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società
366 - COME ERAVAMO, COME SIAMO |
SIAMO PIÙ BUONI DI 55 ANNI FA?
Capire il presente attraverso il passato. È quello che si è sempre tentato, nel corso della storia dell’umanità. I cambiamenti travolgenti degli ultimi decenni hanno impresso una tale accelerazione alla storia che il passato è anche solo quello di 55 anni fa, quando parecchi dei lettori del foglio erano già nati e chi scrive aveva già 18 anni. Le righe che seguono si limitano a considerare solo alcuni aspetti della differenza di sensibilità tra «come eravamo» allora e «come siamo» ora, nel 2009. Le citazioni che seguono provengono tutte da «La Stampa» del 1954. |
Come sopravvivevano gli extratorinesi
3500 abitanti delle “Casermette” (ex-caserma) di Altessano vivevano in condizioni igieniche spaventose, alcuni dalla fine della guerra, altri dal 1947. Otto persone in una stanza. Erano profughi giuliani e tunisini, altri erano emigrati dal Veneto e dal Meridione. La maggior parte era costituita da donne e bambini. Pur non ottenendo residenza legale, prima o poi trovavano un’occupazione. «Le camerate furono negli anni scorsi separate in tanti stanzini, ciascuno dei quali prende aria da una sola apertura. Le prese d’acqua collocate nei cortili sono tanto scarse da costituire spesso oggetto di dispute. Le latrine sono scomparse per il semplice fatto che vennero trasformate in abitazioni. Medesima sorte toccò ai lavatoi. Attualmente gli abitanti utilizzano come pozzi neri le sponde della Stura che scorre nelle vicinanze o riversano i rifiuti negli orti come concime. “Noi donne – ci ha spiegato una giovane madre – non possiamo andare lungo la Stura. Dobbiamo aggiustarci in casa o aspettare il momento in cui si va in fabbrica a lavorare”. In tali condizioni non deve stupire sia stato segnalato un caso di tifo» (19/9).
Clandestini, tornate ai paesi vostri
Più recenti sono gli insediamenti di Corso Polonia. «Dalle Molinette sino al casello del dazio esiste ora un vero e proprio villaggio costruito con ogni genere di rifiuti: vecchie lamiere, latte corrose, tavole tarlate, assi ammuffite, tralicci e cartoni. Manca qualsiasi attrezzatura igienica, mancano le fogne, le latrine, le condutture dell’acqua. In queste condizioni vivono 700 persone. È probabile che si riesca a ottenere un finanziamento statale. Questo aiuto verrebbe però limitato a coloro che hanno la residenza torinese o che comunque possono dimostrare senza incertezze di aver motivi fondati per rimanere nella nostra città. Tutti gli altri, cioè la maggioranza, saranno invitati, appunto in base alle indagini svolte in questi giorni dalla polizia, a ritornare nei loro paesi d’origine» (17/10).
Quali erano i «paesi d’origine»? Profughi giuliani, dall’isola di Cherso. Il sig. Ferrero, con moglie e quattro figli, proveniva da Moretta. Una «tribù siciliana»: marito, moglie, sei figli. Altri erano Veneti o profughi d’Africa. Ma Torino ci faceva una brutta figura: «Vorremmo che da Torino sparisse questo spettacolo indecoroso dal punto di vista estetico, turistico, igienico, sociale. Esteticamente e turisticamente non è un lusinghiero biglietto da visita che alle porte della città viene esibito al visitatore; igienicamente per la mancanza di acqua e di latrine; socialmente, perché una città come Torino non dovrebbe permettere l’esistenza di sistemazioni così precarie e meschine» (22/12).
Casi isolati e povertà di massa
Che facevamo noi, bravi cattolici? Naturalmente parlo della mia esperienza che non è detto sia stata l’esperienza di tutti. Negli anni Cinquanta ci si occupava dei poveri principalmente attraverso la San Vincenzo. Si trattava di casi isolati: persone sole, famiglie in difficoltà. In seguito veniva assistito anche qualche barbone. Queste attività erano senz’altro positive. Tuttavia la povertà di massa, quella di Altessano e di corso Polonia, veniva ignorata. Eppure i giornali ne parlavano. Forse questi problemi ci apparivano troppo complessi. Non abbiamo partecipato a manifestazioni sotto il municipio. Non abbiamo visitato le baracche e le casermette per esprimere solidarietà. Non abbiamo protestato contro la prospettiva di rimandare al paese d’origine la gente in estrema miseria.
Eppure eravamo visti come «bravi ragazzi», magari troppo esposti ai pericoli del sesso! «I giovani d’oggi arrivano all’intimità rapidamente, prima di conquistarsi. La tendenza alla libertà sessuale, a mandare Amore in soffitta e a sostituirlo col Sesso, sta guadagnando sempre più terreno tra la nostra gioventù. Una volta di una donna si ammirava la grazia. Oggi si vuole che sia sexy. Ecco la parola del secolo. I concorsi delle varie miss, con esposizione di “carne da cinema”, sono un indice abbastanza chiaro di ciò che si vuole dalla donna moderna» (4/5). E questo nel Cinquantaquattro, su un giornale “laico” come «La Stampa».
Pochi anni dopo, lo scenario cambia. Negli anni Sessanta si portava la solidarietà nei ghetti dei meridionali, si protestava, si voleva la «Chiesa dei Poveri» Questo grazie ad una sensibilità più matura, grazie al Concilio, grazie alla spinta del tanto vituperato Sessantotto! Avevamo scoperto che la morale era soprattutto giustizia, non sessuofobia!
Anche ora, guardandoci attorno, constatiamo che una parte non trascurabile di italiani si dedica a un volontariato che assume una dimensione anche politica, non limitata alla sola assistenza. Ci si indigna contro le ingiustizie, contro la barbarie di alcuni centri di accoglienza, contro qualsiasi forma di intolleranza e di oppressione dei fratelli in difficoltà. Certamente ci sono tanti punti oscuri e inquietanti. Tante persone rimangono indifferenti e ostili, chiuse in un egoismo distruttivo e autodistruttivo. C’è ancora tanto cammino da percorrere. Ma, guardandoci indietro, ci rendiamo anche conto del cammino percorso. E questo è un motivo di speranza.
Dario Oitana
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