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 363 - In margine all’ultimo libro-intervista di Augias a Mancuso

 

Il laicista e il teologo e il rischio della gnosi

 

Fin dal commento alla presentazione torinese del libro di Mancuso, L'anima e il suo destino (Cortina 2007; il foglio n. 251), abbiamo segnalato che il pensiero del professore del San Raffaele poneva problemi teologici ormai ineludibili, ma prestava il fianco a più di una critica.

Ora che questi ha reso pubbliche le sue idee su Dio, in un’intervista-dibattito con Corrado Augias, Disputa su Dio e dintorni (Mondadori 2009), le critiche sono diventate più pesanti e pressanti, tanto che Enzo Bianchi stesso («Famiglia cristiana», 2009, n.16) è sceso in campo, riprendendo la segnalazione del pericolo di «gnosi» fatta da Bruno Forte in un articolo dell'«Osservatore romano» a proposito del libro sull'anima.

In verità Bianchi segnala soprattutto la difficoltà del dialogo tra uomini di cultura non-credenti e credenti; dialogo che trova nelle iniziative editoriali di Augias la sua punta di diamante mediatica, ma anche i suoi vertici di banalizzazione divulgativa. Ora, osserva il priore di Bose, una certa corrività è forse giornalisticamente inevitabile, ma spesso è anche volutamente enfatizzata da una ripetitività estenuante di luoghi comuni, relativi a colpe ed errori ecclesiastici passati e recenti, indubbiamente gravi o gravissimi, ma che, una volta concordemente riconosciuti, dovrebbero lasciare il campo a un più serio approfondimento dei temi teologici e etico-sociali veri e pressanti.

È su questo punto che si incentra la critica di Bianchi, anche quando dirige alla disinvoltura argomentativa di Mancuso qualche frecciata, che trova nel citato «rischio gnostico» la sua espressione più problematica, ma che potrebbe toccare, a mio giudizio, anche un certo gusto al sensazionalismo, se non al protagonismo quasi vittimistico da parte del noto professore, là dove, toccando temi teologici critici su cui non è certo primo e unico innovatore nella ricerca teologica contemporanea, questi si compiace dei cenni di Augias alla minaccia di chissà quali provvedimenti repressivi e ai rischi di roghi e torture, che si sarebbero corsi se ci si fosse permessa tale libertà di pensiero nei secoli passati, quasi oggi libertà e sincerità di parola non fossero comuni a più di un teologo italiano e straniero.

Detto ciò vediamo di aggiungere due parole sul testo in sé e sulla plausibilità dell'accusa di «gnosticismo» a cui Mancuso, con qualche ragione e qualche esagerazione, tipiche del suo argomentare, si difende in un bell'articolo su «Repubblica» del 25 aprile.

 

Dalla questione chiesa gerarchica alla questione Dio

Innanzitutto, il libro ha due fuochi. Il primo è la lettura critica del ruolo che la chiesa gerarchica cerca oggi di giocare, come ha spesso giocato nel pre-concilio, a tutela del proprio ruolo di custode della cristianità come unità culturale, sociale e politica dell'Italia e dell'Europa. Il secondo è la rimessa in discussione dell'immagine classica di Dio, frutto di una teologia storicamente datata e dominata da una visione fissista e assai poco attenta alla maturazione filosofica, artistica e scientifica dell'Occidente.

Sul primo di questi due fuochi non possiamo che riconoscere che il duo Augias-Mancuso fa a gara nel denunciare il carattere culturalmente, eticamente e socialmente conservatore, se non addirittura retrivo, di molte scelte vaticane e della Cei, che sembrano privilegiare la ricerca del potere socio-politico della chiesa rispetto alla sua stessa funzione originaria di annunciatrice del vangelo. Augias lo fa con lo stile del classico laicista, che vede nella chiesa cattolica, se non nel cristianesimo religioso, la causa principale di gran parte dei mali della storia dell'ultimo millennio. Mancuso si muove come chi, sentendosi parte integrante di questa chiesa, ne riconosce e ne denuncia gli errori in vista di una sua profonda riforma. In questo non credo di dover distinguere sostanzialmente il suo atteggiamento e i suoi argomenti da gran parte di ciò che un lettore del nostro mensile può trovare sulle nostre pagine.

Sul secondo punto, quello dell'immagine di Dio, Augias non dice nulla di particolarmente interessante e nuovo per chi conosce le critiche mosse dal mondo laico di media cultura alla vulgata catechistica della teologia cattolica e Mancuso divulga bene e in modo personale alcune delle teorie teologiche innovative del pensiero cattolico e protestante degli ultimi settant’anni, con particolare attenzione ai tentativi di conciliare scienza e fede in ottica evoluzionista e teilhardiana. In proposito trovo condivisibile la sua osservazione che la visione teologica di Dio e della stessa dottrina salvifica cristiana esige un profondo ripensamento che faccia finalmente i conti con gli sviluppi della storia, della filosofia e anche della scienza in cui si articola tutta la nostra vita di uomini del XXI secolo, e che, per fare questo bisogna prendere di petto alcune questioni di metodo. La prima è che la natura culturale di qualsivoglia discorso teologico, cristiano e non-cristiano, deve fare i conti col carattere poetico-artistico di ogni nostro parlare di Dio e del senso profondo dell'esistenza del mondo e dell'uomo. La seconda è che bisogna, anche per fedeltà agli esiti ultimi della cultura filosofica e scientifica del nostro tempo, della nostra stessa autocomprensione antropologica, sapere che non si può ricostruire una visione globale e unitaria capace di spiegare razionalmente il tutto e bisogna accontentarsi di comprensioni frammentarie e sempre aperte al rinnovarsi della nostra comprensione del vero. La terza, più specificamente propria dell'ottica di fede cristiana, è che bisogna accettare che il problema teologico fondamentale è riuscire a comprendere, se non a risolvere in una visione pienamente conciliativa, che da una parte la teologia esige di comprendere Dio come amore, dall'altra chiede di tenere sempre aperti gli occhi allo scandalo irriducibile del male e sempre tesa la volontà alla battaglia contro il suo potere nella speranza che una completa vittoria su di esso sia non solo possibile, ma teologicamente certa. Certezza su cui vorrei discutere, ma che rinvio ad altri eventuali interventi sul pensiero di Mancuso.

 

«Gnosi» o «panteismo»

Resta, per non eccedere i limiti di una discussione, da chiarire perché Bianchi parli a proposito di Mancuso di rischio «gnostico» e perché Mancuso, con qualche ragione, rigetti tale accusa, che personalmente formulerei in altro modo.

Scrive Bianchi su «Famiglia cristiana»: «Le domande che Mancuso solleva nei suoi scritti sono urgenti e necessitano di una risposta ... ma a mio giudizio le risposte che lui dà si collocano nello spazio della gnosi, in cui storia (intesa come processo evolutivo quasi naturale) è di per sé storia di salvezza e in cui non c'è da parte di Dio, né rivelazione, né grazia (legate a particolari eventi e parole storiche umanamente incarnate)» (le parole tra parentesi sono chiarimenti nostri).

Risponde Mancuso su «Repubblica»: «Lo gnosticismo si basa su tre principi fondamentali: 1) è la conoscenza che salva; 2) questa conoscenza è rivelata a pochi ... ; 3) il contenuto della conoscenza è la distanza del mondo da Dio all'insegna della più acuta contrapposizione tra materia e spirito. Al contrario io sostengo che: 1) è la giustizia che salva; 2) essa può essere attuata da ogni uomo, dentro e fuori la Chiesa, essendo legata alla logica della creazione; 3) la creazione è il cardine teologico decisivo e tra materia e spirito non c'è contrapposizione».

Col che verrebbe da dire che la «gnosi» classica c'entra davvero poco col pensiero di Mancuso, se tale pensiero non contenesse un altro elemento caratteristico della gnosi, vale a dire il rifiuto della continuità di fondo tra ebraismo e cristianesimo e del radicarsi storico della grazia divina, che biblicamente si manifesta e viene recepita dal credente con un atto di fede, legato alla rivelazione della volontà redentrice e della potenza d'amore di Dio come fatto storico singolo e contingente, dal valore, però, universale e assoluto.

Mancuso, enfatizzando l'immagine del prologo giovannea di Gesù come Verbo eterno e cosmico, rispetto al Gesù storico e incarnato del vangelo stesso di Giovanni letto in contiguità coi Sinottici, rifiuta di fatto la storia come dimensione essenziale della fede cristiana e, in ultima analisi, della stessa realtà umana e della stessa natura. Lo dice nel suo articolo, dove rimprovera a Bianchi di ricadere, attraverso la valorizzazione della storicità concreta della fede nel Crocefisso risorto, nel «fuori della Chiesa non c'è salvezza», e lo dice nei suoi due libri dove privilegia l'immortalità naturale dell'anima rispetto alla “follia” della resurrezione e la natura rispetto alla storia.

 

I limiti del naturalismo di Mancuso

Lo ribadisce con forza nella parte finale della sua ultima opera, facendosi forte dell'invito dell'illuminista Lessing a saltare a più pari lo «sporco fossato della storia», per avvicinarsi alla verità pura della ragione naturale, unica capace di produrre una dimensione universale dell'essere e del pensiero: «La chiave di volta sta nel riflettere sul mistero della natura capace di generare la vita, sulla religione, che può scaturire dalla natura e dalla sua forza vitale e quindi essere veramente universale, valida per ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo, una religione da non vedersi, però, in opposizione alla religione storica (come volevano gli illuministi), ma in armonia con essa, anche se la religione basata sulla storia deve venire a essa ultimamente finalizzata. La chiave di volta, teologicamente parlando, sta nel concetto di creazione, che a mio avviso deve assumere il primato. Vale a dire: Dio ha creato per essere non per credere, per essere uomini, non per essere credenti. Il credere è finalizzato all'essere. Il credere è finalizzato all'uomo, la Chiesa è finalizzata al mondo» (pp. 194-95).

Conclusioni queste ultime condivisibili e importantissime, ma che nel momento in cui escludono dall'orizzonte di tutto questo processo la libertà dell'agire di Dio e dell'uomo nella storia, sottomettendola alle leggi intrinseche dello sviluppo evolutivo naturale, vanificano non solo la visione cristiana di Dio, la sua rappresentazione come amore infinito e gratuito, la decisività storico-salvifica della vita, predicazione, passione e morte del Nazareno, ma le stesse premesse metodologiche sopra ricordate da lui stesso, dove parla di discorso su Dio legato al parlare poetico, che è almeno tanto storico quanto naturale, alla impossibilità di trasformare la teologia in sistema compiuto ed esauriente della verità del mistero di Dio e del mondo e in ultimo la stessa possibilità di agire etico giusto, che non può derivare da necessità naturale universalmente data, ma solo dalla capacità di tradurre la libertà personale e storica in progetto di libertà sociale e universale nuova.

Il che in due parole prospetta il pericolo più di una deriva della teologia verso il panteismo che verso la gnosi. Questo senza volere squalificare come eretica la ricerca teologica dell'autore, ma per segnalare punti discutibili, che chiedono approfondimento da parte sua e da parte nostra.

 

Aldo Bodrato

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