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 333 - OMAGGIO A PAOLO DE BENEDETTI

 

SCRIBA DEL REGNO

Lo potete incontrare sul treno, per lo più nelle ore ultime di un week-end al ritorno da qualche giornata di studio. O potete averlo conosciuto come oratore dove si è fermato per poche ore, o averlo ascoltato per radio la domenica mattina o letto su una rivistina qualsiasi della diaspora ebraica o cristiana. È sempre in viaggio tra Asti, Milano,Trento, Firenze, Roma e gli altri luoghi, piccoli e grandi, dove lo chiamano per corsi universitari, convegni, conferenze, redazioni di riviste o assemblee di movimenti, semplici serate parrocchiali.

        Corre dovunque per «'na bala a' füm», direbbero i suoi; per «amore del Regno», sta scritto nel Libro della vita, a parlare di un altro vagabondo e di antichi sapienti e profeti, commentatori di rotoli, tutti correligionari che viaggiavano a piedi e parlavano, senza scrivere, o scrivendo moltissimo, ma a minime dosi, testi brevi e densi, racconti, meditazioni, piccoli commenti, poesie e misteriosi indovinelli, il cui senso si affida all'intelligenza del lettore, suggerisce più che dire, sollecita e interroga, più che confermare o rispondere.

Se non siete riusciti a farvene un'idea definita, a chiuderlo in un'identità precisa, ma, ogni volta che ve lo siete visto davanti o ne avete sentito la voce o scorso una pagina, subito lo avete riconosciuto, è lui. È Paolo De Benedetti, ebreo e cristiano, curatore del Dizionario Bompiani delle Opere e degli Autori, promotore della prima edizione italiano di Resistenza e resa di Bonhoeffer, grande animatore delle attività culturali di «Biblia», interlocutore privilegiato di Gabriella Caramore in «Uomini e profeti» (Rai, radio 3), redattore di «Humanitas», autore de La morte di Mosè e altri esempi, di Ciò che tarda avverrà, di Quale Dio? Una domanda, de L'asina di Baalam, di Nonsense e altro, di Gattilene, e di saggi e articoli, sparsi tra editori e riviste e libri collettivi, atti di convegni, presentazioni di scritti altrui, centinaia di pagine e di parole, gettate come semi, su terreni d'ogni sorta, ma capaci di rendere, qua l'uno e là il cento per cento, ovunque di fruttificare in attesa del raccolto.

È lui: soggetto e oggetto di Il settantunesimo senso. Omaggio a Paolo de Benedetti, numero monografico di «Humanitas» (gennaio-febbraio 2006), dedicatogli dagli amici (in prima fila Carlo Maria Martini, Amos Luzzato, Agnese Cini, Umberto Eco, Salvatore Natoli, Laura Novati) all'approssimarsi dell'ottantesimo compleanno. A queste pagine noi vogliamo aggiungerne una a riconoscimento della sua opera di maestro e di compagno nell'avventura umana e cristiana di molti, come noi, impegnati a riflettere sul senso della nostra presenza di credenti e di pensanti con la parola e con lo scritto.

Lo facciamo pubblicando quanto nell'occasione ha voluto inviargli il nostro redattore che con lui ha avuto più familiarità e vicinanza di pensiero, Aldo Bodrato.

 

 

TEOFANIA

 

Nelle conclusioni di molti interventi su Auschwitz e Dio si può quasi cogliere l'invocazione di una nuova teofania che rivitalizzi la nostra fede, così come quelle antiche rivitalizzarono la fede sempre più incerta degli antichi. Dopo duemila anni sarebbe ragionevole attendersi, se non il tanto promesso ritorno risolutivo del Cristo, almeno un segno della sua presenza attiva nel mondo. Non nasce forse di qui il bisogno, non solo popolare, di segni straordinari del Cielo come le apparizioni mariane, più o meno ufficiali o ufficiose?

Ma non è questo che un credente nella definitività della rivelazione di Dio in Gesù, crocefisso e risorto, può e deve desiderare, bensì l'esistenza di voci profetiche che continuamente gli ricordino la presenza, accanto a lui, del Dio, nel volto del Cristo nascosto tra i fratelli che sulla via incrociano il suo cammino.

È in questo senso che, credo, si debba considerare la vicenda di Auschwitz la grande, ultima per ora, teofania, offerta alla nostra generazione di credenti tiepidi e pieni di timore. Ultima teofania Auschwitz, con tutto il carico di sofferenze, morti e distruzioni che l'hanno accompagnata, perché essa è stata occasione, nella sua tragicità, aborrita dagli uomini e da Dio, di una grande e inattesa rinascita profetica, la testimonianza resa, agli uomini e a Dio, della decisività esistenziale e teologica dell'umano patire, da parte di coloro che quella tragedia, in tutti i suoi molteplici aspetti, hanno attraversato.

Potremmo citare infiniti testi di reduci dai campi di sterminio, dai vari fronti di guerra, di scampati alle bombe e alle stragi, di testimoni degli scontri più efferati e dei bombardamenti più micidiali. Ma uno su tutti spicca quello ormai proverbiale di Elie Wiesel ne La notte (Giuntina, pp. 66-67), dove racconta l'impiccagione di due uomini e di un bambino.

«Il piccolo, lui, taceva. – Dov'è il Buon Dio? Dov'è? – domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava (…) Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia (…) Dietro di me udii il solito uomo domandare: – Dov'è dunque Dio? – E io sentivo una voce che gli rispondeva: – Dov'è? Eccolo: è appeso lì a quella forca…».

Non è necessario qui tentare nessuna cristianizzazione dell'evento. La teologia ebraica è più che adeguata per trarne i frutti che ritiene di doverne trarre, ma anche quella cristiana dovrebbe ben riflettere. Non ha forse detto Gesù alla Samaritana: «La salvezza viene dai giudei»? Non si trova forse in due noti testi giudeo-cristiani l'episodio di un centurione romano che, visto come un condannato era morto, abbandonato dagli uomini e da Dio, esclama: «Era davvero il figlio di Dio»?

È emblematico che nessuno si sogni di vedere la presenza di Dio nel volto dei soldati russi che primi si affacciano, da liberatori, ai cancelli dei lager, o in quelli, sfigurati, degli alleati che sbarcano in Normandia, o nella potenza delle armate e delle atomiche che costringono fascisti, tedeschi e giapponesi alla resa, ma che qualcuno abbia il coraggio di fare il nome di Dio e di evocare la Sua presenza di fronte al corpicino agonizzante di un bambino, così leggero, da non riuscire rapidamente strozzato al cappio dell'impiccato. È emblematico, come è emblematico che a suo tempo Dio non si sia rivelato nel soccorso miracoloso dato per la liberare un crocefisso, ma nella morte disperata dello stesso, e che qualcuno abbia visto in tale morte, non il rigetto della vittima da parte di Dio, ma la sua assunzione a testimone e a segno di identità salvifica.

Che traccia c'è di tutto ciò nella teologia cristiana? Nella sua immagine di Dio, negli attributi con cui continua a gratificarlo? Nell'Onnipotenza? Nell'Onniscienza? Nell'infinità e nella perfezione? Nell'assoluto e inarrivabile trascendente signoria? Nella prassi pastorale della chiesa? Nella nostra pietà individuale e collettiva?

La croce è una teofania. La resurrezione del Cristo piagato, è una teofania. Le infinite Auschwitz della storia sono una teofania. Sono tutte la stessa teofania. Chi di noi la vede? Chi di noi la capisce? Chi di noi ne trae qualche frutto per la sua vita di fede e di carità?

a. b.

 

                                                           A Osip Mandel'štam

 

                                                           «Ascolta Dio il deserto»

                                                           Chi tacendo ascolta?

                                                           E chi parlando

                                                           Genera ascolto?

                                                           Dio? Il deserto?

                                                          

                                                           Entrambi in pace stanno

                                                           Attenti l'uno

                                                           Al silenzio dell'altro

 

                                                           Attenti al canto

                                                           Che ogni voce ritira

                                                           Per dire più

                                                           Di quanto mai

                                                           Dire si possa.

 

                                                           Ascolta Dio il poeta

                                                           Muto.

                                                           Muto?

                                                           Chi?

                                                                       a. b. (15 - 5 - 06)

 

 

DA «RACCONTI DA SOGNO»

DIMENTICATO

 

Quando il settimo angelo suona la settima tromba lui riposa profondamente da secoli nella polvere della polvere. Fa fatica a svegliarsi e a stento, incerto, riveste il suo «fu» di ossa e di carni. «Saranno proprio le mie?», si chiede, mentre s'accalca con altri miliardi di trapassati, richiamati in vita, ai piedi del monte del grande giudizio.

Il giudice in trono non sa se atteggiare il volto a gioia accogliente o a severo ripudio. È evidentemente imbarazzato. Forse ha aspettato troppo. Forse ha dimenticato quanto ha promesso e quanto minacciato. L'arcangelo col libro della vita e della morte in mano gli viene in soccorso. «Sta tutto scritto, grida, nomi e fatti. Ora verrà la sentenza». Non si rende conto che proprio questo è il problema.

La folla si agita. Molti si riuniscono a gruppi e innalzano stendardi: Cattolici, Luterani, Avventisti, Ebrei, Islamici, Liberi pensatori, Buddisti e Induisti. Agguerritissimi in centoquarantaquattromila si proclamano «Testimoni di Jeova» e occupano le prime posizioni, a gomito a gomito con ortodossi d'ogni fede e papisti. Qualcuno esibisce la circoncisione, qualche altro la tonsura e vecchi attestati di indulgenze. I più restano confusi sullo sfondo e lui con loro, tra il sonno e la veglia.

Coglie quanto accade a spezzoni. Troppo ha faticato in vita e troppo ha sofferto in una vecchiaia estenuante e prolungata. Vuole solo riposare ancora un poco e si butta in una fossa comune, svuotata dalla resurrezione.

Più non vede, ma sente gli angeli che si dannano a ricacciare la ressa dei gruppi organizzati. «Vi chiamiamo per nome. Ciascuno sarà giudicato in base alla sua vita», e leggono le vite. Nessuno vi si riconosce. La ricordano diversa. I fatti suonano loro distorti e le motivazioni anche di più. Ognuno è innocente, pronto ad incolpare il superiore o la vittima. Quello di cui è accusato non lo ha fatto e, se lo ha fatto, era in buona fede.

Le parole scritte sono puntualmente smentite. Non c'è concordia tra i testimoni e poi i verbali non sono controfirmati dagli interessati. Tutto è da rifare, per vizio di forma e di sostanza. Qualcuno, più satanico di altri, propone: «Ricominciamo da capo, con altre regole e altre garanzie».

Prima di ricadere estenuato nel sonno si alza per un ultimo sguardo. Il Giudice si contempla le mani ferite, perplesso: «Ricominciare? Impossibile. Non lo farei per tutto l'oro del mondo. Quel che è stato è stato, molti anni fa, e forse è caduto in prescrizione. Amnistia universale e non se ne parli più».

Si risveglia a scena vuota. Non c'è nessuno. Che cosa, alla fine, sia accaduto lo ignora e, se lo hanno chiamato, lui non ha sentito. Forse l'hanno dimenticato. La luce si è riconfusa con le tenebre, il cielo e la terra sono un ammasso deserto e vuoto. Il mare ha rioccupato l'asciutto e l'acqua gli arriva alla gola. Di realtà nuove non scorge traccia, ma anche quelle antiche, frutto della creazione, sono scomparse. «È un bene o un male?», si chiede. «E io, vecchio come Matusalemme e giovane come Adamo, che ci sto a fare? Sono un rifiuto o una caparra?».

a. b.

 

                                                           Preannuncio

 

                                                           Nell'ultimo buio

Il merlo canta

Nove piani

Più in basso

Dal minuscolo verde

Tra strade e palazzi

 

È fischio

Che modula silenzi

Col finire d'inverno

E dalla terra sale

Ad annunziarci

La vicinanza dell'alba

 

O meglio a dirci

L'allegria

Del minuscolo cuore

Che noi nostra sentiamo

Per l'approssimarsi del giorno

Da ogni notte atteso.

                                                                                     Aldo Bodrato (21- 3 - 06)

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