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 362 - 25 APRILE, STORIE DA NON DIMENTICARE

 

UNA «ROSA BIANCA» A TORINO

 

Ottobre 1940: la guerra aggressiva dell’Italia, proclamata a giugno, non ha ancora intaccato il consenso generale per il fascismo, l’illusione è che sarà breve e vittoriosa. La Francia è occupata, l’Inghilterra seriamente a rischio di uno sbarco tedesco, le armate di Hitler dilagano in tutta Europa, l’intervento degli Usa lontano e incerto. Mussolini attende il migliaio di morti per sedersi al tavolo della pace e, dopo l’inizio poco brillante della pugnalata alla schiena inferta sul fronte occidentale, attua l’invasione dell’Albania e della Grecia, confondendo, si dice, sulle carte geografiche i fiumi con le strade.

 

Quando regime che mandava in villeggiatura gli avversari

Eppure… nelle case di un certo numero di torinesi giungono per posta lettere di questo tenore: «Italiani! È ora di ribellarsi contro i tiranni e i ladri fascisti servi della Germania… Dobbiamo unirci ed agire per cacciare i carnefici dell’umanità. Viva la libertà. Morte al fascismo!». Gli stessi concetti si trovano in manifesti affissi all’ingresso delle fabbriche o infilati sotto le serrande degli eleganti negozi di Via Roma e, ridotti a slogan, scritti di notte sui muri e sui parapetti dei ponti. L’attività cospirativa durò fino al 1942, quando l’Ovra, la polizia politica, tenuta in scacco per oltre un anno, riuscì ad arrestare, per una banale leggerezza di uno di loro, tutti i dirigenti del gruppo.

Erano alcuni studenti dell’Istituto Sommeiller (in cui insegnavano antifascisti come la prof. Costanza Costantino e il prof. Luigi Negri), poi universitari ad economia, guidati da Aldo Pedussia: qualche storico ha paragonato la loro esperienza a quella della Rosa Bianca di Monaco, iniziata però più tardi, nel giugno 1942. Altri studiosi ne parlano come del Muat (movimento universitario antifascista torinese). Scrive Pedussia riferendosi ad un suo breve saggio elaborato nell’estate del 1940 che pone le basi teoriche per il passaggio all’azione nei mesi successivi: «(esaminavo) le profonde colpevolezze del sistema sotto l’aspetto politico (dittatura), le assurdità economiche (autarchia) e… (vaticinavo) che la fazione dominante avrebbe riservato all’Italia… un domani assai triste di distruzioni morali e materiali» (Walter E. Crivellin, Cattolici, politica e società in Piemonte tra 800 e 900, Torino, 2008). Il gruppo giunge a comprendere venti persone e si costituisce un direttivo composto dallo stesso Pedussia con Furio Cipriani, Marziano Dasso, Lorenzo Zurletti e Domenico Ballarino. Senza alcun collegamento con partiti e movimenti antifascisti, anche se la polizia li riteneva affiliati ai fiorentini di Giustizia e Libertà, erano mossi da ideali e da un profondo imperativo morale più che da un preciso disegno politico e «data la giovane età – è ancora Pedussia che parla – forse ascoltando più il sentimento che la ragione». Pur nella varietà delle loro ispirazioni, prevalevano un certo patriottismo mazziniano, aperto all’Europa, il cattolicesimo liberale, la formazione filosofica e storica attinta da Croce e la riflessione sull’azione politica dei popolari di Sturzo. Arrestati il 17 e il 18 gennaio 1942 sono reclusi alle Nuove di Torino, poi a Regina Coeli e a Castelfranco Emilia. Processati davanti al tribunale speciale di Roma, Pedussia e Ballarino furono condannati a 14 anni, gli altri a pene minori. Scarcerati alla caduta del fascismo nel luglio 1943, furono pienamente riabilitati, dopo la Liberazione, dalla Corte d’Appello di Torino che li assolse perché i fatti non costituivano reato.

Aldo Pedussia partecipò poi alla Resistenza, come referente politico nella zona di Carmagnola e Alba, sempre braccato dai fascisti repubblichini, che gli avevano appioppato l’appellativo di «famigerato», e spesso fortunosamente sfuggendo alla cattura che lo avrebbe sicuramente portato nel lager. Per la sua attività gli fu conferita l’onorificenza di Cavaliere al merito interalleato. Nel primo dopoguerra è stato con Ennio Pistoi tra i più alti dirigenti della Democrazia Cristiana a Torino, protagonista come responsabile stampa e propaganda dello scontro elettorale con le sinistre del 18 aprile 1948. E non dimenticando gli ideali mazziniani, si distinse anche nel Movimento Federalista Europeo con incarichi di livello internazionale. Successivamente si allontanò dall’impegno politico diretto e, come Ennio Pistoi, recentemente scomparso, si dedicò all’attività professionale (divenne, esclusivamente per competenza e merito, direttore generale dell’Acquedotto di Torino, azienda premiata nel 1965 con l’Oscar per il miglior bilancio nel settore pubblico), all’insegnamento universitario e alla ricerca scientifica. All’inizio del 1985 l’allora sindaco Diego Novelli, gli conferiva il «sigillo civico», massima onorificenza della città di Torino, certo con riferimento ai suoi meriti professionali e al suo servizio alla città, ma forse ricordando la dedica che Valdo Fusi (sfuggito alla condanna a morte nell’aprile del ‘44) volle scrivere su una delle prime copie del suo libro Fiori rossi al Martinetto: «Al mio Aldo Pedussia che indicò la strada ai partigiani, con ammirazione».

 

Quelli che «non si arresero»

In un tempo in cui molti tornano a parlare di patria con toni tronfi o ambigui (e chissà cosa ci aspetta per i 150 anni dell’unità italiana) è giusto dire che a quei giovani indomiti di settant’anni fa, spetta, senza riserve, di definirsi patrioti. È doveroso ricordare, in occasione del 25 aprile, queste storie locali ma non minori, che rischiano progressivamente l’oblio, per un debito morale verso chi seppe, con assoluta preveggenza, essere coraggioso e coerente, verso coloro che «non si arresero» al conformismo e che, rischiando di persona, non piegarono la schiena. Anche l’attuale presidente della Camera (terza carica dello Stato) ha parlato con reverenza al congresso di scioglimento di An, lo scorso 22 marzo, di coloro che «non si arresero»; si riferiva, però, ai fondatori nel dicembre 1946 del Movimento Sociale Italiano formato dagli «irriducibili» della repubblica di Salò. Evidentemente quelli che «non si arresero» alla vittoria dei partigiani e degli alleati, alla democrazia, ai valori poi calati nella Costituzione del 1948. Può darsi che gli impegni istituzionali impediscano di ripassare la storia e allora è bene ricordare all’on. Fini, che in questi mesi pur si è distinto per apprezzabili e non conformiste prese di posizione, cosa sarebbe accaduto se avessero vinto coloro che, lui sostiene, «non si arresero». Ce lo dice Primo Levi, in un articolo scritto per il ventennale della Resistenza («Rivista Stipel», Torino 1965): «Solo adesso è possibile... comprendere quale sarebbe stato il destino della nostra civiltà se l’hitlerismo avesse prevalso… un mondo mostruoso… bipartito, di signori e di servi: di signori al di sopra di ogni legge (Herrenvolk), di servi privi di ogni diritto, sottoposti ad ogni arbitrio, condannati ad una esistenza di lavoro estenuante, di ignoranza, di clausura e di fame». E ancora («Corriere della sera» 8/3/74): «Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo, del suo ordine, della sua gerarchia: la consacrazione del privilegio, della non-uguaglianza, della non-libertà… uno sterminato gregge di schiavi, dall’Atlantico agli Urali, a lavorare e ubbidire».

Pier Luigi Quaregna

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