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 376 - "Cuore" e "Pinocchio", non solo libri per ragazzi

 

EDUCARE L’ITALIA UNITA

Nel 1883 esce il capolavoro di Collodi Le avventure di Pinocchio.

 Sarà letto in tutto il mondo, tradotto in duecento lingue. Tre anni dopo, Cuore di De Amicis: quaranta edizioni nell’anno stesso della pubblicazione. Come afferma Asor Rosa (Le voci di un’Italia bambina, «Cuore» e «Pinocchio» in Storia d’Italia, vol. IV, Einaudi 1975, pp. 925-40), forse nessuna opera della letteratura italiana contemporanea è riuscita a far vibrare con tanto successo sentimenti universali come questi due libri per ragazzi, mentre la cultura italiana, nella sua produzione «seria» e «per adulti», si affannava verso le più diverse direzioni ad affrontare il problema di una crescita nazionale. Cuore e Pinocchio devono perciò occupare un posto centrale nello studio del tessuto culturale dell’Italia postunitaria.

Nonostante le apparenze (Cuore sentimentale, Pinocchio favolistico), le due opere esprimono un rapporto con la realtà doloroso e drammatico. L’Italietta degli ultimi decenni dell’Ottocento, messa di fronte ai propri gravi limiti, si rendeva sempre più conto che, per diventare una nazione moderna, le occorreva puntare sul valore del sacrificio, dello sforzo, dell’altruismo, del rafforzamento della tempra morale e intellettuale. I due libri «per ragazzi» vanno letti alla luce della formazione di un’Italia ancora immatura. È utile ricordare che, fino a circa sessant’anni fa, la lettura dei due libri di formazione era quasi un obbligo per i bambini e poteva costituire materia di insegnamento.

 

Interclassismo eroico

Cuore è un diario, scritto da Enrico, un ragazzo di terza elementare, il cui padre ogni tanto inserisce qualche suo pensiero, come quando esorta il figlio a conservare e coltivare di preferenza l’amicizia, l’amore e il rispetto nei confronti dei compagni appartenenti alle classi più umili. «Se non conserverai queste amicizie… vivrai in una classe sola, e l’uomo che pratica una sola classe sociale, è come uno studioso che non legge altro che un libro… Se c’è una superiorità di merito è dalla parte del soldato, dell’operaio, i quali ricavan dall’opera propria minor profitto. Ama dunque, rispetta sopra tutti, fra i tuoi compagni, i figli dei soldati del lavoro; onora in essi le fatiche e i sacrifici dei loro parenti; disprezza le differenze di fortuna e di classe, sulle quali i vili soltanto regolano i sentimenti e la cortesia; pensa che uscì quasi tutto dalle vene dei lavoratori delle officine e dei campi il sangue benedetto che ci ha redento la patria» (Cuore, ed. Lucchi 1982, p. 208). Verrebbe da domandare al padre di Enrico se questi eroici lavoratori versarono il sangue per una loro scelta o perché costretti… Un esempio di interclassismo lo troviamo nella feroce polemica contro gli «opposti estremismi» che ostacolano la feconda collaborazione tra le classi. Vengono messi sullo stesso piano nella condanna sia il sottoproletario, ribelle e irrecuperabile (delinquente nato?), Franti, sia Nobis, l’aristocratico superbo: «Nobis può fare il paio con Franti» (p. 117).

Il prezzo da pagare per questa collaborazione volta al progresso civile e militare dell’Italia risulta altissimo. Fra i «racconti mensili» che costituiscono l’ossatura di Cuore, tre si concludono con la morte eroica del piccolo protagonista; uno con l’amputazione di una gamba; tre descrivono forme sublimi e faticosissime di dedizione al principio familiare e umanitario.

 

Le tentazioni di Pinocchio

Diversamente dall’ambiente torinese in cui vive e studia Enrico, la realtà della campagna toscana in cui si svolgono Le avventure di Pinocchio, presenta un aspetto decisamente più popolare. Si tratta della storia di un’educazione e di trasformazione: Pinocchio, nato quasi per caso dalle mani di un povero falegname, diviene un burattino senza voglia di studiare né di lavorare, pieno di buoni propositi ma incapace di tenervi fede, nient’affatto cattivo, capace anzi di atti eroici ma imprudente, ingenuo e incostante. Il mestiere preferito da Pinocchio sarebbe «quello di mangiare, bere, dormire, divertirsi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo». Invano lo ammonisce il Grillo-parlante: «Tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono quasi sempre allo spedale o in prigione» (Le avventure di Pinocchio, Giunti 2000, p. 23). Anche Geppetto gli aveva insegnato la dura e spietata legge che regola la convivenza umana: «I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di malattia, si trovano condannati a non potersi più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e, se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro» (p. 130). Alla fine delle sue avventure, Pinocchio si ravvede e si sottomette alla fatica e allo sfruttamento: gira il bindolo per annaffiare gli ortaggi (e gli ci vorranno cento secchie d’acqua per pagare un solo bicchiere di latte), fabbrica canestri e panieri di giunchi.

Ma non tutti i poveri sono degni di compassione. Pinocchio, ormai convertito, incontra la Volpe, invecchiata e caduta nella più squallida miseria tanto da essere stata costretta a vendere la coda, e il Gatto, diventato cieco a furia di fingersi cieco. Essi gli chiedono aiuto: «Credilo, Pinocchio, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero!». Al che Pinocchio si limita a sentenziare: «Se siete poveri, ve lo meritate… Addio mascherine!» (p. 240). Ma quando Pinocchio apprende che la fatina, che aveva prima conosciuto come una giovane e ricca signora e poi come un’onesta lavoratrice, «colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata e non ha più da comprarsi un boccon di pane» (p. 247), non esita a donare i suoi risparmi, a raddoppiare la produzione e l’orario di lavoro.

Così il burattino scapestrato perde la sua veste originaria e diventa «un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa». Nelle ultime righe il bel ragazzo contempla l’immagine di se stesso quand’era un burattino: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!» (pp. 250-51).

Non mancano però alcuni episodi trasgressivi. I carabinieri, quando compaiono, arrestano sempre la persona sbagliata (pp. 19; 153). Quando Pinocchio, truffato dalla Volpe e dal Gatto, va in tribunale per ottenere giustizia, il giudice si rivolge così ai gendarmi: «Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione» (p. 103).

 

Riletture dissacranti

«E in quel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in quell’orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di galeotti redenti e signori in maschera che regalano diamanti a bambine smarrite tra la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi, cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d’oro patrioti padovani, una sola volta appare una parola di odio, senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi; ed è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti: «Io detesto costui. È malvagio». Segue un crescendo di accuse contro «l’infame». «Ma tanto accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico, deve avere un valore emblematico. È il Male in quanto si oppone a tutto quello che la società identifica col Bene, cioè con l’ordine esistente in cui Enrico si ingrassa»: così Umberto Eco, nel famoso Elogio di Franti, uscito nel suo Diario minimo negli anni Sessanta e riportato, negli anni Settanta, in varie antologie “di sinistra”. Eco conclude immaginando che, alcuni anni dopo, Franti avrebbe agito col nome d’arte di Gaetano Bresci. Dieci anni più tardi, nell’articolo Franti strikes again, uscito nella raccolta Il costume di casa, Eco immagina una riapparizione di Franti nella scuola di Barbiana e quindi a Torino, nell’Università occupata, con l’eloquio del primo della classe e la generosità degli umili protagonisti del Cuore. L’alleanza tra Franti, Derossi e il muratorino passava inevitabilmente sulla testa del maestro, anzi richiedeva come rituale fondante che al maestro fosse gettato, da tutta la classe, un calamaio in faccia.

Una critica radicale al Cuore possiamo anche trovarla nello sceneggiato di Comencini del 1984, protagonista Johnny Dorelli. La vicenda è ambientata 17 anni più tardi, nel 1899, per fare in modo di poter rappresentare la vita dei protagonisti, diventati adulti, durante la Grande Guerra. Dinanzi a questa drammatica prova, tutto l’insegnamento morale del Cuore mostra la sua tragica inadeguatezza. Il tenente Enrico, giunto a Torino per due giorni di licenza, scandalizza i famigliari rivelando il basso morale dei soldati e la mancanza di mezzi dell’esercito. Avendo saputo che a Torino erano scoppiati disordini sanguinosi per chiedere pane e pace, così si esprime dinanzi a parenti e amici esterrefatti: «Se non vestissi questa divisa, sarei anch’io in mezzo ai rivoltosi». Il padre, lo stesso padre che l’aveva bombardato di bellissime parole quand’era bambino, al colmo dell’indignazione lo caccia di casa.

Anche Pinocchio avrebbe conosciuto una lettura alternativa. Nello sceneggiato di Comencini del 1971, abbiamo come conclusione una sconcertante confessione di babbo Geppetto. Dopo avere ammesso di essersi costruito un burattino per avere un po’ di compagnia e qualcuno che lo potesse aiutare nella vecchiaia (cioè voleva «un ragazzino perbene» tutto lavoro e famiglia), così prosegue: «Com’è stato lo sapete: / è la storia di Pinocchio, / naso lungo e capo tondo / che va in giro per il mondo / e pretende di pensare / e su tutto ragionare. / Lui non vuole andare a scuola, / lui non vuole lavorare. / Debbo dirvi in confidenza / che così non mi dispiace / m’è riuscito proprio bene / più lo vedo e più mi piace». È il rovesciamento del messaggio di Collodi!

«Dissacrare le dissacrazioni»: potrebbe costituire una conclusiva lettura dissacrante. È vero: Cuore e Pinocchio non hanno evitato che gli italiani accettassero guerre, dittatura e ingiustizie sociali. Ma l’insegnamento dei due Sacri Testi è tutto da buttar via? Qualsiasi discorso che osasse fare appello alla responsabilità individuale rischierebbe oggi di essere tacciato di bieco moralismo. Ma è possibile, in questa epoca consumistica, proporre agli italiani un forte messaggio etico che superi i limiti di Cuore e Pinocchio, ma che comporti nuovamente sforzo, impegno, lavoro, rinunce?

Dario Oitana

 

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