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 370 - L’UMANITÀ DI DIO/3

 

Per noi e per la nostra salvezza

Seguendo l’invito di A. Bodrato nel numero 368 del Foglio ad affrontare la rivelazione salvifica, crocefissa e amorosa di Gesù, si tratta di passare ora dalla salvezza fisica (guarigione delle malattie) a quella spirituale: ossia una salvezza integrale e integrata. Non è un caso che le guarigioni di Gesù siano storiche (comprese quelle da uno stato pessimo, moribondo, comatoso), mentre i miracoli sulla natura e le resurrezioni no: ma quest’ultimi hanno un profondo significato che testimonia il passaggio dalla salvezza corporea a quella esistenziale.

L’UMANITÀ DI DIO/3

Per noi e per la nostra salvezza

Seguendo l’invito di A. Bodrato nel numero 368 del Foglio ad affrontare la rivelazione salvifica, crocefissa e amorosa di Gesù, si tratta di passare ora dalla salvezza fisica (guarigione delle malattie) a quella spirituale: ossia una salvezza integrale e integrata. Non è un caso che le guarigioni di Gesù siano storiche (comprese quelle da uno stato pessimo, moribondo, comatoso), mentre i miracoli sulla natura e le resurrezioni no: ma quest’ultimi hanno un profondo significato che testimonia il passaggio dalla salvezza corporea a quella esistenziale.

 

Le prime tre beatitudini

Le Beatitudini rappresentano bene il travaso dall’una nell’altra: dall’aspetto corporeo (malati), materiale (poveri e affamati) tipico di Gesù a quello spiritualeggiante-moralizzante di Matteo. In Gesù sono fondamentali le prime tre beatitudini (la quarta, quella sui perseguitati per la giustizia in terza persona, è dubbia; sicuramente non è di Gesù il suo raddoppio in seconda persona plurale «beati voi quando vi perseguiteranno, vi insulteranno…a causa del figlio dell’uomo/a causa mia», che riflette in modo massiccio la situazione delle primitive comunità cristiane, perseguitate a causa della fede, e non della giustizia): sono quelle dei poveri, afflitti (piangenti) e affamati, conservateci meglio da Luca. Significano il totale capovolgimento del loro stato di miseria: sono proclamati beati, cioè felici, perché il regno di Dio, inaugurato da Gesù, ora o nell’immediato futuro va nella direzione di eliminare il loro stato miserando, di saziarli, di detergere le loro lacrime e sofferenze. Il tutto è chiaramente in linea col messaggio globale di Gesù, come risulta ad es. dalla risposta data ai discepoli del Battista circa colui che deve venire (Mt 11,2-6; Lc 7,18-23): i sordi odono, gli zoppi camminano, i malati sono guariti. È in linea anche col discorso inaugurale di Gesù come attuazione del passo del terzo Isaia (Is 61) letto nella sinagoga di Nazareth, commentato, e attribuito come realizzazione a se stesso: i ciechi vedono, i prigionieri e gli oppressi sono liberati, si fasciano le piaghe dei cuori spezzati, si consolano gli afflitti. È il lieto messaggio di salvezza per gli “anawim” (i poveri di Jahwe; Dio è l’ultimo difensore che è loro rimasto…).

Il Regno non significa rimanere nello stato miserando in cui si è, ma nel suo radicale e immediato capovolgimento in gioia, guarigione, pane, non-servitù, e non-dipendenza.

 

La salvezza umana in Genesi

Si può partire definendo, in via preliminare e provvisoria, la salvezza - in senso primordiale, universale, primigenio, esistenziale, antropologico - come liberazione dalle paure e dalle minacce, felicità-fecondità, vita dotata di senso nel massimo possibile della sua pienezza e integrità. Non è un caso che il Sitz im Leben (letteralmente Posto nella vita), ossia l’ambiente vitale ed esistenziale in cui sono nati i primi 11 capitoli della Genesi, sia costituito dall’esistenza minacciata. Essenziale infatti per tali racconti non era tanto il loro contenuto teorico ma il fatto di essere appunto raccontati, recitati o rappresentati drammaticamente in particolari circostanze o feste (ad es. il Capodanno), per trovare sicurezza: la creazione quindi, non tanto come il fatto nudo e crudo dell’esserci, bensì come superamento dell’esistenza minacciata.

L’etimo linguistico di salvezza sembra provenire dalla radice sanscrita “sarvah”, che significa essere-integro, intero, intatto, completo. Possiamo pensare al bene-essere (vivere e stare bene), al fiorire della vita, compresa l’intera biosfera; all’interezza ed integrità vitale e al suo eventuale ripristino in caso di dis-integrazione; all’attuazione dell’intero potenziale disponibile, all’espansione polivalente dell’insondabile ricchezza dell’esistere. In quest’ambito il senso è in parte pre-dato, dai vincoli strutturali fisico-chimici-biologici, e in parte conferito, inventato, declinato, ri-creato dall’uomo stesso.

Nel Credo, quando diciamo che il Figlio «discese dal cielo per noi e per la nostra salvezza (propter nostram salutem)», da cui anche l’italiano salute (i sostantivi e aggettivi italiani vengono dall’accusativo latino con caduta della m), cosa intendiamo? Mi ha sempre fatto una certa impressione il dato che i primi cristiani abbiano assunto la parola latina salus (la famosa ad es. salus populi romani: ossia la salute, la sanità, la conservazione e il benessere del popolo, della polis), cioè non abbiano rifiutato il suo significato più basilare, caricandolo però via via di significati più filosofici e teologici, sino a quello di salute “eterna”. Per dire invece “salvatore”, in riferimento a Gesù, avevano a disposizione le parole servator o conservator, ma in questo caso le hanno rifiutate per l’uso religioso e, per marcare la differenza e la singolarità di Cristo, hanno inventato la parola nuova salvator (che non esiste nel latino classico).

C’è quindi un senso umano creaturale che gode di una relativa autonomia rispetto alla salvezza più propriamente cristiana. Già Israele in Genesi 1-11 ha condiviso con gli altri popoli vicini i racconti “mitici” (il genere letterario “mito” è una cosa molto seria) sulle origini, e ha collegato la sua prioritaria fede storica (derivante dall’esperienza del Dio liberatore e salvatore, a partire dall’uscita dalla schiavitù dell’Egitto) con la fede derivata nella creazione. Israele ha visto nelle esperienze umane espresse nei racconti primordiali un senso salvifico nel suo primo e basilare livello, accogliendo la voce umana contenuta nei popoli “stranieri”.

 

Salvifico e salutare

Gen 1-11 non contiene solo domande che riceveranno la loro risposta unicamente in Gesù Cristo, ma prospetta già, al suo livello umano, delle risposte di senso, e non è quindi corretto continuare a dire che le risposte si hanno solo e unicamente col Dio trinitario, con Cristo e il suo mistero pasquale. L’umano ha una sua autonomia relativa che non viene svuotata dal Cristo salvatore. La fede storica e l’umano creaturale devono essere pensati in relazione polare, evitando che il cosiddetto “sovrannaturalismo” fagociti ogni altro abbozzo di senso e di salvezza comprimendo, reprimendo o sopprimendo l’umano. La fede storica nel Dio liberatore e salvatore ha per così dire abbracciato, incamerato, la fede nella creazione, ma senza soffocarla. Detto in altro modo, il primo articolo del “Credo” relativo a Dio Padre (Credo in Dio Padre creatore…) sta in relazione polare col secondo articolo sul Figlio (…e in Gesù Cristo suo unico figlio…). Il secondo articolo non deve inibire il primo, stroncando l’umano nella sua relativa autonomia e risultando di fatto un sovrannaturalismo disincarnato o disumano.

Come la fede nella creazione e nel Dio creatore è stata assorbita e incamerata nella fede storica nel Dio salvatore e liberatore, così la salus, il salutare di una vita piena e dotata di senso deve essere integrata nella salvezza più propriamente cristiana ed evangelica. Il salvifico (dimensione più propriamente cristiana) e il salutare (dimensione più umana e creaturale, relativamente scorporabile dalla credenza in Dio) devono stare anch’essi in relazione polare: non la semplice salus dell’essere, stare e vivere bene senza riferimento agli altri, all’intero, alla radicalità evangelica, ma nemmeno una salvezza sovrannaturalista che finisca col sedare o annullare l’umano. Il salvifico e il salutare, entrambi inglobati nella salvezza annunciata e realizzata dal falegname di Nazareth, sono centrali e assolutamente prioritari, come emerge chiaramente dai suoi discorsi inaugurali e programmatici (sinagoga di Nazareth, Beatitudini).

 

La stecca di Matteo

 

Alcune domande regolative di fondo: si può essere felici e salvi senza essere buoni? E buoni senza essere felici?  Certo il vangelo delle beatitudini associa direttamente e in primis felicità e bene; ma solo in seconda battuta mette in relazione felicità e bontà. Ci pare che la bontà sia in posizione dipendente e subordinata all’essere felici e salvi. In tale prospettiva la bontà non è immediata e diretta: e frutto del fatto che la felicità e il bene devono essere di tutti e dell’intero, in particolare dei poveri. In buona sostanza la giustizia viene prima della bontà, e il Regno prima della carità. In Mc 10,17s: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo», Lui stesso non gradisce essere chiamato “buono”, che sembra una caratteristica esclusiva di Dio. In ogni caso non dice “Beati i buoni”, e nemmeno “beati i poveri perché sono buoni”. Gesù neppure chiede al povero in primis di essere buono; la salvezza da Lui offerta è incondizionata, per cui non esige immediatamente un contraccambio come condizione del suo dare. Semmai vale per gli altri (i ricchi), che (loro sì) sono chiamati ad essere buoni, cioè a condividere i beni per eliminare la povertà e risollevare la sorte degli anawim. I quattro Guai di Luca immediatamente successivi («Guai a voi ricchi…» ecc.) sembrano proprio andare in questa direzione.

Matteo effettua il passaggio dal primo e basilare livello della felicità-bene a quello (secondo) della bontà-misericordia, ampliando le beatitudini e moralizzandole. Il capovolgimento è radicale ma non contraddittorio: un conto è considerare la povertà come miseria, e quindi come un negativo da superare, e un conto è considerarla come una virtù spirituale (Matteo aggiunge rispetto a Luca in spirito, che Gesù non ha pronunciato), positiva da praticare. Il trapasso è tuttavia sostanzialmente legittimo, un derivato degli insegnamenti di Gesù (espressi forse in altre occasioni), un’integrazione: oddio, se non avessimo il vangelo di Luca avremmo perso completamente il significato originario delle beatitudini sulla bocca di Gesù. È comunque ovvio che per risollevare gli anawim ci vogliono i poveri in spirito, gli affamati ed assetati di giustizia, gli operatori di pace, i misericordiosi ecc.

Con un’analogia di tipo musicale, possiamo dire che Gesù ha creato la melodia, il canto principale del soprano, nonché il basso che regge tutta l’armonia. Matteo ha inserito il contralto e il tenore, ossia la seconda voce dei poveri in spirito, affamati di giustizia, operatori di pace, e, proseguendo ancor più nella spiritualizzazione, la terza voce dei misericordiosi, puri di cuore, [e miti: in alcuni codici tale beatitudine viene prima di quella degli afflitti e subito dopo quella dei poveri, di cui è per lo più considerata una glossa]. Ma ha steccato sulla beatitudine degli afflitti; le ha spiritualizzate tutte, meno questa (la seconda): e dato che tutte le altre sono cose buone e virtù positive (operatori di pace, affamati di giustizia, puri di cuore ecc.), ne deriva per attrazione fatale che si è indotti a pensare che sia cosa buona pure essere afflitti e soffrire (sino agli estremi poi del cilicio e delle auto-flagellazioni).

La mancata spiritualizzazione della seconda beatitudine è come l’inserimento di un accordo dissonante e cacofonico, che fa stonare il contralto e rovina l’armonizzazione. Matteo se ne “è dimenticato”, leggendo male il basso continuo di Gesù. Avrebbe dovuto spiritualizzare anche quella degli afflitti, scrivendo ad es.: «Beati gli afflitti, gli angosciati per il male del mondo, perché la loro azione sconfiggerà la violenza e l’ingiustizia». Oppure, pensando ad un’ipotetica (inesistente) beatitudine sui malati: «beati i malati d’amore, perché guariranno e salveranno il mondo». È solo un esempio inventato per chiarire il capovolgimento, rischioso se male interpretato nella confusione dei significati: un conto è proclamare felici i malati perché guariscono (in cui la malattia è un cancro), e un conto è il mal d’amore come virtù, atteggiamento positivo.

 

(continua)                                                                                                                           Mauro Pedrazzoli

 

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