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 361 - FUMISTERIE TEOLOGICHE
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In una discussione redazionale di qualche tempo fa Aldo Bodrato ha riportato un pensiero di Scoto Eriugena, di cui è stato appassionato cultore, secondo il quale «Dio non conosce se stesso come essere ma come mistero». Frase che davvero pare carica di una densità speculativa e di una suggestione linguistica non comuni. Richiesto di maggiori informazioni, Bodrato ha specificato che quelle non sono precisamente le parole originali di Eriugena, ma una formulazione riassuntiva fatta da lui e ha indicato alcuni luoghi del De divisione naturae che lambiscono questo tema, con l'avvertenza che il testo di Eriugena è un dialogo complesso fra Maestro e Allievo, poco lineare e intessuto di continue riprese e approfondimenti, con la precisazione inoltre che la parola mysterium nei passi in questione è assente.

Ne La filosofia nel Medioevo di Gilson si può leggere che: «Eriugena si rappresenta la natura divina come inconoscibile, non soltanto per noi, ma per se stessa, senza una rivelazione che sia una creazione. Come egli dice nel suo De divisione naturae (III, 23), Dio stesso non può conoscersi che come un essere, una natura, un'essenza, cioè come finito; ora egli è infinito, al di là dell'essere, della natura e dell'essenza; per conoscersi gli è quindi necessario incominciare ad essere, ciò che egli non può fare che diventando qualcosa d'altro da sé». Di primo acchito parrebbe avvertirsi una tensione tra questa formulazione di Gilson e quella precedente, nella prima si sostiene infatti che Dio non si conosce come essere, nella seconda che non può conoscersi che come essere. Però questo contrasto è forse più apparente che reale, come si può evincere dal seguito della citazione, nel senso che in quanto infinito e illimitato Dio non riesce a conoscersi, per farlo è costretto in qualche modo a delimitarsi, a divenire «essere». Ma la frase «Dio non conosce se stesso come essere ma come mistero» suggerisce qualcos'altro di leggermente diverso, che non sono in grado di affermare se possa venire attribuito allo stesso Eriugena. Vale a dire che non semplicemente Dio, nel suo abissale sé originario, nulla conosce di sé, ma appunto si conosce come mistero, ovvero intuisce qualcosa di se stesso e della sua potenza, sa di esistere e di esistere come Dio, ma non è in grado di enumerare tutte le sue potenzialità, non conosce completamente il proprio futuro, né ha previsione di tutte le azioni che vorrà compiere, non possiede forse nemmeno la certezza di continuare a esistere. Si conosce dunque come mistero nel senso che, al tempo stesso, si conosce e non si conosce: conoscenza e ignoranza sono entrambe presenti in Lui, si spartiscono la vita divina e la lacerano, lungi dall’essere questa fondata su una conoscenza «chiara e distinta» di ogni fremito presente nel tempo e nello spazio o al di là di essi, di ogni possibilità che si muterà in attuazione o mancherà di farlo.

A somiglianza di Dio

Naturalmente parlare delle profondità della vita divina equivale sempre a uno straparlare. Una volta consapevoli della natura di questo discorso, tentiamo qualche riflessione a ruota libera, lasciandoci guidare dalla forza evocativa suscitata dall’«inconoscibilità divina» di Eriugena, ma senza la pretesa di rifarci fedelmente al dettato teologico eriugeniano o di proporci come eredi attendibili della sua ispirazione filosofica. Pensare a una stretta relazione fra Dio e mistero, non potrebbe, ad esempio, aiutarci a rendere ragione dell’idea ebraica e cristiana dell’essere fatti a somiglianza di Dio? Possiamo infatti noi uomini dire di conoscerci altrimenti che come mistero? Sappiamo, o crediamo di sapere, di essere qualcosa che vive e pensa, ma non sappiamo se siamo stati qualcosa prima di nascere o qualcosa continueremo a essere dopo la morte. Non conosciamo certo tutte le azioni che potremmo essere in grado di compiere, nel bene come nel male, tanto che qualche volta proviamo meraviglia di fronte alle nostre stesse reazioni, dubitiamo magari dei nostri sentimenti e delle nostre idee, e così via: siamo un pozzo inconoscibile, che a nessuna psicoanalisi sarà mai dato esplorare integralmente. Certo non conosciamo il futuro o come si snoderà il tempo che ci rimane. Ci troviamo insomma nella condizione di «gettati», come recita una formula filosofica di successo. Un po' meglio, anche se mai del tutto e in forme che non ci è lecito pretendere di controllare interamente, conosciamo probabilmente gli oggetti che creiamo, le leggi e i costumi cui diamo vita, il funzionamento delle macchine che progettiamo, ecc. Attraverso l'intero spettro delle nostre opere possiamo dire di avviare un processo di esplorazione, sempre parziale e mai concluso, di noi stessi. Ecco dunque, descritto in maniera molto sommaria e approssimativa, il possibile anello di congiunzione tra Dio e noi. Per provare a conoscersi, come riporta Gilson, per cercare di chiarirsi Dio crea delle «cose» o dà loro il via, ma forse faremmo meglio a dire che tenta di creare, senza sapere con esattezza ciò che creerà, mancando di un progetto definito, procedendo appunto per tentativi, affidandosi al rischio della libertà – o forse scoprendo in quel momento lo spazio stesso della libertà –, mosso come noi uomini dalla curiosità di fronte all'ignoto e dunque anche provato dall’angoscia di fronte ad esso. Quindi mancando di onniscienza, di onnipotenza e di provvidenza, privo di dominio degli eventi e senza percorsi lineari e scanditi, senza binari sicuri alla Teilhard de Chardin, senza garanzie di redenzione, ma a tastoni, se così è lecito esprimersi, provando in corso d'opera a dissipare qualche lembo di quel mistero che egli è a se stesso. E se fosse in questo suo procedere un po' confuso che Dio scopre di essere (di avere la possibilità di essere, di non poter fare altrimenti che essere) un Dio d'amore? Se non ne avesse avuto consapevolezza sin dall'inizio? Se non avesse creato in forza di questo motivo, ma fosse questo il debito che sente di aver contratto dopo aver creato?

Dio e amore

Forse l’amore segue la Creazione, non la regge come sua intuizione originaria. Quasi sempre nella tradizione cristiana si è pensato a un Dio che crea mosso dall’amore, un Dio che per sovrabbondanza d’amore s’incarna per salvare la Creazione sfigurata dall’uomo. Sovente questo Dio è stato inteso come l’artefice di una natura uscita incontaminata dalla sua mente e si è creduto che la sua volontà fosse strettamente incorporata nelle leggi naturali. In altri casi, soprattutto a partire dalla scossa intellettuale provocata dalla rivoluzione darwiniana, si è invece insistito sull’autonomia del mondo rispetto a Dio e sulla libertà lasciata alla Creazione di edificare e trasformare se stessa, prendendo anche in considerazione l’ipotesi di un Dio debole e magari incapace di salvare le sue creature. Le differenze di prospettiva sono rilevanti, ma in genere non sembra mutare l’opzione di fondo di un Dio-Amore che apre lo spazio dell’Essere: l’esistenza delle cose è voluta perché profondamente amata sin dall’avvio. Quasi mai invece si batte l’altra strada, cioè che l’amore non sia un prius ma un affioramento successivo. La Creazione potrebbe derivare prioritariamente da un’esigenza di conoscenza priva di altre implicazioni. Desiderio di sapere, di uscire dai propri limiti, di esplorare l’ignoto, puro eros senza agape (si potrebbe azzardare che prima di essere dell’uomo, il peccato di conoscenza è di Dio). Se dunque l’amore non fosse il dono gratuito dell’origine, ma una scoperta successiva, un bisogno manifestatosi in Dio in un secondo momento? Una sorta di maturazione interna alla vita divina, emersa dalla volontà di correggere l’impulso dell’inizio. Forse l’amore è una risposta disperata che Dio cerca di dare al suo passato nella speranza di cancellarlo, forse il frutto di un pentimento. Il tentativo di placare il rimorso di aver creato.

Massimiliano Fortuna

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