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il foglio-lettere
lo stimolo per prendere la penna in mano mi è venuto notando la periodica ricomparsa sul foglio di taluni temi che, mi sembra, vengono a formare una certa concatenazione di riflessioni coerenti rispetto ad una stessa problematica. Le ho trovate riprese nell'ultimo numero (330), nell'articolo di fondo, che reca nel titolo (di nuovo!) la citazione di Auschwitz. Il nome, così fortemente emblematico, non costituisce evidentemente soltanto l'evocazione di un luogo, né solo degli specifici crimini là perpetrati. Nel corso dell'articolo, infatti, è detto che vi sono state «molte Auschwitz». Stiamo dunque riferendoci a qualcosa di ancora più generale, rispetto a quell'abissale catastrofe che chiamiamo “Olocausto”: parola che, se pur ripetuta con tanta frequenza, non cessa di suscitare angoscia e vergogna – specialmente in noi che siamo nati e vissuti nel tempo in cui quelle mostruosità erano in atto: e che perciò non possiamo fare a meno di inorridire quando oggidì assistiamo a folli tentativi di negazione dei fatti. (....) Il punto allora è questo. Nel porre la domanda («si potrà mai chiedere conto a Dio di Auschwitz?») occorre individuare chi è che avanza il quesito, o meglio, la contestazione. E diciamolo subito: secondo la nostra impostazione culturale del problema è la Storia e non altri che interroga Dio. (....) Qualcuno infatti da tempo ci ha instillato la persuasione che la sintesi ultima ed assoluta di tutto ciò che è umano altri non è che la Storia: cosicché è lei che giudica («La Storia ci giudicherà! La Storia ci darà ragione!»), ed è quindi in lei che viene risolto – o assolto o condannato, comunque sia – tutto il nostro agire. È ovvio pertanto che sia lei a interpretarci, anzi a sostituirsi a noi, ad espropriarci ogni protesta, ogni gemito. (...). Essa?… La Storia? Ma di che stiamo parlando? Non sembra vero che possiamo essere vittime di un equivoco, di una così estrema povertà logica. Chi patisce, chi agonizza, chi è all'orlo della disperazione è sempre il singolo: da solo l'uomo soffre. Da soli si muore. Da quando in qua il vero dolore (non la sua declamazione, non la sua rappresentazione letterario-filosofica; ma piuttosto il reale patire morale e fisico), da quando in qua queste cose concrete ammettono di avere un soggetto di natura astratta? (...). Non vogliamo dunque accettare l'evidenza (che nel cristianesimo riveste un ruolo centrale), quella per cui Dio è interpellato anche da una sofferenza e da una morte unica (così come era totalmente chiamato in causa da Giobbe). La tribolazione di uno! la tribolazione, l'agonia di un uomo solo, che la vive in un punto infinitesimale del tempo e la vive da solo (sempre, quando un uomo è portato ad un tale estremo, è solo) in che cambierebbe, anche qualora si trovasse a patire e morire assieme ad altri cento? Non cambia nulla. la morte di uno è realtà talmente ultrastorica da non potersi accrescere (esistenzialmente, ma è meglio dire: essenzialmente) su nessun piano quantitativo, allo stesso modo in cui non può darsi una sommatoria di infiniti. Allora diremo: una realtà di questo genere, anche se unica, interpella tutto. Da sempre. Non c'è assolutamente bisogno di citare il nome di Auschwitz: i termini del problema sussistono identici dal giorno della morte di Abele: anzi dovremmo dire dall'agonia e dalla croce di Cristo. È là che è stata formulata la domanda estrema!... E noi, che sentiamo così tragicamente audaci, quando pronunciamo i nostri «perché?»; dimenticandoci che l'interrogativo del Golgota non solo li ha preceduti, ma li supera e li include tutti, nonostante che la sua eco all'udito dell'uomo moderno si sia affievolita al punto da parere dileguata. È forse per questa ragione che i fondamentali quesiti, quando tentiamo di dirli servendoci solo del nostro umano linguaggio, sembrano assumere un peso così titanicamente grave, da apparirci insormontabili. Comprendiamo e condividiamo ovviamente tutta l'angoscia insita della domanda: «Come poter continuare a credere, o come pensare la fede, dopo Auschwitz?». Su questo cruciale nodo si sono cimentati – come ben sappiamo – spiriti religiosi della più diversa estrazione, non cristiani e anche cristiani. Ma è pensando soprattutto a questi ultimi che ci verrebbe quasi da riformulare il quesito (se davvero non risultasse offensiva la paradossalità della cosa), esprimendolo in questi altri termini: «Come poter continuare a credere e come pensare la fede, dopo Gesù Cristo?». La saluto con sincera amicizia don (segue firma) FARE ECO AL GRIDO Torino, 3-5-06 Gent.mo don ..., cercherò di rispondere alle sue osservazioni, se bene lo ho comprese, e subito farò presente che mai il mio interrogativo è fatto a nome di altri che io non sia, "paziente" la mia parte, come tutti gli umani, e testimone di "pazienti". Penso a Primo Levi, e a Jean Améry, letti e studiati a lungo, suicidi dopo aver parlato agli uomini del proprio ingiusto e smisurato patire. Non a Dio, in cui dicevano di non credere. Parlo di Elie Wiesel, di Paolo De Benedetti e di altri, che hanno parlato (e agli uomini e a Dio) delle loro tragiche esperienze o di quelle dei loro cari. Voce di singolo la mia, voci di singoli la loro. Certo non di oppressi, schiacciati e resi afasici dal dolore, ma di sofferenti in un momento di riposo e di respiro, di sofferenti che hanno avuto la possibilità di riflettere e di interrogare, essendo usciti, almeno dalla fase acuta del loro soffrire, se non dalla sua ombra mortale e sempre minacciosa. Cosa del resto che vale per Giobbe, scritto non da un paziente ma da un sapiente, e della memoria a noi giunta dello stesso Cristo crocefisso, il cui grande e disarticolato grido ultimo è duplicato e evangelicamente tradotto, da altri, in un problematico: «Elòi, Elòi...». No, la storia con la maiuscola non c'entra niente coi miei articoli su Auschwitz, o almeno non c'entra come protagonista o personificata rappresentante dell'umano esperire, dell'esistenziale vivere. Se mai c'entra ed è richiamata come luogo del reale spazio vitale del rapporto uomo-Dio, con una qualche contrapposizione a coloro che leggono tale rapporto solo sullo sfondo di una natura metafisicamente intesa come reale sfondo del discorso antropologico e teologico. In questo senso tutto il mio articolo è un rifiuto di considerare la storia, nella sua globalità, nella sua finalistica totalità, provvidenzialista o storicista che si voglia, come attendibile, possibile risposta agli interrogativi sull'umano patire. E, per quanto Hegel mi affascini per il suo rigore sistematico, molto più mi affascina Kant per quello metodologico e Kierkegaard per la sua passionalità irriducibile. Qualunque lettore di Giobbe lo sa. Il patire è singolo, individuale, occupa tutto l'orizzonte dell'esperienza paziente, non lascia spazio al prima e al dopo riconciliati, esige risposte subito, perché è patire del mortale. In quanto tale effimero, ma anche pericolosamente tendente alla definitività. Così Giobbe parla al singolare, ma in quanto parla a nome di tutti gli uomini, in quanto esprime il proprio della condizione umana, parla anche al plurale. Così è anche di Gesù. Altrimenti perché mai la sua morte e resurrezione dovrebbero essere emblematiche e coinvolgere tutti gli uomini? La solitudine del morente non è mai singola ma universale, è la solitudine di tutti i morenti e il mio patire, se prende voce, prende voce a nome di tutti coloro che patiscono. Per altro, mi permetta di dirlo, è luogo comune ma non sempre vero che «da solo l'uomo soffre e da soli si muore». So bene che «la solitudine del malato e del morente» è esperienza di molti. Forse oggi più di ieri. Ma so anche che non è esperienza assoluta e univoca e soprattutto non definibile, quasi metafisicamente, come tale. Per cui non credo sia illecito osservare che da sempre la morte ha un soggetto plurale, è la mia morte come uomo, in cui ogni altro uomo un poco muore o, come dice un midrash sui «sangui di Abele», la morte di ogni uomo è la morte di tutto un mondo, di infiniti mondi possibili. E non è retorica. Lo sa chiunque ha perso un figlio, un marito o una moglie amati, un amico carissimo. Comunque è vero: la storia con la maiuscola non c'entra nulla, c'entra la ricchezza del cuore umano che è infinita nel gioire e nel patire. E veniamo alla tragedia di Auschwitz, che certo non è più significativa di quella di Giobbe e del Cristo per i suoi numeri, ma per la sua modalità e intenzionalità, che forse sono rese più mostruose perché programmano la deformazione dell'uomo nelle vittime e nei carnefici. L'insistere su di Essa si giustifica con la sua macroscopicità, con la sua evidenza universale, con l'impossibilità di essere nascosta e camuffata e anche con la sua valenza biblico-religiosa, almeno per i credenti nel Dio biblico. Suona infatti come la stessa negazione della Sua ragion d'essere. Estinti gli ebrei, e Gesù era ebreo, confessato messia universale in quanto messia del popolo ebraico, potrebbe ancora esistere fede nel Dio cristiano? Infine sulla decisività della Croce di Cristo per la comprensione di Dio, credo di aver scritto cose chiarissime nel mio articolo e in tutti gli altri, compresa l'ultima poesia sulla Settimana Santa (il foglio n. 331). Che è «il buco nero» che dobbiamo affrontare se non la morte? E come lo possiamo affrontare, noi cristiani almeno, se non riconoscendoci nella morte del Cristo, restituitoci vivo, nella speranza e nell'annuncio, ma restituitoci "ferito" a morte per sempre? Possiamo andare oltre questo paradosso? Ha il cristianesimo davvero mai maturato compiutamente un'immagine e un rapporto col proprio Dio commisurati alla croce del Cristo? La riflessione su Auschwitz, sulle infinite Auschwitz della storia passata e presente, non è forse uno stimolo adeguato e per noi necessario per rinnovare continuamente e fare nostra l'esperienza di fede e l'invito alla sequela del Crocefisso? Che altro, con tutti i miei limiti morali e intellettuali faccio, maniacalmente, da quanto scrivo di teologia, se non inseguire un cristianesimo che tenga conto del grido della croce? Nel ringraziarla ancora per l'attenzione e l'amicizia Aldo Bodrato
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