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teologia
376 - L’UMANITÀ DI DIO / 7 |
Qualcuno è giusto e buono?
Riprendendo quanto dicevamo prima della pausa estiva (Umanità di Dio/6, n. 373), Gesù non chiede in prima istanza di non peccare, di non trasgredire, di essere puro e buono, anche perché rifiuta persino per se stesso l’appellativo di “buono” (Mc 10,18: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (vers. Cei); più precisamente: «Nessuno è buono, tranne l’unico Dio / se non l’unico Dio soltanto» (come traduce R. Pesch, nel suo commentario della Paideia, questo passo micidiale in modo molto fedele al testo greco). |
Solo l’unico Dio è buono
Gesù non gradisce essere chiamato «buono», che sembra una caratteristica esclusiva dell’unico Dio. Egli si muove ancora senza tentennamenti nell’ambito del rigido monoteismo ebraico. Il detto, senza ombra di dubbio del Gesù storico a motivo del tremendo disagio che suscita (Mt 19,16s, pur di lenirlo, ha combinato un gran pasticcio), sembra non dare scampo a vie d’uscita edificanti: Gesù si pensa come nettamente distinto dall’unico Dio e dalla sua bontà. Ma così facendo si tira fuori dal circolo divino e si pensa come uomo, ultimo profeta, figlio dell’uomo ecc. (tutto quel che vogliamo in quanto figura chiave del dramma finale che egli stava annunciando e inaugurando), ma non come Figlio nel senso tradizionale. C’è un abisso rispetto ad es. alla finale di Matteo (v. box), con la formula trinitaria e il potere assoluto rivendicato dal Risorto. Se poi ci mettiamo anche il detto profetico-apocalittico, da Figlio dell’uomo in quanto introdotto dall’amen, «non berrò più del frutto della vite fino a quel giorno…» (v. box), sembrano due personaggi diversi, due mondi quasi estranei, due universi lontani anni luce.
L’imbarazzo però non riguarda soltanto le dottrine seguenti trinitarie e cristologiche; se solo l’unico Dio è buono, che senso ha parlare d’esser buoni e giusti, di non commettere peccati ecc.? Per Gesù la salvezza non consiste neppure nell’essere in una piena comunione ecclesiale (altro concetto a Lui estraneo, ma applicato oggi ai divorziati risposati che ne sarebbero parzialmente staccati); così come è assurdo (per Lui come per noi) dichiarare gravissimo delitto (cioè un super-peccato che taglierebbe fuori dalla salvezza e dalla comunione ecclesiale, con relativa scomunica latae sententiae, cioè automatica) l’ordinazione presbiterale di una donna o la celebrazione eucaristica con altre confessioni cristiane.
Ma la cosa è ancor più radicale, perché proprio la distinzione fra giusti e peccatori è messa in discussione da Gesù (l’ultimo e più profondo significato del racconto esemplare del fariseo e del pubblicano); si può tutt’al più dire che forse sono (e siamo) tutti peccatori (servi inutili), nel senso che c’è una fragilità e un’inadeguatezza di fondo nella dedizione al regno e nella messa in pratica della Parola. Ma se solo Dio è buono, non lo è nessun altro; per cui la rigida tematica della «giustificazione» (in gran parte elaborata da Paolo) è quasi estranea a Gesù. La salvezza è anzitutto e per lo più un dono incondizionato per i poveri, gli anawim; da un salvezza gratuita e incondizionata si passerà poi invece (finale apocrifa di Marco, v. box) al «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo/salvato, ma chi non crederà sarà condannato».
Certo, dalla sua salvezza derivano importanti conseguenze, ma non come ricatto o imposizione. Infatti sei invitato, chiamato a praticare la giustizia e ad amare il fratello (la grandiosa riduzione a due sole cose operata dalla lettere giovannee). La 1Gv ha quindi “ridotto” il peccato/peccatore a due elementi: non praticare la giustizia e non amare il fratello. Se vogliamo seguire questo criterio, in tutti gli esempi da noi fatti negli articoli precedenti (coppie normali, sterili, divorziati, transessuali ecc) non sembra esservi alcuna ombra di peccato, e i soggetti non sono qualificabili come peccatori se, per quanto concerne la loro situazione e il loro desiderio, non c’è nessuna ingiustizia e nessuna mancanza d’amore per i fratelli.
Gesù si muove nell’ambito del codice della gratuità, non in quello del dovuto. A tal proposito è importante ritornare sulla pericope della prostituta nel capitolo settimo di Luca.
Una libera interazione fra amore e perdono
Nel racconto della peccatrice in Lc 7,36-50 si evidenzia una relazione strettissima fra condono-perdono e amore, ma prima in una direzione e poi in quella inversa. Nella parabola iniziale dei due debitori se n’evince che più si condona e più il condonato/perdonato amerà (prima il perdono, poi l’amore, o il perdono come causa/motivo dell’amore). Ma applicato poi alla donna, ossia al suo grande amore (certo per Gesù), tale amore è motivo/causa del perdono che viene concesso. Le parti si invertono con una brusca svolta che va nella direzione opposta: ha molto amato (coi suoi gesti nei confronti di Gesù) e quindi le sono perdonate molte cose (o molti peccati; comunque prima l’amore e poi il perdono). Ma verso la fine ritorna (solo in alcuni codici): «Infatti quello a cui più si perdona più ama»; di nuovo prima il perdono e poi l’amore. Tanto che la conclusione salomonica del v. 47, conservato in genere da tutte le edizioni critiche, «Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» può essere tutto sommato intesa in entrambi i sensi (sia come colui che ha amato poco, sia come colui che amerà poco).
Noi siamo abituati a pensare il perdono-condono come condizionato; bisogna in qualche modo meritarselo: se non altro pentendosi, chiedendolo da contriti, implorandolo, manifestando, se non l’amore, almeno qualche buon sentimento… o promettendo di…(che risulta comunque antecedente e conditio sine qua non). Ma qui figura anche la variante inversa (prima il perdono, poi l’amore come frutto di esso) per noi un po’ strana, almeno nella forma di colui che amerà molto perché gli è stato perdonato molto; come a dire banalizzando un po’: «più uno ne ha combinate di cotte e di crude, più è perdonato-condonato, e più amerà…» (come ad es. il caso di sant’Agostino). O, detto un po’ meglio, il testo intende aprire gli occhi sui “vantaggi” dei peccatori pentiti: il perdono proviene dall’amore (in particolare per Gesù) e suscita amore (per i fratelli).
Non dobbiamo mai dimenticare che per i primi cristiani (convertiti da adulti), come per l’intero NT (salvo qualche accenno negli ultimi ritocchi redazionali), il perdono è quasi unicamente quello battesimale (la famosa aphesis), perché dopo… non si dovrebbe più peccare. Se poi s’incorreva in qualcosa di sbagliato, era l’eucarestia a rimettere i peccati (sì, l’ha fatto per mille anni; ancor oggi all’inizio della Messa si invoca e si ottiene tale perdono), come la preghiera più in generale e la correzione fraterna. Ciò è tanto vero che, una volta esauritasi parzialmente la spinta carismatica iniziale, di fronte a situazioni gravi come l’omicidio, l’adulterio e l’apostasia, si son dovuti inventare un “nuovo” sacramento, quello appunto della penitenza unica non reiterabile (una volta sola).
Ma quello che nel passo lucano è indubbiamente dal punto di vista testuale una contraddizione, una confusione, una svolta molto brusca, può essere tuttavia teologicamente trasformato in una prospettiva profonda, afferrabile solo in maniera dialettica: amore e perdono possono essere compresi solo «a strati» come una pila (amore-perdono-amore-perdono ecc.), non importa da dove si parte. Supponiamo di partire dal perdono: esso è ottenuto per pura grazia. Allora l’amore ne è la conseguenza: viene ad essere la quintessenza di tutto ciò che consegue come riconoscenza per il perdono ottenuto, e quasi per poter continuare a… esser sicuro del perdono.
Con-dono e per-dono
Oppure possiamo prendere un’altra via meno tradizionale che, senza negare il peccato/perdono come caso particolare, opta per una prospettiva più ampia in cui il debito è debito (e basta): non vale sempre la metafora che lega strettamente il debito al peccato-colpa e il «condono del debito» al perdono. Il debito è debito, e viene condonato: come a dire che ho fatto tanto, ti ho dato e amato tanto (come Dio ha fatto con noi per primo), ma non mi devi niente, siamo pari; è tutto condonato sin dall’inizio in quanto è avvenuto nella gratuità più totale. Il condono originario dissolve l’obbligo contabile dello scambio che bisogna quasi dimenticare; come in latino in cui «perdonare» si dice ignoscere (supino ignotum), che conserva integralmente l’etimo di ignorare. I due elementi in gioco quindi non sono esattamente perdono-amore (è solo un caso particolare; la parola «perdono» compare fra l’altro soltanto alla fine del brano della peccatrice), bensì non-contabilità e amore senza limiti. La non-contabilità è spiazzante per l’interlocutore, che può essere risucchiato nella logica non calcolante e non contabile, uscendo dall’obbligatorietà del contraccambio.
La stessa totale gratuità che Dio mostra nei nostri confronti (non quantificata e non contabilizzata), siamo invitati a “girarla” ai fratelli, oltre che a Dio stesso, ma non come una cosa dovuta (il codice del dovuto obbligatorio, la religione della legge), bensì liberamente, volentieri e con gioia. Il gioco è tra non-contabilità e amore senza confini, talmente compenetrati da non poter distinguere cosa venga prima. Siamo quindi stati amati da Dio, siamo con-donati nel senso del dono gratuito non contabilizzabile e non da restituire secondo la logica del calcolo. È un per-dono nel senso intensivo, l’agire per dono e con (il) dono: non tanto la remissione di colpe, ma l’instaurarsi di una dinamica tutta centrata quasi esclusivamente sul dono-gratuità, a partire in primis dall’unico Dio. Occorre quindi superare la visione tradizionale dei peccati susseguenti, perché il per-dono, con-dono grande ed effettivo, esplode quasi esclusivamente nell’incontro con Gesù: vuoi col Gesù storico (come la donna peccatrice), vuoi col Cristo nel battesimo (conferito inizialmente nel nome suo, e non della Trinità), vuoi col primo vero incontro con Gesù e il suo messaggio, anche decenni dopo il pedobattesimo nella cosiddetta «società cristiana». La parola «peccato» è irrimediabilmente consunta e corrotta: sarebbe meglio non usarla più, senza tuttavia minimamente rinunciare, anzi approfondendo in continuazione le tematiche etiche della giustizia e carità.
Mauro Pedrazzoli
Gesù storico |
Comunità cristiane successive |
Discorso della montagna/pianura
«Beati voi poveri perché vostro è il
regno di Dio» (Luca 6,20).
[salvezza incondizionata per gli anawim] |
Congedo finale dai discepoli
«Chi crederà e sarà battezzato sarà
salvo/salvato, ma chi non crederà
sarà condannato» (Marco 16,16: nella finale apocrifa, aggiunta all’inizio del secondo secolo).
[salvezza dipendente dalla fede e dal battesimo]
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Al giovane ricco (inginocchiato)
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono tranne l’unico Dio soltanto» (Marco 10,18).
[Gesù figlio dell’uomo e ultimo profeta] |
«Andate e fate discepole tutte le nazioni,
battezzandole (avendole battezzate) nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Matteo 28,19).
[formula trinitaria liturgica, con la chiara divinità del Figlio]
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Ultima Cena
«Non berrò più del frutto della vite fino a quel giorno, quando lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Marco 14,25).
[Gesù debole, che quasi necessita di essere salvato lui, dalla morte]
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«Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra … Ecco io con voi sono tutti i giorni sino alla fine del mondo (Mt 28,18.20).
[Gesù potente e imperituro] |
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