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politica
369 - NON ILLUDIAMOCI CON FINI |
Accade a tutti nella vita di aver qualche incidente di percorso, ma più esposto è chi scrive per professione. Le pagine infatti restano, quindi possono essere consultate e citate per ridacchiare alle spalle dell’incauto autore. |
Ci cascano tutti, anche personalità di altissimo livello e di viva intelligenza. Vediamo, ad esempio, cosa è capitato a Giuliano Ferrara. Dalla sua rubrica fissa su «Panorama», con foto, intitolata L’arcitaliano, in polemica con Giorgio Bocca sull’«Espresso» (L’antitaliano), si lancia, senza rete, in un panegirico sul comportamento politico di Gianfranco Fini: «E bravo Fini che non è caduto nella trappola» (30/7/2009). La sua lealtà nei confronti del Capo, sottoposto ad ogni sorta di angherie dalla stampa liberal, con sfoggio di moralismo straccione (erano i tempi delle dieci domande...), è stata impeccabile. Nessuna presa di distanza o manovra machiavellica sulla legislazione contro gli extracomunitari o sulla laicità dello stato, nessuna strizzata d’occhio al gruppo Repubblica-L’Espresso: insomma un comportamento adamantino e da riconoscere con assoluta obiettività: «non ho niente di speciale a favore di Fini», conclude Ferrara.
Traspare invece, nella prima parte dell’articolo, una grande inquietudine per il rischio di «gesti sicari», «di avvelenamento dell’aria che si respira nella maggioranza» onde corrodere il consenso al Cavaliere. Un tempo si diceva excusatio non petita, accusatio manifesta, che potremmo aggiornare in laudatio non petita, metus manifestus. I pretoriani temono complotti, non lesinano quindi gli elogi, anche fuori posto. Poche settimane dopo, infatti, di fronte agli attacchi pesantissimi di Vittorio Feltri sul «Giornale», Fini minaccerà le vie legali. La situazione è surreale con Feltri, tacciato di fascismo avanguardista dalla fondazione finiana Farefuturo, la quale ribatte «compagno Gianfranco, torna a destra e finirai di fare figure ridicole», e comunque «attento, c’è qualche dossier anche per te» (7 settembre). Fioccano altre accuse il 5 novembre, e il 18 dicembre Fini è definito dal «Giornale» «non più una risorsa per il Pdl ma un problema». Berlusconi usa codici diplomatici e sminuisce affermando che «con Fini non ci sono problemi». Frase che, notoriamente, significa il contrario. Nel frattempo il presidente della Camera prende posizioni (critiche) su quasi ogni proposta del governo. L’opposizione di sinistra è entusiasta di questo atteggiamento, che tuttavia non sembra scalfire il massiccio consenso diffuso nel Paese per il centrodestra. Ma a cosa mira realmente Fini? Certo a sostituire Berlusconi in un futuro non troppo lontano, ponendosi a capo di una destra molto diversa da quella attuale. Una destra istituzionale, presentabile in Europa: se fossimo in Francia si parlerebbe di una destra repubblicana e antifascista (rassemblement pour la République). Benché le sue prese di posizione meritino apprezzamento, è bene quindi che la sinistra e le opposizioni in generale non si facciano troppe illusioni. Sentiamo, in proposito, uno che lo conosce a fondo e che gli è amico da una vita, cioè da quando militavano insieme nel Movimento Sociale, il politologo Marco Tarchi: «Fatico a pensare che Fini abbia mai creduto fino in fondo a qualcosa... è di uno scetticismo estremo». «Ma le prese di posizione su immigrazione, bioetica, diritti civili, gabbie salariali?», obietta l’intervistatore. «Sta solo costruendo un suo percorso personale». E la visita allo Yad Vashem, quando definì il fascismo male assoluto? «Subito dopo – risponde Tarchi – inviò una lettera a quelli di An nella quale spiegava che il significato delle parole varia a seconda del luogo in cui sono pronunciate... è l’abitudine del doppio linguaggio» («La Stampa» 28/08/2009). Proprio come, il 22 marzo 2009, al congresso di scioglimento di Alleanza Nazionale, quando disse che il Movimento sociale italiano fu fondato nel ‘46 da un gruppo di coraggiosi che «non si arresero» alla nuova Italia repubblicana, di cui Gianfranco Fini ora occupa la terza carica istituzionale. Certo… quella frase fu pronunciata in un teatro in cui le nostalgie per il Ventennio e per Salò erano ancora molto diffuse.
Pier Luigi Quaregna
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