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 381 - Non giustifico la guerra

 

Sulla guerra di Libia, insieme a una quantità di voci indignate, angosciate, impegnate, ascolto anche considerazioni realistiche, giustificatrici, che sono serie, ma pongono comunque angosciosi interrogativi, se non ci manca sensibilità umana. Secondo tali considerazioni, in casi come questo, più che problemi di principio sono in gioco strategie concrete: come quando di fronte ad un sequestro si discute se intervenire con blitz della polizia o adottare altre strategie. Secondo queste opinioni, la discussione non può portare a delegittimare a priori l’uso della forza.

Invece, mi pare di dover osservare che i problemi di principio sono centrali anche in un tale caso: per frustrare il sequestro la polizia non può semplicemente mettere in conto molti morti (in qualche caso in cui è avvenuto, l'ingiustizia è evidente), ma deve cercare di salvare il massimo di vite umane. È dunque questo principio, collocato nelle concrete circostanze e possibilità, che regola le strategie.

Gli stati nella loro pretesa «sovranità» non vogliono attrezzare una polizia della comunità dei popoli. La polizia è tutt'altra cosa dalla guerra. Così, non hanno mai attuato l'art. 47 dello Statuto, e le operazioni di peacekeeping sono rimaste prerogativa di potenze o di coalizioni, che rappresentano le fazioni forti e non la comunità e il diritto dei popoli. L'Onu, per suo Statuto, può usare la forza ma non può autorizzare alcuna «guerra», essendo istituita proprio per «salvare le future generazioni da questo flagello» (prologo dello Statuto).

 

Gli stati insubordinati all’umanità

Bisogna capire i limiti della realtà, delle contingenze strette del momento, la logica dell'urgenza (dopo tanto ritardo!), dello stato di necessità nel soccorrere le vittime, della riduzione del danno, ma non si vede alcuna cultura politica – salvo la nonviolenza positiva e attiva, solitamente relegata tra le utopie impossibili, a torto perché ha notevoli esperienze storiche – che si impegni nella ricerca istituzionale di un controllo dell'ordine mondiale con metodi di polizia civile, senza l'offesa e la distruttività della guerra. È vero tuttavia che la nonviolenza deve sviluppare le azioni di disobbedienza civile alla politica bellica, come seppe fare, per esempio, con l'obiezione di coscienza all'obbligo militare.

La guerra continua ad accendersi perché gli stati la accettano, la preparano, la commerciano e persino la celebrano come unico mezzo nei conflitti acuti, perché si ritengono insubordinati all'umanità, unica legittima sovrana nel decidere il destino comune, indivisibile. Inoltre, la diffusione e l'evoluzione degli armamenti ha determinato il fenomeno della «guerra privata», di bande e cellule, più o meno ideologizzate (vediamo anche il ritorno dei pirati), che riportano la guerra alla fase precedente il monopolio statale.

Certamente, per quanto largamente imperfetta, l’Onu è da tenere preziosa perché è l’unico abbozzo di istituzione che superi la concezione che demanda ai singoli stati l’uso della forza, che in realtà è violenza, perché esercitata senza limite superiore. Questa è la guerra che l’art. 11 della nostra Costituzione «ripudia»: così la Repubblica italiana si è impegnata al divorzio tra stato e guerra, e nessuna responsabilità internazionale le permette di partecipare a coalizioni di guerra. L'Onu è questo abbozzo, e il pensiero universalista della pace nonviolenta ne rappresenta lo sviluppo.

In una situazione di violenta ingiustizia (motivo addotto per questo intervento in Libia) l’alternativa all’azione di guerra, che usa armamenti aggressivi e distruttivi, non è certo l'assistere impotenti allo strapotere di un dittatore. Chi giustifica, anche con amarezza, questa guerra, ritiene che non avessero concreta praticabilità le alternative: forte insistente e tempestiva iniziativa diplomatica, pressioni economiche, fino alla “invasione” di personale civile preparato alla solidarietà con la popolazione e alla mediazione tra le parti.

 

Politica passata e cattiva compagnia

In ogni caso, è da giudicare severamente la politica internazionale, e quella italiana in specie, perché hanno a lungo, fino ad oggi, per bassi interessi, aiutato, onorato e abbondantemente armato quel dittatore a cui ora fanno la guerra, dei cui crimini si sono fatte preventive collaboratrici. E perché non hanno capito per tempo che ci sono e si possono creare mezzi politici e civili, se si vuole agire in modo positivo sulle crisi: per esempio costruendo progressivamente una comunità economica e culturale del Mediterraneo, fino a Israele e Palestina, che ingloberebbe poteri e conflitti locali in un sistema di maggiore respiro e scambio, favorevole alla naturale e non imposta diffusione dei metodi democratici, come è avvenuto in Europa, e come dimostrano le istanze migliori di queste rivoluzioni arabe; per esempio istituendo o riconoscendo i «corpi civili di pace» che oggi si costituiscono spontaneamente e agiscono in zone di conflitto (dalla Palestina, alla Colombia, Guatemala, Kosovo, ecc., operano le Peace Brigades International, l'italiana Operazione Colomba, generose iniziative che la politica ufficiale ignora). Questo si deve cercare, se non si vuole affidare la «giustizia» alla cecità omicida delle armi, che sempre colpiscono, nel presente e nel futuro, i civili più dei dittatori, gli oppressi più degli oppressori.

Così come, per quanto riguarda i “pacifisti”, dobbiamo anche tener conto che siamo in «cattiva compagnia», con Bossi e la Lega che ripetono no alla guerra per motivi che partono da presupposti diversi dai nostri: la guerra ci disturba, fa calare la borsa, e poi Gheddafi fermava gli immigrati, e ci dava la benzina…! Non abbiamo fatto molto per impedire i crimini che Gheddafi ha compiuto negli ultimi anni annientando il popolo dei barconi. Né abbiamo boicottato le banche (quasi tutte, in particolare l'Unicredit) che finanziavano e armavano Gheddafi e altri dittatori, né abbiamo fatto sufficienti pressioni sulle cosiddette opposizioni perché non firmassero il «trattato d'amicizia con la Libia».

 

Uccidere non difende

Lo strumento dell'uccidere per tagliare il nodo di un conflitto (non nell'immediata vera necessità di fermare chi sta uccidendo o colpendo, ma come metodo ultrapredisposto, arciorganizzato, strapremeditato), non difende la semplice vita, ma la nega in assoluto. È l'antipolitica, l'antistoria, l'antiscienza. Esiste solo come esito voluto di una escalation del potere sugli altri, l'inseguimento lancia-scudo, fino alla contraddizione con lo scopo non solo della difesa, ma persino della sopraffazione, divenuta inutile, suicida. Non occorre citare Russell, Einstein, ecc. C'è la necessità-dovere di fermare il prepotente (ora Gheddafi): ma, come dice Todorov (Repubblica, 23 marzo) «la guerra è un mezzo tanto potente da far dimenticare il proprio obiettivo». Fa parte, come il segnale di Fukushima, della tracotanza che non serve, controproduce. Non vale per difendere, né per fare giustizia. Specialmente per le conseguenze successive, che si proiettano nel tempo lungo, come le scorie nucleari. Un uso "limitato, moderato" della guerra è (quasi) impossibile, è più difficile di qualunque altro mezzo. Questa è no-fly-zone? È fermare Gheddafi? Ogni notizia dalla guerra è sospetta di falsità. Eppure la politica ancora non tenta neppure di sviluppare davvero i metodi alternativi. Non so se il mio è estremismo ingenuo. Mi pare tanto più ingenuo pensare ancora la guerra (e questa in Libia è vera e propria guerra, altro che Onu!) come un mezzo razionale, mentre già papa Giovanni aveva detto bene: «bellum alienum a ratione». Almeno nell'era atomica, che è l'era in cui siamo ancora.

Enrico Peyretti

 

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