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 377 - Italia centocinquanta: le guerre del 1848-49

 

L’ITALIA NON CE L’HA FATTA

 

«L’Italia farà da sé». Questa era la parola d’ordine non solo di Carlo Alberto, ma anche, sia pure in modi e con scopi diversi, di molti italiani alla metà dell’Ottocento. Molti italiani? Una minoranza. Ma va anche detto che a coloro che in modo disinteressato hanno lottato per l’unità d’Italia va tutto il nostro rispetto. Malgrado gravi limiti, l’unità d’Italia ha probabilmente portato, nel complesso, frutti positivi. Ma la costruzione della comunità nazionale era compiuta col raggiungimento dell’unità? ed è compiuta oggi? Certamente no. Perché?

Un metodo di indagine può essere l’esame di come venivano percepite le drammatiche fasi del cosiddetto Risorgimento. Una testimonianza può essere fornita dai quotidiani dell’epoca. Non perché dicessero la Verità, ma in quanto specchio abbastanza obbiettivo delle passioni che agitavano gli animi di coloro (una minoranza, ricordiamolo sempre!) che erano in grado di leggere, di riflettere, di discutere. Sull’argomento, il sottoscritto aveva già scritto sul foglio (nn. 330 e 331).

 

Austrogesuiti e austrogiacobini

L’appellativo di «gesuita» è un atroce insulto: «Va via, tu sei tre volte gesuita… Il partito gesuitico è perfidamente avverso all’Italia. La natura del gesuita è tenace, sanguetta (sanguisuga, ndr)… Rompere, schiacciare quella vecchia corteccia di gesuitismo, assai potente e di gesuitica arte da organizzare la sconfitta di Novara» («Gazzetta del Popolo», 20/7/1848, 10/7/1849).

Talvolta l’odio antigesuitico porta a divertenti equivoci come quando, in piazza Castello, una signora viene scambiata per un gesuita travestito: «In un istante la moltitudine la circonda, già viene trascinata sotto i portici, già si era progettato di svestirla per avere la consolazione di trovare sotto gli abiti femminili un diletto gesuita». Tutto finisce bene, grazie all’intervento di un caporale della Guardia nazionale. «Piemontesi, ricordatevi che un popolo maturo a libertà non dà luogo a simili scandali e che anche fosse stato un gesuita non era d’uopo maltrattarlo. Una lode al caporale che, non temendo gli insulti di un migliaio e più di persone, salvava quella donna in un momento che forse avrebbe avuto sinistre conseguenze» (ibid., 29/7/1848).

Come rispondevano i quotidiani “clericali”? Rimandando al mittente l’accusa di tradimento. «Possano gli Italiani comprendere che traditori del loro bene sono tutti quelli che cercano di fomentare in mezzo a loro nuove idee. Solo l’unione fra i Principi e i popoli d’Italia può essere la sua salvezza… Costoro osano parlare di Patria! È l’Austria che li paga perché essa non avrebbe potuto vincere senza loro. L’Austria dice ai suoi cagnotti: fatemi del Piemonte quel che mi faceste di Firenze e di Roma; riducetemelo uno scheletro, un cadavere, un nulla… Guerra v’è in Italia, una guerra infame e liberticida; guerra di spergiuri ambiziosi, guerra del vizio contro la probità. Si vuole la guerra contro l’Austriaco? Non la si renda dunque impossibile con le eccedenze, con le follie correndo frenetici dietro i sogni e i vaneggiamenti d’utopisti dissolvitori e ridicoli… S’alzi una guigliottina, e voi sarete subito i più valenti degli uomini, dei carnefici, vogliamo dire! Su, da bravi, signori boia repubblicani, mettete fuori la vostra macchina, instaurate, e tosto, anche tra noi il beato regno di Robespierre… Il popolo di Roma, il popolo di Firenze, furono da questi Gracchi gracchianti, adulati, incensati turibolati da mane a sera e n’ebbero come unico premio che i Gracchi gracchianti pensarono molto bene a impinguare il borsello, e ch’essi, popoli-re e popoli-dii, stanno morendo di fame» («L’istruttore del popolo – Dio e Patria», 10/3, 5/4, 13/3, 6/4, 7/4/1849).

Anche «L’Armonia – della religione colla civiltà – Ubi Petrus ibi ecclesia» restituisce l’accusa di tradimento. «Traditori furono quelli che, per far tesoro di riputazione democratica, ingannarono il popolo, traditori furono quelli che crearono intoppi alla rigenerazione d’Italia sognando l’impossibile, una repubblica unitaria. Traditori furono quelli che, invece di una federazione prossima a concludersi fra i vari legittimi principi italiani, sola capace a far risorgere l’Italia dallo straniero servaggio, strinsero la mano a governi demagogici originati dall’insurrezione» (6/4/1849). C’è perciò da stupirsi dell’esultanza del periodico cattolico alla notizia della caduta della repubblica romana? «Cecidit, cecidit Babylon! Non Roma è caduta, ma la Babilonia, il convegno, la geenna, il pandemonio di tutte le tribù e di tutte le lingue. Lode a Dio immortale! La Roma del Popolo non è più: è caduta per sempre la fantasmagoria del Mazzini. Quante volte i profeti della menzogna, seguendo il di lui consiglio, ci annunziarono il loro regno col motto famoso delle crociate: Dio lo vuole, Dio lo vuole! Ma il Dio delle Crociate non era con loro» (11/7/1849).

 

La retorica nasconde la realtà

I giornali dell’epoca grondano di propaganda guerresca, tanto più urlata quanto più debole e disorganizzato era l’esercito. Una soluzione pacifica era inimmaginabile, sia perché l’Austria non era disponibile a concessioni sostanziali, sia soprattutto perché suonava indegna di un popolo anelante alla guerra e all’immancabile, gloriosissima Vittoria.

Nei giorni che seguirono la sconfitta (non grave) di Custoza e l’inglorioso abbandono della Lombardia (31/7–7/8/1848) anziché analizzare le cause dell’insuccesso, la «Gazzetta del Popolo», si sforzava di emettere quotidianamente appelli sempre più roboanti. Il linguaggio meriterebbe un accurato esame psicanalitico. «O popolo, gli Austriaci sono vilissimi assassini; popolo italiano, guai a te, se gli lasci solamente avvicinare al focolare della tua famiglia! Essi vi portano l’onta, il vituperio, lo stupro, l’incendio, la distruzione. Su! Piemontesi! Guerra! Guerra a morte all’Austriaco! Soldati della riserva, se avete spose, se avete figlie, pensate agl’infami croati, agl’infami austriaci! Dio santo! Dio santo! A quel pensiero le armi vi parranno l’unico rifugio, l’unico modo di salvare l’onore, la vita delle vostre famiglie! Il popolo ha voluto, vuole e vorrà irremissibilmente la guerra!… Sì, guerra senza misericordia. Abbiamo tali nemici, che non meritano nessuna pietà. Animo! Animo! Spingete alla guerra i seminaristi: questi almeno (speriamo) non lasciano orfani, non lasciano mogli nel pianto. Non stiano dunque più a lungo a poltrire e vegetare nei seminari! Le campane suonino a stormo per destare i popoli alla guerra sacra, ad una guerra a morte!… Qualche città rimarrà saccheggiata? Non importa! Nuovo motivo di vendetta… Italiani, vuotate i borghi, le campagne, i villaggi, disertate le case. Non aspettate l’addio delle madri e delle mogli, siate crudeli con voi stessi. Pensiero dei figli, memoria della donna amata, affetto di famiglia non valga trattenervi, fuggite per correre alle armi. La rabbia addensata, i repressi dolori sfogherete trucidando i Croati. Guai a chi ci parlasse di pace, di tregua con il Croato». Sette mesi più tardi (23/3/1849), alla vigilia della disfatta di Novara, il linguaggio non era cambiato. «Piemontesi! Non ci arresti il sapere che l’esercito nostro è potente, agguerrito, e valorosissimo. Scendete dai monti, dalle colline! Scendete a stormi, in compagnie. Camminate sui fianchi dell’esercito: portategli viveri, vino. Diamo loro camicie e scarpe».

Né diverso era il tono dei giornali “clericali”. «A chi con belle parole cerca venirvi, in questi supremi momenti, ad infondere nell’animo desideri di nuove forme di governo, dite loro che voi abbisognate non di formole filosofico-politiche, ma di petti intrepidi in faccia al nemico» («L’istruttore del popolo», 10/3/1849).

La tragica realtà emerge da una fredda statistica. Parlano i morti, i feriti, i fuggiaschi e soprattutto gli ammalati. «Morti sul campo di battaglia ed in seguito ad amputazioni operate negli ospedali, n° 2000. Feriti: 500. Fuggiaschi di cui non si conosce la loro dimora 500. Ammalati di febbre negli ultimi giorni della ritirata 12000» («Gazzetta del Popolo», 6/9/1848).

Un ricordo personale. Mi era stato riferito, ridendo, che una mia prozia, ai primi bombardamenti su Torino, aveva esclamato terrorizzata: «I Cruat!». Evidentemente, a quasi un secolo di distanza, la parola «Croato» conservava un suono crudo, crudele, spaventevole.

 

Unica vincente, la burocrazia piemontese

All’inizio della cosiddetta prima guerra d’indipendenza, leggiamo una penosa testimonianza dell’impreparazione dell’esercito sabaudo: «bravi soldati stanziati a Nizza, S. Remo e Oneglia furono mandati a fare una faticosa passeggiata a Mondovì e a Cuneo per andarvi a prendere chi un cappotto, chi un altro piccolo oggetto e poi tornare stanchi e malconci a Nizza. Simili controsensi fanno un pessimo effetto tanto nei soldati che nelle popolazioni. I nostri reggimenti non sono in grado di concorrere energicamente agli avvenimenti in Lombardia, pel solo motivo che si fa perdere tempo prezioso in marcie affatto inutili, e forse ridicole» («La Concordia», 25/5/1848).

La partenza di un soldato per la guerra significava spesso, per la famiglia, la perdita dell’unico sostegno economico e la caduta nella miseria. Il Governo promise aiuti, ma... «Guerra! Guerra! Gridano a gran voce coloro che bramano l’onor del Piemonte, la salvezza d’Italia. Il Governo risponde con alcuni provvedimenti sconnessi. Quel benedetto milione pei sussidi alle famiglie dei contingenti è tuttora in cifra un mese dopo la data del decreto di assegnamento. E chi obbligherà 30mila uomini a battersi coraggiosamente, se eglino sanno che i loro cari derelitti chiedon pane e non l’ottengono, per le sempre viziose burocratiche formalità? Governo nuovo sul sistema antichissimo non può andare: mandare dall’Intendente, che le passa al Sindaco per compilar lo stato, il quale deve ritornare all’Intendente, poi al Governatore, poi al Ministero, le supplicazioni per un sussidio che è dovuto, è cosa che sa più di croato che di italiano. I Sindaci tengano i registri; da questi si sarebbe potuto estrarre lo stato dei bisognosi di soccorso e pagare un mese anticipato alla dolente madre de’ bambini piangenti. Con questo mezzo questi 30mila uomini si poteva condurli, non alla guerra per una causa ch’essi ben comprendono, ma anche a Vienna. Perché non s’è fatto? E si vuole fare la guerra?» («Gazzetta del Popolo», 7/9/1848). Alcuni problemi apparivano più urgenti soprattutto per la burocrazia piemontese: la capitale di un regno dell’alta Italia, regno che non esisteva ancora, non sarà mica spostata (orrore!) a Milano? (ibid., 19/6/1848).

Dallo stesso giornale viene denunciato lo stato in cui vengono tenuti i soldati nel campo di San Maurizio. «Ci risulta che nel 28 maggio nella sola città di Torino erano ricoverati 3182 soldati ammalati provenienti dal campo, senza contare quelli che si trovano nell’ospedale di Chieri che ne contiene dai 4 ai 500, e senza contare quello di San Benigno per gli scabbiosi (rogna) che ne contiene circa 700. Da cosa diavolo proviene questo strepitoso numero di soldati ammalati? Probabilmente dal modo di vivere in cui sono tenuti. Noi lo abbiamo palesato a varii medici, i quali lo disapprovarono altamente. Dopo cinque ore di esercizi, il cibo consiste in una zuppa con carne avanzata dalla sera precedente, la quale il più delle volte è fetente… La scusi sa, signor ministro della guerra, se ficchiamo il naso negli affari militari. Noi ficcheremo sempre il naso nelle amministrazioni militari» (4/6/1849).

In parlamento, dopo la sconfitta di Novara, si esige «una formale e sùbita inchiesta sulle cause de’ nostri disastri. Come mai mancarono i viveri? Mancò il corpo sanitario? Tutta la Camera appoggia tosto l’inchiesta» (ibid., 28/3/1849). L’inchiesta non giunse mai a termine, grazie all’alleanza tra corte, governo e burocrazia militare.

Dietro alle battaglie che si leggono sui libri di storia, dietro alla feroce lotta tra ideologie contrapposte, dietro alla nauseante retorica patriottarda, dobbiamo ricordare con commozione la sofferenza silenziosa e sconosciuta dei soldati e delle loro famiglie. E i nemici non erano solo il Croato e l’Austriaco. Erano il Burocrate e tutti quelli che perseguivano i loro meschini interessi a scapito del bene della comunità di cui facevano parte e che avrebbero dovuto servire. Allora come ora.

Dario Oitana

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