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etica
Oggi «fa tendenza» (si dice così?) non avere certezze. Guai! C’è da vergognarsene. Devi interrogare, ma non asserire. Altrimenti non sei ammesso nella buona compagnia, quella che conta. Ora, mi accade di riascoltare parole come queste: «Il sangue di Abele grida dalla terra, e quel grido arriva fino a Dio! (Genesi 4). Fino a Dio!… Ma nulla di quaggiù può pretendere di arrivare a Dio. Discorsi come questo li possiamo comprendere come miti antichi, ma se li mutiamo in pensieri rigorosi, facciamo dell’integralismo». Vai a dirlo ai tanti Abele che aspettano l’eco del grido salito a Dio, ora sperano, ora tremano per il silenzio. Sappiamo abbastanza quanta prudenza è necessaria riguardo alle pretese di verità. Ma sappiamo anche che quella certa moda culturale (peritura, o presto relativizzata, come tutto nel tempo) è oggi spesso un assoluto opposto all’altro assoluto, un vezzo per il quale si ha paura di dire o di ascoltare, o immaginare, una parola di verità. Sacro, giusto, infallibile
Poi sento di nuovo una voce bella e tragica del nostro tempo, che ha distillato un bel po’ di sapienza, come pochissimi altri, dall’esperienza della vita e del dolore, Simone Weil (Simone Weil, La persona e il sacro, citata in Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1992, pp. 141-166): «C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano» (p. 142). Invincibilmente. E questo è sacro. «Tutte le volte che sorge dal profondo di un cuore umano il lamento del fanciullo che Cristo stesso non ha saputo trattenere: “Perché mi viene fatto del male?”, vi è certamente ingiustizia» (p. 143). È certo: se lì è violata la giustizia, la giustizia esiste. «Come un vagabondo, accusato in tribunale di aver preso una carota in un campo, sta in piedi di fronte al giudice, il quale, comodamente seduto, infila elegantemente domande, commenti e scherzi, mentre l’altro non riesce neanche a balbettare; così sta la verità di fronte a un’intelligenza occupata da allineare elegantemente opinioni» (p. 157). La verità balbetta umiliata, di fronte all’intelligenza che la interroga senza ascoltarla né riconoscerla. «La giustizia consiste nel badare che non venga fatto del male agli esseri umani. Vien fatto del male a un essere umano quando grida interiormente “Perché mi viene fatto del male?”. Spesso si sbaglia appena cerca di rendersi conto del male che subisce, di chi glielo infligge, del perché gli viene inflitto. Ma il grido è infallibile» (p. 162). Il grido è infallibile, tanto in Cristo crocifisso innocente, incarnatosi or ora nei bambini di Gaza, e nelle altre infinite vittime non viste, quanto nell’ultimo animale maltrattato, forse anche nella zanzara schiacciata, e persino nel vero delinquente colpito da quell’«unica cosa, nella società moderna, ancor più orrenda del crimine, la giustizia repressiva» (p. 163). Allora, se quel grido è infallibile, lì c’è la verità. Quella domanda cieca contiene la verità. Contiene almeno l’ombra della verità: l’ombra su di noi degli ingombri che frapponiamo tra noi e la luce. Ma quell’ombra è segno di Dio, è opera della luce, se la verità è Dio, come dice Gandhi, di là da ogni idea e religione, da ogni teologia affermativa o negativa, da ogni sapere e ignorare. Quel grido buio, che sembra allo stolto la vittoria dell’abisso, è l’unico chiaro e oscuro, oscuro e chiaro, segno di Dio su di noi: «Perché mi viene fatto del male?». Quel grido interrogativo è affermativo: al male non ci si rassegna; il male deve render conto; il male deve-non-essere; il male è giudicato, anche se ancora non sento e non vedo il giudizio; il male non è l’ultima parola: questo mio grido lo sovrasta e lo scalza dal vertice della realtà. Questo grido sempre aperto è la porta della luce che ancora non viene. Una luce ancora intercettata dall’ombra. Ma da quell’ombra, posata su Maria, è nato il Cristo Gesù. Nelle ombre delle luci, noi gridiamo e interroghiamo non vanamente il nulla, ma la luce, nei suoi diversi raggi che a volte traspaiono. Non ci sarebbe grido, ma silenzio morto, se non avessimo nella gola l’impeto del cuore che vede prima degli occhi e dell’intelligenza: vede che la vita ha ragione, che non può essere offesa, che si affermerà sul male. Nessuno di noi è infallibile. Quel grido in noi, la verità della vittima, è infallibile. Valore veritativo del dubbio
Non sto incidendo un dogma nel piombo. Conosco e sento mia quella espressione onesta e vitale di Michele Do, cristiano, che diceva di avere «alcune dubitose irrinunciabili chiarezze». Tanto dubitose quanto irrinunciabili. Chiarezze, non ipotesi o opinioni. Non sto esecrando il dubbio. La verità non esclude il dubbio. Anzi, il dubbio collabora alla verità. Poiché non afferriamo la verità, non la mettiamo in tasca come un oggetto, ma l’abbiamo di fronte come in una relazione, come un orizzonte, dunque il dubbio, l’incompiutezza, la strada ancora da percorrere, l’ignoranza, accompagnano la conoscenza come l’ombra accompagna un corpo in presenza di una luce. Più si impara, più si ignora. Non si sa tutto, non si sa fino in fondo, non si sa con una certezza senza ombre (se non le verità inferiori a noi, tecniche, utili). Non si sa «senza ombra di dubbio»: infatti, ogni verità conosciuta ha la sua ombra. La possibilità del diverso e del contrario non è esclusa in modo assoluto dalle nostre convinzioni. Il dubbio non è soltanto un nemico della verità. C’è un dubbio negativo, radicale: tutto ciò che conosciamo non è reale conoscenza, è solo apparenza; ma c’è anche un dubbio positivo, interrogativo, attivo, procedurale, di insoddisfazione e stimolo, per l’ignoranza che accompagna il sapere, e per il desiderio di sapere meglio. I dubbi possono portare avanti nella verità, scuotendo precedenti assestamenti, quindi possono essere non dubbi dissolutori, così da farci perdere il tesoro trovato nel campo, ma necessari passaggi faticosi di un ulteriore cammino valido. C’è una funzione veritativa del dubbio: esso libera la verità dalla crosta dura irrigidita della retorica, del dogmatismo, dell’ideologia, dell’appagamento; il dubbio veritativo è l’apertura di ogni verità al suo inveramento ulteriore, oppure alla sua verifica-falsificazione, che porta a una più vera verità. Si tratta del dubbio scientifico. La scienza ha «simpatia per l’errore» (Carl Friedrich von Weizsäcker, Il tempo stringe, Queriniana 1987, pp. 56, 65, 67, 127), per la scoperta dell’errore, che le permette un passo avanti nella migliore conoscenza. Quando una conoscenza diventa ovvia, come l’arresto di un cammino, è allora che bisogna dubitarne, per darle nuova verità. Il dubbio è la fragilità feconda di un’affermazione aperta all’interrogazione; è la qualità di una sostanza, non è una sostanza. Se il dubbio ha ragione diventa un’affermazione. Il dubbio attivo cerca una nuova certezza di verità. Testimonia la verità attesa. La verità è irrinunciabile tensione costitutiva dell’umanità autentica, è una realtà viva all’orizzonte, che ci attrae, non è illusione né presunto possesso. Non è una de-finizione che limita, che con-fina, ma una in-dicazione che apre, pro-spetta. Perciò non è fondata né giusta la critica di integralismo, fondamentalismo, cioè assolutismo, a chi sente forti sincere convinzioni, quelle «irrinunciabili chiarezze». Se non è stoltamente fissato, ma continua a pensare e cercare, amando la verità ulteriore più di quella presente, egli non perde la verità e non perde l’intelligenza prudente e critica. Enrico Peyretti
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