo chierici-laici all’interno della chiesa, consolidatosi in un atteggiamento di ascolto e comprensione minori.

D’altro lato, almeno nei suoi vertici, sembra aver sostituito la profezia con la politica sia riguardo alle forme del suo agire (forme da gruppo di pressione che adotta metodi e strategie politiche e ricerca il consenso) sia, molto spesso, riguardo agli obiettivi perseguiti, che sono obiettivi di difesa e consolidamento di posizioni di potere e di presenza istituzionale nella società. Conseguenza inevitabile di questo orientamento è la riabilitazione del cattolicesimo come religione civile, e cioè religione etico-politica e identitaria, e il corrispondente tramonto della parola e dell’azione profetica, che ha sempre un carattere dialettico e rimanda al Regno e al «non ancora».

Sarebbe invece necessario recuperare uno stile diverso, contraddistinto da un forte senso di libertà – perché senza libertà non c’è comunione – e di confronto tra laici per permettere l’autonomia delle scelte e nelle modalità di manifestare la fede nelle realtà e nelle attività mondane. Ma la chiesa potrà esercitare la sua funzione profetica solo assumendo la forma di piccolo gregge in diaspora, libero da compromessi con i poteri del mondo, che con la sua vita e il suo annuncio porta germi di speranza senza pretendere di dare una risposta a tutti i problemi, ma ricercando la verità con tutti gli uomini di buona volontà. Senza la profezia la chiesa degenera in istituzione, si adatta allo spirito del mondo e diventa collusa con i poteri. Mettere l’accento sulla profezia significa sottolineare la funzione dello Spirito, che è libertà e universalità: profezia è rompere le incrostazioni, è creatività, apertura al futuro.

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