|
Mappa | 40 utenti on line |
![]()
|
politica
C’è stato un partito popolare, e c’è stato un partito che aveva l’inno Avanti popolo! Per questi, il popolo col quale si schieravano non era proprio l’intero, ma, più o meno nettamente, era la parte povera, umile, esclusa dal comando del paese, che chiedeva riscatto e partecipazione. Il partito ora nato, già grande, sembra avere l’ossessione del tutto, della totalità. Secondo Scalfari, esso rappresenta un blocco sociale ben definibile: quelli, entro il «popolo della partita Iva», che si identificano nell’impresario di Arcore, che concepiscono la politica più come «sortirne da soli» che come «sortirne insieme», che non hanno il modello del solidarismo ma dell’individualismo, che hanno qualcosa da difendere o pensano di saperselo conquistare, che vedono la competizione come regola prima della convivenza e come essenza della società. La libertà, in questa cultura, è il poter fare ciò che si può fare, si identifica con la capacità più che con una finalità, teme più le regole che l’arbitrio. La cosa strana, alla prima osservazione, è che questo liberismo si rappresenta in un partito personale del capo, si pronuncia con la «democrazia dell’applauso», pregna di tutte le finzioni dell’unanimità tattica, non si preoccupa di darsi struttura e dialettica democratica interna. Ora, con la fusione dei due precedenti partiti, pare che si formi una struttura dirigente, ma non si vede una effettiva democrazia di base, e il congresso fondatore è stato un festival rituale e non una discussione. Liberismo senza libertà? La cosa, invero, è meno strana di quanto sembri: quella cultura tutta pragmatica ammira ed esalta il vincitore in quanto tale, segue la sua forza di trascinamento, senza pari attenzione per programmi e fini qualitativi, senza considerazione per le alternative cadute o perdute, come aventi ancora un possibile valore. Interessa il successo, l’efficacia pratica pronta, più della fecondità lunga in vista di obiettivi umani scelti. C’è il primato dell’economico, non nel senso del primario bisogno materiale del povero, ma dell’acquisizione consumistica al di là di ogni liberante sufficienza e sobrietà. Il suo simbolo stradale esibito è l’orrendo Suv. Chi primeggia in questa corsa diventa il capo naturale. L’antipolitica
Ma il partito personale è la vera antipolitica. Non è l’arte di tessere la vita della polis, nel libero confronto di valore fra le sue componenti, ma l’arte di primeggiare sulla polis. L’ideale ripetuto e sognato dal gran capo è il 51% dei consensi, cioè il potere di governare senza margini e limiti. Ma pilotare un agglomerato di interessi dà una forza fragile. Gli interessi capaci di fare blocco nel momento di crisi, di difesa, o di assalto, per definizione sono pronti a dividersi e scontrarsi. Solo obiettivi più degni uniscono le persone in un cammino teso davvero ad un futuro costruttivo, non spettacolare e nuovista. Naturalmente, gli interessi si vestono, come sempre, con la pelle dei valori divorati. Si può obiettare che una dialettica è comparsa chiara tra l’impostazione di Berlusconi e quella di Fini. Certamente, è un segno di vita e di movimento, da valutare. Fini va democraticamente sorvegliato (come tutti, del resto). Gli va dato atto di aver fatto un cammino, forse maggiore di altri convergenti al centro, o fissi in posizioni non ripensate, ma ci ricordiamo che recentemente ha parlato del MSI come il partito di chi non si rassegnò, nel 1946. A che cosa non si rassegnò? Popolo sovrano non assoluto
Per esempio, la riforma della seconda parte della Costituzione potrà avvenire in modo sano e funzionale solo nella misura in cui sarà rafforzato nelle coscienze civili il senso autentico di tutta la prima parte. Ora, l’appello enfatico al popolo sovrano da parte di chi si fa delegare il potere, dimostra di non avere ben chiare «le forme e i limiti» dell’esercizio di quella sovranità, che sono accuratamente stabilite da tutto il senso giuridico e storico-culturale della Costituzione. Inoltre, «la Costituzione nasce, sì, per regolare le forme di esercizio del potere attribuito al popolo, ma anche, o ancor prima, per fissare i «confini» di questo potere, dunque per limitarlo. Anche il «popolo sovrano» non può e non deve essere un sovrano assoluto» (Valerio Onida, La Costituzione, Il Mulino 2004, pp. 20-21, ma anche pp. 85, 104, 108, 113, 116). Non basta che un potere assoluto passi da una mano all’altra: non deve essere assoluto. Questo è il costituzionalismo, sconosciuto alla proprietà economica, rimasta quasi puramente sovrana, e a chi ha solo questa ristretta cultura. Lo stesso concetto di sovranità, da cui ama sentirsi investito e consacrato l’eletto dal popolo, è «un concetto ormai certo usurato, ma ancora pregno di storia» (ivi, p. 116). In sé, ogni sovranità è fuori-legge, perché si pensa «sopra a tutto», senza alcuna legge umana che la regola. Nella critica filosofica della politica, Jacques Maritain ha smontato il concetto di sovranità (in tutto il cap. II di L’uomo e lo Stato, Marietti 2003). Nella realtà storica lo ha intaccato la novità dello sconfinamento attraverso popoli e territori e della interdipendenza strutturale di gran parte delle attività economiche e dei poteri politici (la «globalizzazione»), e però lo ha spostato in poteri planetari per lo più occulti e incontrollati. Un’altra non piccola tensione interna al nuovo partito è quella tra la forma laica della politica, rivendicata da Fini, e la forma clerico-fascista esercitata dal governo in carica. Come si risolverà? Avrà pur sempre bisogno di alleati, il Pdl, fino al sognato 51%, e né la Lega né l’Udc (Casini: «Abbiamo un’idea diversa della politica») sembrano assecondare in tutto e sempre l’onnipotenza del capo. Ma l’Osservatore Romano del 30 marzo benedice compiaciuto la fondazione del Pdl, che è, «alla prova dei fatti, maggiormente in grado di esprimere i valori comuni della popolazione italiana, tra i quali quelli cattolici costituiscono una parte non secondaria». C’era una volta la dottrina sociale cristiana che privilegiava il solidarismo sull’egoismo proprietario. C’è sempre l’antico peccato chiesastico del trescare coi poteri del mondo. Subito dopo, il segretario della Cei ha chiarito che i vescovi non sposano nessun partito, ma guardano ai fatti. Come se i fatti non parlassero già chiaro. Nella prospettiva internazionale del nuovo partito, c’è solo l’economia in crisi e niente sui conflitti aperti e la ricerca di pace. Nella prospettiva europea, solo la candidatura-bandiera del leader e il dirsi forza trainante nel Partito popolare europeo. Quale libertà
Quanto al Pd, la segreteria Franceschini sembra volere risvegliarne la fisionomia alternativa, ma qual è l’animo e l’idea politica del suo apparato e dell’elettorato? Ci chiediamo preoccupati se e quanto abbia ragione Franco Monaco (già deputato dell'Ulivo, laico cattolico che fu anche collaboratore del card. Martini), in un saggio molto articolato, che non si riassume in una frase, ma che pure in essa sintetizza il timore di molti. Egli scrive che sia negli ex-comunisti, sia negli ex-popolari, si constata «una subalternità culturale prima che politica ai paradigmi e alle soluzioni della destra», della quale l'opposizione adotta «le stesse ricette, con la sola variante di un loro temperamento, in nome di un declamato riformismo (mai parola fu tanto abusata ed equivoca) fatto coincidere con il moderatismo» (PD, un partito... mai partito, in «Appunti di cultura e politica», n. 1/2009, p. 7; info@cittadelluomo.it , rivista del gruppo di cattolici democratici creato da Lazzati, la parte migliore e più seria della vecchia DC). Della sinistra, fin quando non saprà chiarire la sua idea e darsi una organizzazione abbastanza unitaria per concorrere, è meglio tacere per pietà. Dunque, quale libertà è pensata nel partito aspirante ad essere tutto? E quale libertà attorno a quel partito? E quale libertà noi pensiamo e cerchiamo? «La libertà è riconoscibile effettivamente come un bisogno fondamentale della persona, ma, del resto, dove c’è uno stato di bisogno è proprio la libertà a risultare inibita». «La libertà di fare qualcosa, oltre che la libertà da ciò che lo impedirebbe, implica la libertà per uno scopo, verso una meta. E, considerata la struttura relazionale della vita umana, implica anche una libertà con, che fiorisce non nonostante, ma tramite la relazione con gli altri». «Uno stile di vita fondato sulla condivisione non nega i bisogni, ma ne orienta il corso diversamente rispetto a uno stile di vita fondato sull’interesse privato» (Roberto Mancini, L’umanità promessa, Qiqaion 2009, pp. 34, 35, 37). Enrico Peyretti
|
![]()
|
copyright © 2005 il foglio - ideazione e realizzazione delfino maria rosso - powered by fullxml |