Nel gennaio 1994, Berlusconi non è ancora sceso in politica. Lo farà subito dopo. È presidente del consiglio d’amministrazione della Fininvest, che, per mettere le mani sulla Mondadori, corrompe tramite Previti (condannato con sentenza definitiva) il giudice Metta per ottenere una sentenza favorevole (come infatti è avvenuto). Ma dal tribunale civile la Fininvest è stata recentemente condannata in primo grado dal giudice Mesiano (estensore della sentenza) a versare 750 milioni di euro alla Cir di De Benedetti, il concorrente escluso dall’ingente corruzione.
Bisogna entrare nel merito, e non come parecchi quotidiani limitarsi a considerazioni formali: è vero o non è vero che la Fininvest ha versato la somma suddetta al giudice? Se non è vero, Berlusconi ha tutte le ragioni per parlare di accanimento-complotto da parte dei giudici; ma se è vero, è corresponsabile della suddetta corruzione (come dice espressamente la sentenza di Mesiano), e come minimo dovrebbe dimettersi.
Tutta la faccenda del lodo Mondadori è di una gravità inaudita. Altro che escort. Non è neanche il caso di tirare in ballo il sistema delle tangenti, sempre in vigore. Una ditta con l’acqua alla gola e con la necessità di lavorare è pressoché obbligata a versare la tangente. Il concusso è comunque molto meno colpevole del concussore, ad es. il direttore dell’ufficio acquisti che ha il potere di chiedere ed esigere tale surplus (ormai all’ordine del giorno). Ma la stessa concussione è molto meno grave del corrompere un giudice, perché la terzietà del giudice è una delle basi della convivenza civile. Vogliamo sperare che anche questo costume non diventi imperante.
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Ma dopo la condanna da parte della Corte Costituzionale del “lodo” Alfano, con il conflitto istituzionale che ne è sciaguratamente seguito, e il progetto di cambiare la Costituzione col presidenzialismo e la riforma della magistratura, vogliamo andare alle radici della questione. La maggioranza dei voti, di cui il presidente del Consiglio si fa spesso scudo, dà il compito di governare, ma non vale affatto per assolvere da crimini e illegalità. «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 Costituzione italiana) significa che neppure la sovranità popolare è assoluta, né assoluta è la volontà del popolo sovrano: deve essere esercitata entro i limiti dati e nelle forme stabilite dalla Costituzione. Nessuna forza sociale è sciolta dalla legge. Anche la forza del numero degli elettori è soggetta alla legge. La volontà, anche della massima parte del popolo, non può violare i limiti costituzionali e i valori umani e civili ivi individuati.
Tanto meno è al di sopra delle legge chi, pur legittimamente, viene eletto. È falso dire che egli è un primus super pares, come ha detto un dipendente politico del presidente del Consiglio. Addirittura, se si pensa moralmente e democraticamente un «in-carico» politico come un servizio al bene comune, ogni eletto è, in certo modo, «sotto», e non sopra i suoi concittadini, perché è «caricato» del dovere di servirli. Così ha sempre sentito la migliore etica politica.
Legiferare, fare onestamente le leggi che obbligano tutti, non è mai un semplice atto di forza, neppure della forza del numero, ma deve avvenire secondo le «regole per fare le regole», cioè nel pieno rispetto formale e sostanziale delle regole costituzionali. Il numero non muta le regole, se non secondo le regole stesse.
Il consenso popolare, oltre che libero da forzature, dovrebbe essere anche «consenso informato», cioè fornito di conoscenze per valutare qualità e scopi dei candidati a governare e l’azione dei governanti. Occorrerebbe anche che il libero dibattito pubblico protegga il popolo dal fascino che un uomo ricco e fortunato può suscitare. È questo precisamente il caso della fortuna politica del presidente del Consiglio in Italia, fabbricata prima con la bassezza diseducativa e la depressione morale delle televisioni commerciali, e poi mietuta col consenso politico relativo.
Poiché la ricchezza, con la sua potenza sugli altri, è soltanto un potere di fatto, e non un potere legale, deve essere soggetta, con particolare sorveglianza e oculatezza, alle regole di giustizia. Il ricco deve essere più, e non meno dei comuni cittadini, sorvegliato e controllato sulla legalità dei suoi atti. Se, nella gestione dei suoi beni, un ricco avesse commesso scorrettezze o reati, dovrebbe essere punito semmai più prontamente e severamente, e non meno dei comuni cittadini, nel caso che al potere della ricchezza abbia cumulato un potere politico. Questo è, evidentemente, il caso del presidente del Consiglio, che invece ha approfittato del potere politico per sottrarsi al controllo della giustizia. Egli ha sempre accusato preventivamente i giudici che hanno avuto in mano cause sue, per delegittimarne in anticipo il giudizio, o impedirne l’esercizio. Chi agisce così corrompe alla radice lo spirito pubblico, si fa corruttore del popolo sovrano, mina la legalità e la convivenza pacifica, semina servilismo, odio e violenza. Ciò crea nell’uomo della strada ragionevole ogni sospetto sulla cattiva coscienza di chi si sottrae in questo modo al giudizio, e suscita nei meno onesti la voglia di imitare l’astuzia e la frode dell’uomo forte, oppure di reagire per vie di fatto, invece che con le regole della politica democratica.
Proprio in antitesi al potere della ricchezza, comunque raccolta, la prima parte dell’art. 1 definisce l’Italia una «repubblica democratica, fondata sul lavoro». Fondata, cioè, sul contributo di ognuno al bene comune. Chi ha più beni non ha più diritti, e semmai ha più doveri. Chi ha beni insufficienti, che limitano di fatto la sua libertà ed eguaglianza con gli altri cittadini, e impediscono il pieno sviluppo della sua persona e la sua partecipazione effettiva alla vita del Paese, ha uno speciale diritto – che il ricco non ha – a che la Repubblica operi con la politica a rimuovere quegli ostacoli. Così dispone l’art. 3, la “super-norma” della Costituzione.
L’azione politica, nella Repubblica democratica, ha il compito di realizzare l’uguale dignità e libertà di tutti, nella giustizia sociale, e assolutamente non ha da sancire la disuguaglianza di fortuna.
Il comportamento politico del presidente del Consiglio, fino alle vicende di questi giorni, lo lascia per ora formalmente inamovibile, ma lo priva ulteriormente di rispettabilità politica, in quanto eversore morale dell’etica necessaria nella polis.
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