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chiesa
379 - il foglio - FEBBRAIO 1971 – 2011 - Enrico Peyretti |
Quaranta anni de il foglio
Due ore alla settimana per 10-11 mesi all’anno, per quarant’anni. Un bel po’ di lavoro insieme. Non è solo una redazione, ma un circolo per discutere di tutto. |
Solo qualcosa di queste discussioni e riflessioni può entrare nelle otto pagine di ogni numero. Quarant’anni, per me, sono più di metà della mia vita. Il foglio è ciò che ho fatto più a lungo di tutto. Immagino che si possa capire che lo senta importante.
Di fare un bilancio non ci provo. Né di farne una storia: bisognerebbe percorrere i numeri e le annate (sette grossi volumi rilegati), collocando gli scritti nelle circostanze temporali. Cominciammo nel clima del 1971, mentre nascevano anche altri fogli grandi e piccoli: tanti non sopravvissuti e altri ancora ben vivi, come Tempi di fraternità, e il manifesto. Avevamo dentro sia il Concilio, sia il Sessantotto. Il primo nome che avevamo pensato era “Il Giovanni” (il papa del Concilio, con tutto ciò che significava), poi ripiegammo sull’attuale, per modestia.
Dei primi, siamo rimasti Cesare Maletto, Aldo Bodrato e io. Tra i primissimi, c'erano anche Toni Revelli e Pier Carlo Pazè. Tanti si sono aggiunti in seguito, alcuni solo di passaggio. Oggi abbiamo anche dei giovani. Altri sono già “andati avanti”, e li ricordiamo con affetto: Edilio Antonelli, Bernardino Pozzi, Gian Michele Tortolone. Nei primi tempi collaborava anche Vittorio Messori, che non aveva ancora pubblicato il suo primo libro, né preso le posizioni divergenti successive, ma non volle far comparire il suo nome. Io ho fatto il direttore – ma il lavoro è sempre stato collettivo – fino al 2001, per trent’anni, quando proposi Antonello Ronca, nato nel 1968.
Attese e delusioni
Era tempo di grandi attese, nel ’71. E relative delusioni. Eravamo impazienti, ma condannammo subito, appena comparsa, la via violenta. Fino dai commenti sul golpe cileno del 1973, auspicavamo una lotta nonviolenta al capitalismo violento. Ci impegnammo, come piccolo organo di opinione, contro la lotta armata interna, che colpì anche la vita di varie persone amiche: mi basta ricordare Vittorio Bachelet e Pinuccio Taliercio, i più noti. Vedevamo che radicalità e violenza sono in contraddizione.
Nei primi anni abbiamo dedicato più attenzione alla chiesa locale, alla città di Torino. In seguito – è vero – molto meno. L’episcopato conciliare di Pellegrino, il periodo di Novelli sindaco, la vitalità sociale e culturale torinese, ci impegnavano in una partecipazione positiva, con senso critico. Qualche volta – lo confessiamo – abbiamo ecceduto in prudenza, ci siamo autolimitati su argomenti più scomodi.
Nella chiesa, quasi sempre, abbiamo trovato muro di gomma. Pellegrino all’inizio apprezzò un ruolo come il nostro, in seguito non trovò tutte buone le nostre posizioni teologiche. In questi ultimi tempi, in cui per partecipare al cammino della chiesa, verticalizzato, ci vuole una buona volontà quasi eroica, tentiamo di essere voce dei tentativi migliori, ma siamo indotti più che altro a proporre riflessioni di fondo, sperando che siano utili.
Non siamo mai entrati nel “giro” culturale mondano della città, né abbiamo avuto tale presunzione, ma alcune delle migliori teste ci hanno apprezzato e sostenuto.
Non abbiamo mai avuto problemi di soldi. Altre pubblicazioni non ce la fanno, forse perché prendono forme più costose. Una sola volta, nei primi anni, abbiamo messo 100.000 lire a testa (50 euro di oggi); una sola volta, allora, abbiamo chiesto e avuto 100.000 lire dalla Fondazione Cassa di Risparmio, e poi mai più niente da nessuno. Soltanto gli abbonamenti e il nostro lavoro, ovviamente gratuito, tengono in vita il foglio. Alcuni amici sostenitori (tra i quali c’era Norberto Bobbio) versano tre o quattro volte più della quota richiesta. Oggi, nell’associazione editrice, noi redattori mettiamo 15 euro all’anno.
Per tenersi svegli
Non abbiamo il polso preciso di chi siano i nostri lettori, e questa è una nostra mancanza. Ci sembra che non siano solo cattolici critici, ma anche non credenti (o diversamente credenti) che convergono in una volontà di riflessione e impegno morale, intellettuale, civile. Quanto al numero, gli abbonati sono come all’inizio: 500-600, con naturali ricambi. Non conosciamo la loro composizione per età. Sarebbe utile che ci dicessero più spesso, in molti, cosa pensano di questo foglio.
Le nostre posizioni politiche sono, da sempre, a sinistra. Questa parola ha un vero significato, contro chi lo nega: vuol dire che il diritto-dignità vale più del diritto-possesso. Siamo a sinistra, con qualche differenza: alcuni più realisti e pazienti; altri più esigenti. Io sono impaziente: a volte mi pare che il nostro foglio resti lento a raccogliere e ritrasmettere ai lettori lo stimolo di una maggiore sensibilità politica, di un pensiero e una parola attiva sulle ingiustizie madornali e violente del mondo. Temo, a volte, che siamo un po' troppo distaccati davanti al turpe spettacolo della violenza, sia sottile che pesante, la violenza della menzogna e quella dell’economia armata. Temo che, quanto a prospettive positive, indichiamo ancora poco. Me ne assumo per primo la responsabilità.
L’Italia di oggi, largamente succube della cialtroneria morale e dell’abuso politico canagliesco, ci dà vergogna e sofferenza, anche per la debolezza ideale e operativa delle alternative, e per la complicità miserabile della gerarchia cattolica. Unica possibilità che vediamo, per questa nostra piccola impresa, una sempre maggiore serietà libera, meditata, critica.
Quarant’anni sono come il cammino nel deserto. Un tempo simbolico, che continua. Forse questa piccola esperienza è ancora aperta. Quando mi chiedono cosa facciamo, rispondo: «Ci teniamo svegli»
Io vorrei che scrivessimo più leggero e più pesante. Come si alternano le forme del cielo. Più indignati in prosa. Più sereni in poesia.
Enrico Peyretti
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