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 381 - GLI AMORI DEL SIGNORE

 

La forma breve di questo studio, divisa in tre parti, si trova nel Foglio cartaceo a partire dal numero 381 (Aprile 2011).

 

Il discepolo che Gesù amava

 

Vogliamo trattare l’affascinante, misteriosa e anonima figura del «discepolo che Gesù amava» (d’ora in poi spesso diremo il discepolo amato), che non è Giovanni di Zebedeo, l’apostolo figlio del tuono e fratello di Giacomo, uno dei 12. Ciò appare chiaro in una delle 5 scene in cui compare, ossia durante l’apparizione post-pasquale al lago di Tiberiade nell’epilogo ultra-redazionale del capitolo 21 del quarto Vangelo. All’inizio si presentano per nome i personaggi sulla riva: Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo, [è l’unica volta che vengono così denominati in questo vangelo; quindi, dopo tanta precisione, segue la reticenza…] e altri due discepoli innominati (v. 2). Se avessero scritto genericamente «ed altri discepoli», lo si potrebbe capire; ma se sanno che sono due (e quindi quasi sicuramente ne conoscono il nome), perché tenerli anonimi? Ha quindi luogo la pesca miracolosa ed è il discepolo amato a riconoscere il risorto e a dire a Pietro: «È il Signore» (v. 7).

 

«L’anonimato del discepolo amato è difficile da spiegare se dietro a lui si nasconde l’apostolo Giovanni» (così R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, parte 3ª, Paideia 1981, in particolare l’Excursus 18 Il discepolo che Gesù amava 623-642, p. 637). Se Giovanni il pescatore (!) fosse l’evangelista, «si potrebbe capire che questi non volesse parlare di sé», come ha ritenuto la tradizione per secoli; ma secondo i dati più assodati dell'esegesi storico-critica, Giovanni di Zebedeo, uno dei 12, non è neppure l'autore del quarto vangelo [sempre che abbia senso parlare di un autore unico-singolo per tale scritto tri-partito, pluristratificato, a più livelli, a cui hanno messo mano in tanti].

Quindi, dato che l’apostolo Giovanni non c’entra con la stesura del quarto vangelo [non è lui che scrive], «perché l’evangelista dovrebbe tacere il suo nome, che era abbastanza noto alle comunità cristiane delle origini?…Se si citano i figli di Zebedeo che nella comunità erano conosciuti per nome, perché mai il discepolo amato almeno qui non è stato presentato col nome di Giovanni?  Il principio di anonimato in certo qual modo sarebbe a metà infranto dal v. 2» (Schnackenburg 637). Detto in altre parole, perché il redattore avrebbe parzialmente rotto al v. 2 il silenzio che egli mantiene al v. 7 e in tutto il resto? L’argomentazione complessiva di Schnackenburg si basa tuttavia sul fatto che a suo parere il discepolo amato non sia l'evangelista. Facciamo il punto: il discepolo non è Giovanni, e non è Giovanni neppure l’evangelista [per cui onde capire con chiarezza ed evitare confusioni, d’ora in poi è meglio dimenticarsi completamente dell’apostolo Giovanni; l’aggettivo “giovanneo” servirà solo per indicare tradizionalmente il quarto vangelo e le comunità che da tale scuola provengono].

 

Ma è vero che il discepolo non è l’evangelista? La seconda conclusione aggiunta di 21,24 sembrerebbe insinuare il contrario: «Questo/i è il discepolo che [anche] rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera». Anche se il testo che possediamo è stato elaborato dalla redazione super-finale dei “noi” (chi scrive sono i “noi” che aprono col prologo [Il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi vedemmo la sua gloria…] e chiudono qui il quarto vangelo), un discepolo può ben aver scritto testi-fonti precedenti utilizzati dalla redazione. In linea teorica il discepolo amato può essere l’evangelista od un primo estensore di certe parti soprattutto della Passione: per cui potrebbe ritornare valido il motivo [sopra accennato] dell’autore che per modestia, compostezza e riservatezza non nomini se stesso; che per pudore o altro egli non voglia parlare di sé autocitandosi per nome [è lo stesso motivo attribuito tradizionalmente a Giovanni quando si riteneva che fosse sia l’evangelista che il discepolo amato].

 

La motivazione a nostro parere più forte contro l'identità fra discepolo amato ed evangelista, nella scia di O. Culmann è la seguente: un testimone oculare, che è vissuto nell'intimità con Gesù [in Giudea e non in Galilea] poteva, nel modo giovanneo caratteristico, «poursuivre la vie de Jesus dans celle de la communauté et embrasser d'un même regard l'Incarné et l'Elevé, dans la perspective johannique? Un témoin oculaire est-il susceptible de se distancer ainsi?» (O. Culmann, Le milieu johannique, Delachaux&Niestlé, Neuchatel-Paris 1976, p. 120); «…proseguire la vita di Gesù in quella della comunità ed abbracciare con uno stesso sguardo l’Incarnato e l’Elevato, nella prospettiva giovannea? Un testimone oculare è in grado di distanziarsi così?». Culmann ritiene una spiegazione insufficiente salvarsi dicendo che l'autore del vangelo ha scritto solo alla fine della sua [lunga] vita. E' vero che all’incirca in 70 anni (a partire dalla Passione) una persona colta e dotta come il discepolo amato, dell'alta aristocrazia sacerdotale e/o farisaica di Gerusalemme, può aver altamente elaborato il proprio pensiero; ma siamo portati ad escludere che un testimone oculare possa aver messo in bocca a Gesù ad es. tutti i discorsi di rivelazione dal capitolo 13,31 al 17, che Gesù non ha mai pronunciato [a mo' di battuta: per sapere quel che Gesù non ha detto, basta leggere il quarto vangelo]. Sono interpretazioni, per cui il Cristo giovanneo non è il Gesù storico tout court [è il punto più carente del primo libro di Benedetto XVI che, volendo parlare del Gesù della storia, fa un uso massiccio praticamente solo del quarto vangelo trascurando i sinottici].

 

Il discepolo prediletto non può quindi essere l'autore di tali discorsi (seconda parte del vangelo), e neppure della shmeia (semeia)-quelle (fonte dei segni), l'ossatura della  prima parte del vangelo, che si svolge in gran parte in Galilea. Il discepolo amato può benissimo invece aver scritto e delineato lo scheletro, la trama principale della storia della passione (terza parte del vangelo): la cronologia della Pasqua, come altri dettagli sparsi in tutto il vangelo da lui stesso tramandati, è infatti più precisa che nei sinottici, perfettamente compatibile con la presenza e testimonianza oculare del discepolo amato ed eventualmente pure del padre (colui che entra a mio parere nel cortile assieme a Pietro durante il processo perché conosce il sommo sacerdote).

 

Perché l’Innominato?

 

Se quindi il discepolo amato non è l'evangelista, perché tacere il suo nome? Probabilmente è uno dei due discepoli innominati all’inizio in 21,2: si usa la stessa espressione dell’ultima cena [cfr più sotto], ek twn maqhtwn autou, ek ton matheton autou: due dei suoi discepoli, due del gruppo, della cerchia dei suoi discepoli. 

E se il discepolo è così importante, perché non fa parte dei 12?

Ricordiamo che “discepolo” come “diacono” (il caso di Febe in Romani 16,1-2, tradotto in maniera tendenziosa nella nuova versione CEI come «colei che è al servizio della chiesa di Cencre», anche se nella nota a piè di pagina si precisa che era una “responsabile”) in greco è grammaticalmente di fatto solo maschile, come il nostro medico, ingegnere o architetto.

In greco maqhthV discepolo è in genere quasi sempre maschile; per la verità il femminile maqhtria (mathetria) esiste, ma poco usato nella grecità classica. Il dizionario Greco-italiano di L. Rocci fornisce due esempi: uno dello storico Diodoro siculo (vissuto nel primo secolo a.C), e poi dice genericamente, come fa sempre, NT. Ma nel Nuovo Testamento ricorre una volta sola in Atti 9,36 (la discepola Tabita); il che si capisce benissimo: stavano sempre più aumentando i credenti, uomini e donne, per cui, dato che non esisteva ancora la parola “cristiano/a”, il termine dovette essere declinato anche al femminile. Per di più è logico che lo usi il dotto e colto Luca. A dir il vero esiste anche la forma femminile mathetris (maqhtriV), usata ad es. da un altro dotto e colto, Filone di Alessandria.

 

Se dico quindi che vado dal medico, può essere benissimo una dottoressa senza bisogno di esplicitarla; se dico che voglio molto bene al mio medico, può ancora andare; ma se dico che amo (innamorato) il mio medico, è quanto mai opportuno che l’interlocutore-lettore ne conosca il genere…, altrimenti la cosa, se non scorretta, è sicuramente reticente. A volte quindi useremo il termine “persona” accanto o al posto di “discepolo” per rendere in italiano l’assonanza/riverbero del termine greco che si può riferire sia ad un uomo che ad una donna.

Le scene in cui compare tale discepolo sono cinque: 1ª Ultima cena (Gv 13,21-30), 2ª Sotto la croce (Gv 19,25-27), 3ª La corsa al sepolcro (Gv 20,1-10), 4ª La pesca miracolosa (Gv 21,1-14), 5ª La rettifica di Gv 21,20-23(24). La distinzione-separazione fra la quarta e la quinta scena è per pura nostra comodità, perché la sezione è unica nel suo scorrere, trattandosi fra l'altro dell'intero capitolo 21, opera dell'ultimissima redazione [che chiude il vangelo col “noi sappiamo” di 21,24; il seguente 21,25 manca in parecchi codici, tra cui gli autorevoli Sinaitico e Vaticano, e quindi lo si può considerare secondario, data anche la retorica altisonante sui libri che il mondo non potrebbe contenere. Oltretutto si passa repentinamente dal «noi» del v. 24 all’«io», prima persona singolare, del 25: non ricordo un altro “io penso”, come riflessione dell’autore narrante, nel NT].

 

Ma perché l’anonimato? Dov’è l’imbarazzo? [Dove c'è il fumo, lì c'è il fuoco!]

 

Ultima Cena (Gv 13,21-30): 1ª scena

 

«Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù» (vers. CEI); questa traduzione, giustamente per maggior scorrevolezza, anticipa la relativa «quello che Gesù amava» che di per sé si trova mal piazzata e congiunta col resto solo alla fine della frase. Ma essa risulta edulcorata e forse tendenziosa, perché il testo dice: «stava coricato a tavola nel grembo di Gesù, , «giaceva a mensa semi-disteso sul seno di Gesù, (quello) che Gesù amava». E subito dopo, quando Pietro gli chiede chi sarebbe il traditore, il testo prosegue  «Ed egli reclinandosi così [vecchia versione],  chinandosi sul petto di Gesù…» (ultima vers. CEI) che sembra dire: solamente adesso, perché prima era solo seduto al suo fianco, si reclina, si china sul petto di Gesù. Ma c’è un “così” importante [anche se omesso da qualche codice], eliminato nell'ultima versione CEI in modo sospetto; dato il participio aoristo aggettivato (anapeswn) possiamo perciò tradurre più correttamente: «Egli dunque, reclinato/coricato così [com’era, come stava, Schnackenburg 54] sul petto di Gesù…», cioè si tratta di una postura continua che non ha mai abbandonato. Essere sdraiati su un uomo, secondo i criteri della classica eterosessualità, e non per ragioni omofobiche, mi sembra l’atteggiamento inequivocabile di una donna…

Fra l'altro ana-piptw significa minacciosamente anche “dormire (con)”, “avere rapporti intimi”; infatti la maggioranza dei codici, per lenire l'imbarazzo, ha cambiato il prefisso ana, ana dell'aoristo 2 in epi, epi, quindi epi-peswn, ossia nel più neutrale, si fa per dire, “stare sopra”, epi-pipto, epi-piptw. 

 

Altrimenti bisogna considerare seriamente l’ipotesi omosessuale, ossia che Gesù (senza essere omosessuale) abbia accolto, accettato, non rifiutato l’amore di un omosessuale, o di un giovane discepolo nella fase omosessuale (per essere chiari, non si è trattato di una relazione gay): nel qual caso sarebbe stato meglio dire «il discepolo che amava Gesù (accusativo)». Potrebbe essere significativo per le discussioni odierne sulle omo-relazioni.

La cosa può essere lenita solo se si riesce a documentare che nella Palestina del primo secolo ci si sedeva a tavola secondo la modalità greco-romana: ossia reclinati sul fianco appoggiando il gomito sinistro sui triclini, lettucci, divani.

 

Certo non vale l'obiezione che, anche se avessero usato spesso tale postura, non l'avrebbero sicuramente usata nella cena pasquale ebraica (parzialmente ritualizzata, fortemente identitaria e poco incline ad assumere costumi “stranieri”), in quanto l'ultima cena di Gesù, secondo la più attendibile cronologia giovannea rispetto ai sinottici [probabilmente grazie, come già detto, alla testimonianza oculare del discepolo amato], è stata una cena di commiato ma non una cena pasquale [la Pasqua quell'anno è caduta di Sabato, per cui gli ebrei hanno consumato la cena pasquale al suo inizio, cioè per noi il Venerdì sera; quindi l'ultima cena di Gesù coi suoi, essendo avvenuta la sera del Giovedì, è stata un pasto “normale”].

Tuttavia nei pranzi festivi, nei pranzi solenni, in occasione di ricorrenze come la Pasqua, chi poteva, cioè chi aveva dei servi, forse mangiava secondo l'uso greco-romano, sdraiato su dei lettucci. Ma chi poteva mangiare così? Soltanto chi aveva dei servi che lo potevano servire, per cui il popolo palestinese del primo secolo non sedeva a mensa sui triclini. Certo la famiglia altolocata di Gerusalemme [da essa proviene secondo la maggioranza degli esegeti il discepolo amato, giovane d'età ma futuro “anziano”, presbitero nella funzione], dell’aristocrazia sacerdotale o laica, poteva forse averli (i triclini): qualche volta, o spesso, Gesù avrà pranzato pure lì in casa dei suoi grandi amici; ma non crediamo che Gesù abbia consumato la cena di commiato coi suoi discepoli alla maniera greco-romana. Tanto più che il boccone dato a Giuda, anche se non si tratta di erbe amare intrise di marmellata tipiche della cena pasquale, è quasi sicuramente del pane usato specificatamente come posata, nell’ambito appunto di un pasto giudaico (Schnackenburg 58, che cita Billerbeck IV, I, 621 e 623; ossia H. L. STRACK – P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch,  C. H. Beck, München 19654).

 

Anche Luca 22,21 «Ma ecco la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola», data appunto la mano sulla tavola, non sembra indicare una disposizione greco-romana, ma una posizione “normale” come le nostre. Oltretutto nella disposizione greco-romana i commensali erano uno di fianco o di fronte all’altro relativamente distanziati; se il discepolo è reclinato-coricato sul petto di Gesù alla maniera greca, gli è proprio immediatamente davanti, e quindi: 1) Volta la schiena a Gesù, o agli altri discepoli, a seconda di come è girato; 2) Quasi copre, toglie Gesù dalla visuale degli altri discepoli; 3) Come fa Gesù a mangiare? Sul fatto di girar la schiena ed annessi, cfr Hartwig Thyen, Das Johannes-evangelium, nell'Handbuch zum Neuen Testament 6, Mohr Siebeck, Tübingen 2005, p. 597.

 

D’accordo, ci siamo dilungati forse un po’ troppo sulla questione: ma essa era importante perché, se è così come abbiamo cercato di di-mostrare, la postura dell’amato/a nell’ultima cena si presenta come molto, molto intima: la persona era abbracciata a Gesù, o semidistesa con il capo sulle sue ginocchia, se non sul petto. Non ci si riferisce ad un generico discepolo prediletto che sedeva di fianco a Gesù, che sarebbe una cosa normalissima: anche noi preferiamo sedere a mensa di fianco o di fronte ai nostri amici più cari. Qui non si parla tranquillamente di un discepolo, di una “persona” (quindi eventualmente una donna) qualsiasi, bensì espressamente di quello che Gesù amava: non si tratta semplicemente di una vaga predilezione…, anche perché si usa agapaw, agapao (solo nella corsa al sepolcro, 3 scena, si usa jilew, fileo, l’amore di amicizia, di cui cercheremo di capire la ragione).

 

Sorprendente inoltre anche il giro di parole per presentare la prima volta il discepolo/a che Gesù amava: «uno della [ek] cerchia/gruppo dei discepoli…», che è come dire «uno del numero, della cerchia del personale dell’ospedale…», che può essere anche una donna (dottoressa), nel qual caso risulta non esplicitata, coperta, mascherata. Questa prima presentazione è pure importante perché, già secondo i primi critici letterari, la dipendente relativa «colui che Gesù [anche] amava», «on [kai] hgapa IhsouV», sembra male appiccicata alla fine, separata dal resto del periodo (diversamente dagli altri 4 casi o scene; così Schnackenburg 28, che poi a p. 54 lo traduce premettendo una parentesi: «...sul petto di Gesù, (precisamente quel discepolo) che Gesù amava».

 

Ciò può significare che originariamente non c’era (anzi è quasi sicuro); tanto l’essere semi-coricato in grembo a Gesù parla chiaro! Vi figurava solo il giro di parole largo, indefinito per il genere. A prima vista sembra molto strano che, essendo la prima volta che si parla di tale discepolo, non si precisi la relazione amorosa [una persona che Gesù amava]. La stranezza invece quasi scompare nella nostra ipotesi, che pure rende conto di quell’anche presente in alcuni codici, come il greco D e il Vercellensis [vetus latina: i passi di Gv contenuti in tale codice antichissimo del quarto secolo, anche se in latino, sono pur sempre una traduzione da un testo greco, ovviamente non susseguente e quindi altrettanto antico, che conteneva il kai]: l’inciso «…che Gesù [anche] amava» è stato aggiunto a mio parere non tanto per introdurre o sottolineare il rapporto privilegiato d’amore già chiaro nella postura squisitamente femminile [quell’anche si può rendere con proprio, realmente, effettivamente, veramente], bensì, sempre secondo la nostra prospettiva, per definire chiaramente al maschile [on, accusativo maschile aggiunto di brutto alla fine dopo la parola “Gesù” (a cui non si riferisce), il cui eventuale aggancio con l’iniziale espressione «uno della cerchia dei suoi discepoli» quasi si perde perché lontanissima] il discepolo in questione, cambiando decisamente le carte in tavola.

Ma come la mettiamo se si tratta di un uomo? Qui non si può spiritualizzare tirando ad es. in ballo il Sacro Cuore di Gesù.

 

Il giro di frase permette anche di dire implicitamente che non erano discepoli fissi (a tempo pieno) che seguivano e hanno sempre seguito Gesù fin dalla Galilea. Non sono discepoli-seguaci itineranti sempre con Gesù, ma discepoli stanziali, “residenziali” nella zona di Gerusalemme (o dintorni, Betania, Emmaus); essi entrano in gioco solo in Giudea quando Gesù è dalle parti della città santa, e in connessione con la Passione, in pratica solo nella seconda metà del vangelo. Questo spiega anche perché il discepolo amato non faccia parte dei 12.

 

Sotto la croce (Gv 19,25-27): 2ª scena

 

Ricordiamo che se si tratta di un uomo, nell’espressione ad es. “Simone di Giovanni” per Pietro, si tratta del patronimico. Anche in 21,2 si dice «quelli di Zebedeo», cioè i figli di Zebedeo (patronimico).

Invece nel caso delle donne, ad es. qui Maria di Cleofe (traduzione antica), significa “quella di..”, e può essere sì il padre, ma anche il marito, il fratello o il figlio; la nuova versione CEI infatti opta per «Maria madre di Cleofa», mentre noi conserviamo il più classico patronimico, ossia Maria figlia di Cleofa. 

«Erano tre che andavano sempre con il Signore: sua madre Maria, sua sorella, e la Maddalena, che è detta sua consorte. Infatti era “Maria” sua sorella, sua madre, e la sua consorte» (Vangelo di Filippo, sent. 32, ritr. a Nag Hammâdi nel 1945, chiesa copta del 2° secolo ad Alessandria d’Egitto, la stessa in cui il 1 Gen 2011 sono stati uccisi 21 nostri confratelli). Il Sitz im Leben [l’ambiente vitale, il vissuto in cui è nato un testo] del vangelo di Filippo (come pure del vangelo di Tommaso) è quello all’interno della cosiddetta “setta” dei copti Valentiniani.

 

Sotto la croce abbiamo una presentazione molto simile dei personaggi: la madre di Gesù, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa (in greco Klwpa, quindi sarebbe Clofa, o Clopa), e Maria Maddalena (non si dice che c’è anche il discepolo amato). È vero che Maria di Cleofe può essere considerata un’apposizione della sorella di sua madre, quindi considerare tale Maria come la zia di Gesù: in tal caso però le due sorelle porterebbero lo stesso nome, cosa altamente improbabile (Schnackenburg 447). Perciò la maggioranza degli studiosi tende a scartare quest'ipotesi, anche perché in alcuni codici c’è la “e” (kai) per distinguerle. Quindi i personaggi sotto la croce sono 4 (ma non 5, almeno nella presentazione iniziale). «Gesù allora vedendo la madre e lì accanto a lei la “persona” che egli amava…»: la nostra ipotesi è che non sia un nuovo personaggio ma uno di quelli già elencati. Fatto salvo l’amore per tutte le donne suddette, se c’è una relazione privilegiata che ovviamente esclude le prime due in quanto parenti, per quel che emergerà nel seguito dell’analisi, ci fa preferire non quella con la Maddalena bensì quella per Maria di Cleofa, a cui Gesù affida la madre (e viceversa, con l’ovvia variante «ecco tua figlia» nella versione originaria).

Il discepolo di Emmaus, in greco Kleopa, è tradotto con Cleopa: è irrilevante che la sub-occlusiva p sia o meno aspirata in f: ci sono differenze più o meno arbitrarie nel traslitterare. Tra le varie possibilità (Cleofe, Clofa, Clopa, Cleopa, ma anche “Alfeo” se si parte dal presunto termine ebraico con diversa resa della consonante iniziale), optiamo definitivamente per Cleofa, in quanto intermedio, una via di mezzo tra Cleofe (sotto la croce nelle vecchie traduzioni, per trasposizione secca ed errata del genitivo della vulgata), e Cleopa (Emmaus).

 

Che le donne siano 4 (e non 3) è testimoniato indirettamente anche dal maldestro trapasso, rilevato da quasi tutti i commentatori, del v. 24c: «E i soldati fecero proprio così». Esso risulta superfluo, anzi disturba la risonanza della citazione scritturistica precedente (Schnackenburg 446). L’unica motivazione attendibile, dato che i soldati sono implicitamente 4 [«I soldati poi…presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato» per poi tirare a sorte la tunica tutta d’un pezzo (v. 23s)], è che li si voglia far corrispondere, meglio contrapporre alle 4 donne. Il discepolo amato poi, senza essere stato presentato e introdotto nella lista degli astanti, compare, sbuca improvvisamente accanto alla madre (Thyen, Das Johannes-evangelium, op. cit. 738). Anche in 20,7 nella scena della pesca appare di brutto al v. 7 riconoscendo il risorto, ma è pur sempre stato presentato nella lista iniziale anche se implicitamente come uno dei due discepoli innominati (v. 2).

 

Qualche commentatore ritiene perciò che qui sotto la croce il discepolo amato, essendo assente nella fonte antecedente che conteneva la lista iniziale, sia stato introdotto dall’evangelista appositamente per il reciproco affidamento. Ma quale fonte antecedente, se tutto il passo è una creazione letteraria di chissà quale autore?

Infatti la presenza sotto la croce della madre è un'invenzione letteraria senza la benché minima validità storica; è impensabile che delle donne stiano sotto la croce (esecuzione capitale con le guardie), mentre appare storicamente attendibile l'antica tradizione sinottica che parla di donne (Marie) che guardano da lontano: ma in quegli elenchi non si parla mai della madre di Gesù. Se in quelle annotazioni sinottiche ci fosse stato il nome della Madonna, nessuno si sarebbe sognato di stralciarlo. Se quindi l'evangelista ha dovuto introdurre nella lista precedente la figura della Madre, finché c'era...poteva benissimo immettere anche quella del discepolo amato sin dalla prima frase.

Anche se dispiace, lo Stabat Mater dolorosa...non ha alcun fondamento storico. Se mai ce l’ha lo Stabat mulier (uxor) iuxta crucem lacrimosa…: il discepolo, meglio la discepola amata è compresa a mio parere nella lista iniziale come terza donna, anche se distanziata dalla croce.  

 

Pure il biblista Pius-Ramon Tragan, specialista del quarto vangelo, scrive: «Non sembra infatti plausibile che venisse consentita la presenza di familiari e amici nell’area destinata allo svolgimento di un’esecuzione capitale, data anche la brutalità che essa supponeva. Più credibilmente, i vangeli sinottici dicono che le donne e tutti gli altri assistevano alla crocifissione “da lontano” (Mc 15,40 e par.)», in GIOVANNI: “IL DISCEPOLO PREDILETTO”? Identità e teologia, articolo inedito di 15 pagine (p. 9).

Ma fra le donne che assistevano da lontano alla crocifissione c'era a mio parere Maria di Cleofa. Altra annotazione molto importante è che, in tutte le liste-elenchi di donne del NT, Maria Maddalena sia sempre nominata, e sempre come prima; qui sotto la croce non è una vera eccezione: che si inizi l’elenco dal nome dei parenti (madre e zia di Gesù) era una consuetudine a quei tempi. Sembra un elenco a due a due: due parenti (senza nome, perché?) più due amiche col nome + il patronimico o il luogo d’origine. L’unica vera, grande e significativa eccezione, se Maria di Cleofa non è parente di Gesù, è che il suo nome preceda quello della Maddalena, risultando quindi più importante di Maria di Magdala: chi, se non la donna amata da Gesù, può assurgere a tale importanza da scalzare la Maddalena dal primo posto? Ripetiamo, se Maria di Cleofa non è una parente [diretta o indiretta; cfr più sotto l'accoppiata Egesippo-Eusebio], il fatto che preceda la Maddalena è un dato fondamentale, quasi una prova della nostra ipotesi. 

 

E come potrebbe essere una parente? Come zia diretta del salvatore (la sorella di sua madre) è da escludere in quanto avremmo, come già detto, due sorelle con lo stesso nome “Maria”. Se poi prendiamo momentaneamente per buona la premessa fondamentale di Egesippo-Eusebio che Klopa-Cleofa sia il fratello di Giuseppe, marito della Madonna, e quindi zio di Gesù [un’ipotesi che ci fa sorridere], abbiamo 4 combinazioni a seconda della relazione di parentela di Maria con Cleofa: se ne è la moglie o la sorella (sorella quindi anche di Giuseppe), è zia di Cristo, rispettivamente acquisita e diretta; se ne è la figlia, è cugina di Gesù; se ne è la madre (come la nuova versione della CEI, in maniera a mio parere tendenziosa, «Maria, madre di Cleofa» [e quindi anche di Giuseppe!]), viene ad essere la nonna paterna di Gesù! E così sotto la croce avremmo rispettivamente tutta l’ascendenza femminile: la madre, la zia, e la nonna del Salvatore! Tutte meno la donna amata! Non c’è che dire, l’operazione di sbarramento e occultamento è perfetta.

 

In questa manovra di censura la Maddalena suo malgrado ha fatto da schermo, da velo al grande amore del salvatore. E’ abbastanza logico che certe tradizioni-dicerie popolari abbiano visto lei (con un nome chiaro e preciso, perfettamente identificata nel NT) come la donna del Signore. L’altra Maria è innominata e sfuggente…La tradizione ha bisogno di cose e persone concrete…; la tradizione ha sì fatto confusione coi nomi, identificando la Maddalena con la peccatrice di Luca 7, o, in maniera altrettanto errata, con Maria di Betania. Ma se si elimina il nome sbagliato (Maddalena), la sostanza potrebbe essere storica: si tratta dell’altra Maria, vuoi Maria di Betania, vuoi la donna di Lc 7, vuoi Maria di Cleofa; il popolo a volte ha molto fiuto. Secondo noi quindi il discepolo amato è qui la discepola Maria di Cleofa, a cui Gesù [nell'interpretazione del quarto vangelo] affida la madre (e viceversa). Oppure, all’autore è pervenuta già la correzione al maschile, con cui ha orchestrato il reciproco “affido” sotto la croce.

Data la serie dei fratelli (non cugini) di Gesù (Mc 6,3 e Mt 13,55), la vedova Maria non aveva bisogno di alcun sostegno dal di fuori della propria famiglia. Ma qui si son volute proprio riunire le rispettive famiglie, come è umano che lo siano in seguito all’incontro d’amore dei rispettivi figli, e non per necessità o bisogno delle vedove e degli orfani. Perché certe caratteristiche radicali dell’umanità, riconosciute universalmente, non dovrebbero valere anche per la famiglia di Gesù?

I numerosi e pregevoli studi teologici degli ultimi 50 anni non sono riusciti, loro malgrado, a demolire integralmente la visione sacrale che circonda il salvatore; uno degli scopi principali del presente studio è proprio quello di fa sparire, grazie agli affetti e sentimenti vivi di Gesù non tabuizzati, qualsiasi reminiscenza di alone sacrale attorno al nostro redentore e liberatore.

Non è detto che l’amore fra Gesù e Maria si sia espresso anche a livello genitale: può essere, ma non c’interessa più di tanto, e non è questo il Leit-motiv del nostro lavoro, che è invece quello di mostrare in tutto il loro ampio ventaglio gli affetti, i sentimenti e le  passioni del figlio dell’uomo.

Perché ciò che ci rende più umani, ossia l’amore amicale o sessualizzato, uno dei vertici dell’umanità pienamente integrata, non dovrebbe valere per il figlio di Dio? La sua figliolanza (divina) non deve togliere nulla alla sua tenerezza radicale, anzi la deve rafforzare perché biblicamente costituisce un'essenziale peculiarità di Dio. L’umanità di Dio è ciò che teologia dovrebbe finalmente imparare…

Perché il desiderio amoroso (l'eros con o senza genitalità) dovrebbe macchiare, rovinare, gettare un alone di sospetto su nostro Signore? In nome dell’umano, perché le dinamiche affettive e familiari, che ci sono così care, non dovrebbero valere per il Verbo incarnato?

Siamo così bravi nel celebrare l'amore di coppia, e il matrimonio come sacramento-simbolo (dell'amore) di Dio [cfr tutta la teologia sacramentaria], ma quando si tratta di Gesù e della sua famiglia (sua madre) un tabù sacrale ci blocca con una forza spaventosa e accecante. Proprio qui dove si può coniugare senza eccessivi problemi il “vere Homo” col “vere Deus” [il vero uomo col vero Dio] la sua umanità svanisce in una visione divinizzante monofisita, “eretica” perché va contro il Concilio di Calcedonia (451 d.C.). E' ancora vivo e vegeto quello che il compianto K. Rahner (1904-1984) deplorava come il docetismo monofisita (cioè vedere in Gesù solo la natura divina) serpeggiante ma ancora ben annidato nella spiritualità e nella coscienza non riflessa dei fedeli. 

A tale Cristo iper-divinizzato non si addice una relazione sessuale, e men che meno un'eventuale prole [il non-detto ma temuto, forse più inconsciamente che consciamente], che risulterebbe devastante per tutto l'impianto ecclesiastico-sacrale, anche perché la cosiddetta “successione apostolica” sarebbe gravemente minacciata da una successione “carnale” del Salvatore. D'accordo, quasi sicuramente Gesù non ha avuto figli; ma perché tale eventuale paternità, che rientra fra le esperienze più umane e umanizzanti (da “vere homo”), non dovrebbe essere accolta e salutata con gioia, anziché costituire un incubo per le chiese?   

 

Digressione sulla madre di Gesù

 

Non è forse un caso che il quarto Vangelo chiami la Madonna sempre e solo «la madre di Gesù», o «sua madre» e mai «Maria»; probabilmente nella nostra ipotesi per non ingenerare confusione tra le due Marie, e più in generale per tener distinta, staccata la madre dalle troppe Marie… Ma l’atto d’amore di Gesù, nella visione giovannea, le riguarda entrambe, unendo quelle che sarebbero potute diventare, rispettivamente fra loro, suocera e nuora: il che, come già detto, è la cosa più normale e tenera di questo mondo, partendo dal presupposto che Gesù non fosse sposato. Della madre (e della zia) di Gesù non si fa quindi il nome: ma anche dato e non concesso che Maria di Cleofa sia un'apposizione della zia di Gesù, di due donne su tre avremmo il nome “Maria”. Perché non scrivere che Maria è anche il nome della prima, cioè della madre (come nella suddetta citazione del vangelo di Filippo)? Come mai, se gli autori e i lettori del quarto vangelo ne erano a conoscenza? Certo ignoravano la nascita a Betlemme (Gv 7,41-42.52), come tutto il Nuovo Testamento al di fuori dei vangeli dell’infanzia, ossia i primi due capitoli di Matteo e Luca (neppure Matteo e Luca, a partire dal capitolo 3, cioè per il resto del loro Vangelo, conoscono i vangeli dell’infanzia!). In Gv 7 ha luogo una feroce polemica riguardante il fatto che Gesù non sia il Messia, perché non è nato a Betlemme e per di più proviene da Nazareth (da cui non può venire niente di buono..); se gli autori del quarto vangelo lo avessero saputo, l’avrebbero sicuramente inserito nel testo come difesa dalle pesanti accuse [non è per nulla, data la rovente controversia, il classico argomentum e silentio, in genere scivoloso; se l’avessero saputo, l’avrebbero detto poiché erano ai ferri corti]. Più in generale gli autori/lettori del quarto vangelo non conoscono neppure gli ultra-tardivi racconti dell’infanzia presenti solo nel Matteo finale, e quindi neppure la verginità di Maria [a meno che non si scelga la lettura al singolare, come in alcuni codici, del prologo 1,12s: «...a quanti credono nel suo nome, il quale non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio è stato generato», interpretandolo in senso verginale]. Questo perché, secondo l’ipotesi di Boismard ed altri, il quarto vangelo conosce il cosiddetto Matteo intermedio, appunto privo dei racconti dell’infanzia. Ma in tale vangelo intermedio, da essi conosciuto, l’arcaico 13,55 («Sua madre si chiama Maria») c’era già eccome! È vero che, sempre escludendo i vangeli dell’infanzia, il nome “Maria” si trova solo nel suddetto Mt 13,55 e nel corrispettivo di Mc 6,3 (solo due volte al di fuori dell’infanzia, se non mi è sfuggito qualcosa). Ma ormai, nel momento della redazione del quarto vangelo (inizi del secondo secolo), tali racconti “natalizi” cominciavano già a circolare: perché allora non dire il nome della madre del “Verbo incarnato”? La sorpresa non è tanto qui sotto la croce, dove non poteva dire semplicemente “Maria”, ma avrebbe dovuto aggiungere comunque “la madre di Gesù”. La sorpresa è in Gv 2 (nozze di Cana, il primo dei segni della quelle-fonte) ove si dice per ben 4 volte “la madre di Gesù” (tre all'inizio ed una alla fine) senza mai premettere, pur non essendoci altre Marie in gioco, il nome “Maria).

 

Il sospetto (in accordo sostanziale con le tradizioni popolari) cade comunque su una Maria, amata da Gesù, il cui ricordo bisogna disperdere quanto prima per il subentrato imbarazzo: se circolava originariamente il discepolo Maria, che Gesù amava, e se aleggiava ancora la (discepola) Maria che a sua volta aveva riamato Gesù, bisognava censurare questo ricordo del Nazareno.

 

La voce che non sarebbe morto (4ª e 5ª scena; o, se si preferisce, lo scenario unico del capitolo 21, in cui il discepolo amato compare due volte)

 

Abbiamo già parlato all'inizio di Gv 21,1-14 (4ª scena), la pesca miracolosa; trattandosi di pesca il discepolo amato è chiaramente un uomo, che riconosce il risorto; è quasi sicuramente uno dei due discepoli innominati all’inizio (così anche Schnackenburg 637): e l’altro non potrebbe essere il padre Cleofa? E i due discepoli di Emmaus non potrebbero chiamarsi entrambi Cleofa? Essere cioè padre e figlio? Gli stessi della pesca?

In Gv 21,15-23 (5ª scena), dopo la triplice domanda a Pietro («mi ami tu..», che riflette un’amicizia non lineare, con tensioni varie), ricompare il discepolo, al cui proposito la redazione deve introdurre una rettifica circa la voce che non sarebbe morto [nel senso di essere assunto in cielo nella parusia imminente come scrive Paolo in 1 Tess 4,15; addirittura in 1 Cor 15,51 dice: «Non tutti, certo, moriremo»; cioè chi vivrà a lungo, all’arrivo della Parusia non morirà per poi risorgere subito dopo, bensì sarà solo trasformato], poiché al momento della redazione finale (agli inizi del secondo secolo) egli è chiaramente già morto. Si precisa che Gesù ha sì detto: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?», con un finale non proprio carino, anzi chiaramente aggressivo, che testimonia ancora una volta un rapporto conflittuale, soprattutto nei confronti del Pietro-Satana, cioè colui che pensa secondo gli uomini ma non secondo Dio (Mc 8,32s e par.).

[Come ci ha insegnato J. Dupont, nel passo celeberrimo di Mt 16, dato che si tratta dello stesso contesto e della stessa scena, il «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa» e l’immediatamente successivo «Lungi da me, Satana!» hanno lo stesso peso, la medesima valenza, la stessa forza. Se quindi “carico” al massimo il «Tu sei Pietro…» come ha fatto la tradizione sul primato, devo fare altrettanto con Pietro-Satana, il che risulterebbe micidiale. Pietro, volendo anche estendere la cosa ai Papi, può essere contemporaneamente “roccia” e “satana”, con gli stessi livelli più o meno grandi…, o meglio forse in modo inversamente proporzionale ma con la medesima gradazione: nella misura in cui cresce la prima, si abbassa la seconda, e viceversa].

 

Gesù tuttavia non ha inteso dire che non sarebbe morto, ma...una cosa diversa, qualunque significato possa avere tale espressione; normalmente viene interpretata come una presenza spirituale imperitura nelle comunità giovannee. Quasi sempre infatti il discepolo amato è in connessione con Pietro [la mia prima sensazione, errata, è che potesse trattarsi di un figlio di Pietro, ma è da scartare anche perché non avrebbe dato adito ad alcun imbarazzo], di cui viene riconosciuta l'autorità, come anche qui: per le comunità è secondo solo a Pietro. Anche nella corsa eventualmente “teologica” al sepolcro (v. più sotto), il discepolo arriva prima (è più avanzato nelle aperture e nelle innovazioni) ma poi aspetta Pietro (ne accetta l'autorità e l'eventuale approvazione).

 

A mio parere il discepolo amato è probabilmente Simone di Klopa (Cleofa): se seguiamo l'indicazione di Eusebio di Cesarea [vescovo vissuto a cavallo fra il terzo e quarto secolo, primo grande storico della chiesa, che difese e reintegrò Ario], sarebbe quello che succedette a Giacomo, il fratello del Signore martirizzato nel 62 d.C., alla guida della comunità di Gerusalemme. Eusebio, citando Egesippo, scrive che dopo il martirio di Giacomo appunto Simone ne prese il posto in quanto, come dicono, cugino (aneyioV) del Signore. Eusebio col “come dicono” (usa jhmi, e non legw) si cautela, in quanto non è troppo convinto di questa parentela. Qui c’è una gran confusione fra Simone, fratello di Gesù (Mc 6,3 e Mt 13,55), e Simone cugino del Signore; il discepolo amato non può essere tuttavia il fratello di Gesù, altrimenti il reciproco “affido” sotto la croce ribadirebbe solo un legame natural-parentale già esistente. Quanto al cugino, potrebbe esserlo in linea puramente teorica addirittura per una possibile doppia via: in quanto figlio di Klopa, che sarebbe il fratello di Giuseppe (marito della Madonna; così Egesippo, citato da Eusebio, St. Eccl. 3,11,2 e 4,22,4, come già preannunciato sopra); oppure da parte di madre: se interpretiamo il Maria di Klopa sotto la croce come apposizione della sorella di sua madre (ma non è il nostro assunto), e Klopa/Cleofa come marito, abbiamo appunto la coppia Maria (zia diretta) e Klopa (zio acquisito) come zii del salvatore. Essi hanno avuto un figlio, appunto Simone, cugino di Gesù, che però a nostro parere non può essere il discepolo che Gesù amava; infatti se Gesù avesse tenuto quasi in braccio nell’ultima cena il cugino/cuginetto (più giovane), e se era presente sotto la croce assieme alla madre, perché tacerne il nome? Vale sempre la nostra contro-obiezione di fondo: dove sarebbe l’imbarazzo di amare un cugino? Anzi proprio l’affetto per un cugino o un nipote sgombrerebbe definitivamente il campo da qualsiasi sospetto-insinuazione di omosessualità. Dunque perché l’anonimato? Sarebbe stato invece imbarazzante un figlio grandicello di Gesù; questa è stata ad es. la prima sensazione di una mia alunna al liceo, ma riteniamo di poter escludere tale eventualità.

 

Se s’identifica Simone di Cleofa/Klopa come cugino del Signore, è chiaro che automaticamente, come già detto sopra, il padre Klopa diventa lo zio del Signore, come scrive appunto Eusebio: «Simone, il figlio dello zio del Signore, Klopa, fu nominato “vescovo” successore (di Giacomo)»: Eusebio riflette la visione ecclesiologica del suo tempo arretrandola in maniera anacronistica, perché nel 62 d.C. non esisteva ancora l’episcopato monarchico; il gruppo dirigente era un collegio di presbiteri (anziani), o di episcopi (sorveglianti, responsabili), tutt’al più con un capo carismatico, ma come primus inter pares.

 

Alla tradizione ha fatto quindi comodo trasformarlo in cugino o nipote per sottrarsi a qualsiasi tipo di imbarazzo. La nostra ipotesi è quindi la seguente: Simone, figlio di Cleofa, non avrebbe nessun rapporto di parentela col Salvatore, ma sarebbe il discepolo che Gesù amava, poi presbitero e capo della chiesa di Gerusalemme, con una lunga vita almeno sino all’epoca di Traiano (in cui è stato denunciato), tanto da suscitare la diceria che non sarebbe morto dato l’imminente arrivo della Parusia, con la suddetta rettifica della redazione.

 

Pius-Ramon Tragan, maestro di tanti di noi, nel suddetto studio ritiene invece che il discepolo amato, sulla base della testimonianza di Papia di Geràpoli [prima metà del II secoli in Frigia], sia Giovanni l’anziano, il presbitero (personaggio diverso dall’apostolo), figura di spicco della chiese giovannee che facevano perno su Efeso. Concordiamo senza alcun dubbio «sull’origine gerosolimitana di questo discepolo, il suo livello sociale elevato, le sue conoscenze topografiche della città, la sua competenza in ambito cultico e la sua familiarità con il pensiero giudaico (ivi, op. cit., p. 8)».

«Il discepolo Giovanni, chiamato più tardi il presbitero, sarebbe nato in Giudea e avrebbe fatto parte di un ambiente socialmente elevato. Dopo la morte e risurrezione del Signore, sarebbe stato lui a dare vita a un originale filone interpretativo della vita e dell’opera di Cristo. Dall’area palestinese egli si sarebbe trasferito in Asia Minore, ad Efeso, dove avrebbe fondato un movimento di evangelizzazione e sarebbe poi stato per molti anni il capo della cosiddetta scuola giovannea» (Tragan, art. cit., p. 14-15, in sede di conclusione).

 

Ci siamo tuttavia permessi di provare ad aprire una nuova via (come una variante più diretta e scoscesa nell’alpinismo), individuando il discepolo amato nel nostro Simone. Al di là del nome abbiamo comunque un presbitero (Simone o Giovanni) che, oltre a gravitare inizialmente su Gerusalemme, costituiva un punto di riferimento, una figura di spicco per le comunità giovannee, alla pari o secondo solo a Pietro, col quale è sempre in connessione (con l’ovvia eccezione sotto la croce, dato il rinnegamento e l’abbandono di Pietro come degli altri discepoli).

 

Leggera concorrenza fra il discepolo e Pietro; tensioni fra Pietro e Gesù

 

C'è forse una leggerissima competizione; diciamo che il discepolo, senza opporsi a Pietro, seguirà tuttavia il proprio cammino, lasciando Gerusalemme e guidando in maniera carismatica la comunità di Efeso e le altre limitrofe in Asia Minore.

Sono gli amori di Gesù verso degli uomini (maschi): più combattuto e teso quello con Pietro, più lineare quello con l’innominato. Ma dov’è anche qui l’imbarazzo? La relazione sarebbe imbarazzante solo nel caso di omosessualità di Simone; altrimenti il nome è stato forse taciuto per tenere coperta, per schermare la relazione imbarazzante di Gesù con Maria, la sorella di Simone, entrambi figli di Cleofa nella nostra ipotesi.

Pensiamo ad un’amata famiglia altolocata (dell’aristocrazia sacerdotale, sadducea oppure farisaica di Gerusalemme o dintorni): c’è un discepolo che introduce Pietro durante la Passione nel cortile del sommo sacerdote perché da lui conosciuto, forse Cleofa/Cleopa (quello di Emmaus?), il padre di Simone e Maria nel nostro assunto. Parecchi autori pensano si tratti del discepolo amato medesimo che introduce Pietro: ma allora perché il testo non lo dice? Nominarlo per la 6ª volta, oltre alle altre 5, che differenza avrebbe fatto?!

L'autorevole codice Vaticano aggiunge un “anche” in 21,24: «Questi è il discepolo che anche rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti»; quell'anche-pure [lui] potrebbe alludere al fatto  che il testimone-scrittore degli eventi pasquali non è forse uno solo, ma almeno due (appunto figlio e padre), per non dire tutta la famiglia.

 

Tornando al suo stato aristocratico, non per nulla il discepolo amato molto probabilmente sarà poi un presbitero della chiesa di Gerusalemme. Gesù ha conosciuto a Gerusalemme (o dintorni) ed amato questa famiglia, dove forse pure risiedeva quando si trovava nella città santa. Nella comunità gerosolimitana, dopo che tale presbitero nel 62 d.C. prese il posto di Giacomo il fratello del Signore, le cose non devono essere andate troppo bene, sia per l’avversità del giudaismo, sia per la guerra giudaica (66-70) con relativa distruzione del tempio; per cui è molto attendibile il “trasferimento” a Efeso di questo discepolo dalla lunga vita e personaggio chiave delle chiese giovannee.

 

A dir il vero in Gv 21,20-23 la rettifica-precisazione è doppia: è già la quinta volta che si parla del discepolo amato, ma si ritiene di dover inserire una lunga chiarificazione redazionale: è «colui che anche nella cena era reclinato sul suo petto e gli aveva detto: “Signore, chi è che ti tradisce”?». Questa inserzione obbliga poi a riprendere con un periodo durissimo: «Costui (compl. oggetto) avendo visto Pietro (sogg), + (in qualche codice) che seguiva (riferito a “Costui”)…». Innanzitutto sorprende qui il richiamo alla scena avvenuta durante il banchetto. Se la redazione avesse voluto semplicemente ri-presentare quel discepolo, avrebbe dovuto farlo in 21,7 all'inizio in occasione della pesca (così Schnackenburg 611, n. 80): ricordiamo che siamo stati noi per comodità a dividere il cap. 21 in due scene, ma lo scenario (sezione) è unico.

Per questo Bultmann considera tutto quel richiamo al passato un'interpolazione secondaria, con la successiva suddetta durissima ripresa. Per noi è chiaro il senso di tale interpolazione e la questione che si vuol dirimere: oltre ad aver già ignorato l’apparizione a Maria (cfr più sotto 21,14 che ricorda solo tre apparizioni collettive del risorto), c’è un unico discepolo-maschio che Gesù amava, a partire dall’ultima cena, dalla lunga vita anche se al tempo della redazione è già morto: molto importante per le comunità giovannee, la cui autorità e ascendenza è quasi alla pari con quella di Pietro. Ma non è necessariamente (sempre) una contrapposizione-concorrenza: nelle comunità giovannee a Efeso e dintorni abbiamo la posizione privilegiata del discepolo, che però non sminuisce quella di Pietro. Nella triplice domanda a Pietro Gesù dice sempre «Simone di Giovanni” [le prime due volte usa agapaw, agapao; la terza jilew, fileo, forse per adattarsi a Pietro che ha sempre risposto con fileo]. Può essere solo un modo per conferire più solennità alla cosa, ma il patronimico (Simone di Giovanni) potrebbe essersi reso necessario per distinguerlo dal Simone di Cleofa che originariamente seguiva…

 

Per dirla tutta, in 6,70 affiora una mezza polemica più o meno velata, in cui Gesù, rispondendo a Simon Pietro, esclama: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo» [Giuda? Cfr più sotto per la mancata istituzione]. Da notare che anche Pietro nei sinottici, come già detto sopra, viene chiamato Satana (vade retro Satana), che però allora aveva un significato molto diverso dal “diavolo” [a quel tempo Satana, il diavolo e i demoni non erano per nulla sinonimi]. Notiamo una certa tensione sibillina, una stoccatina nei confronti dei 12 e del loro (presunto) capo. Altro fatto sintomatico è che il quarto vangelo chiami il capo dei dodici (dei 12 apostoli secondo Luca e la tradizione cattolica) sempre col raddoppio del nome “Simon Pietro”, fin dall’inizio già in 1,40, con molta fretta, ancor prima che Gesù gli dia il nome di Cefa...(due versetti dopo in 1,42). L’unica omissione è 13,37, ma il doppio nome l’ha appena messo nel versetto immediatamente precedente (36).

Per quale motivo un personaggio, in leggera concorrenza col discepolo amato (anche se le comunità giovannee di Efeso e dintorni ne riconoscono l'autorità), dovrebbe avere sempre il nome raddoppiato (Simon Pietro)? Perché sottolineare in continuazione l’aspetto e la “preminenza” petrina tutto-sommato un po' indigesta per la scuola giovannea? Forse è stato necessario per distinguere i due Simone: Simone di Giovanni (Pietro/Cefa) dal discepolo amato Simone di Cleofa, alias Simone il lebbroso (ovviamente guarito), alias Simone l'ex fariseo, e forse anche Simone-Lazzaro. Fra l'altro quando si parla del discepolo amato, i due Simone sono sempre (unica eccezione sotto la croce) in correlazione! 

 

La prima domanda di Gesù a Pietro suona: «Mi ami tu più di costoro?», con l'ultima parte eliminata in qualche codice. Il fatto che qui si voglia rimediare al triplice rinnegamento va bene [il rinnegamento, per il criterio d’imbarazzo, è sicuramente storico, mentre non è storica la sua predizione da parte di Gesù], ma c'è comunque un’atmosfera strana: se si riferisce alla scena precedente, perché Pietro dovrebbe amare Gesù più degli altri? Infatti, supposto che si possa stabilire un più o un meno nell'amore, Pietro non l'ha certamente amato più degli altri (e più del discepolo amato), anche perché ci sono state delle tensioni tra Gesù e Cefa: è forse lui il diavolo di 6,70? Che la redazione precisi subito dopo che si tratta di Giuda, è la classica excusatio non petita: non era quindi così chiaro che fosse Giuda. Se aleggiava il diavolo “Pietro” [il fatto che subito prima ci sia stata la professione di fede di Simone («Tu solo hai parole di vita eterna») non vuol dire nulla, perché anche in Mc e Mt Pietro viene chiamato “Satana” immediatamente dopo tale professione], il tutto è stato trasferito sull’Iscariota; la tradizione giovannea-efesina ha fatto un favore a Pietro…

Se invece si riferisce a quel che segue, perché Pietro dovrebbe amare Gesù più di costui (il discepolo amato che seguiva)? Ovviamente non l'ha amato di più, ma riaffiora ancora una certa concorrenza fra i due Simone: uno avrà la vita breve, l'altro una vita lunghissima…, nonché un ulteriore accenno di nervosismo fra Gesù e Pietro contenuto, come già detto, in quello “stizzato” «che importa a te!»; non è un caso che il Sinaitico e altri testimoni l’abbiano omesso nella ripetizione (21,23) in seguito alla rettifica. Il primato di Pietro non è poi così scontato: sembra quasi che se lo debba guadagnare in competizione col discepolo amato...

 

Molti commentatori si soffermano sui primi discepoli all'inizio del vangelo (1,35-42ss): dopo che Giovanni Battista, vedendo passare Gesù, lo definisce «l'agnello di Dio», due discepoli del Battista lo lasciano per seguire appunto Gesù. Poco dopo si dice che uno dei due era Andrea, fratello di Simon Pietro; è forse possibile che l'altro discepolo anonimo sia poi quello che Gesù amerà: Tragan non lo ritiene attendibile. Tuttavia essere (ex) discepoli del battista significa in effetti un radicamento in quel giudaismo marginale (Meier ha intitolato Un ebreo marginale la sua monumentale opera in 4 volumi sul Gesù storico; forse si aggiungerà un quinto volume) che ben si confà al quadro del discepolo amato (oltre che alla figura di Gesù); un membro dell'aristocrazia, forse laica, di Gerusalemme, un israelita tipo Nicodemo [che lo difende in Gv 7 nella riunione-seduta (del Sinedrio?)] e/o Giuseppe d'Arimatea: anche se non è lui il discepolo amato, quando cerco di immaginarmi tale discepolo lo penso come Giuseppe, che si prende cura con affetto [osando chiederla a Pilato] della salma di Gesù e la depone nella tomba di sua proprietà. Nicodemo e Giuseppe testimoniano la vasta gamma delle amicizie di Gesù.

 

Maria di Betania e la donna di Luca 7

 

Anticipando il discorso su Gv 11, la resurrezione di Lazzaro, non è forse un caso che molti Giudei gerosolimitani siano venuti a Betania, distante 15 stadi (circa 3 km), per consolare le due sorelle (1ª volta in 11,18), addirittura venuti semplicemente da Maria (3ª volta in 11,45; Marta sembra non esistere). In 11,31.33 (2ª volta) i Giudei sono in casa con la sola Maria, e la seguono quando essa si alza in fretta per uscire; poi piangono con lei, tanto da suscitare la commozione e il pianto di Gesù.

Per quale motivo tanti Giudei si dovrebbero scomodare se non per una famiglia di alto rango, gravitante intorno all’aristocrazia della città santa? E Maria di Betania (o di Emmaus), alias Maria di Cleofa, come il fratello Lazzaro-Simone (ex) lebbroso e/o fariseo, non potrebbero essere i due discepoli amati da noi ipotizzati? Addirittura in 11,49-53 abbiamo un Caifa cristianizzato e profeta!! Ben di più dei due di Emmaus che parlano ancora dei «nostri capi» [cioè sommi sacerdoti, scribi, sadducei, che hanno crocifisso il maestro!]. «Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (51-52). La polemica col giudaismo gerosolimitano qui è quasi annullata! Nel suo commento l’evangelista-redattore esprime la sua convinzione che il sommo sacerdote (in quanto sommo sacerdote!), senza volerlo e senza saperlo (Schnackenburg, 2ª parte, 595), pronunci una profezia: che Gesù doveva morire per il popolo e non solo per esso (popolo ebraico), ma per riunire insieme i figli di Dio dispersi (giudei e pagani), con un timbro eminentemente ecclesiale (Schnackenburg, ivi, 2ª parte, 597). Non le tribù o i figli d’Israele sono raccolti dalla dispersione, bensì i figli di Dio! (Schnackenburg, ivi, 2ª parte, 596s).

Solo il nostro Simone, personaggio di spicco dell’aristocrazia gerosolimitana e poi presbitero carismatico nelle comunità giovannee dell’Asia Minore, o Giovanni l’anziano, cioè presbitero (citato da Papia, e secondo Pius-Ramon Tragan molto probabilmente il discepolo amato), possono essere all’origine di una tradizione che osa in maniera strabiliante mettere in bocca al sommo sacerdote Caifa la teologia giovannea!

Naturalmente, d'accordo con Tragan, senza però pretendere di precisare la sua identità fino a ritenerlo di stirpe sacerdotale (ivi, p. 9), o addirittura un ex sommo sacerdote. Non è detto che sia lui l'autore del testo super-rielaborato su Caifa che noi possediamo; ma dati tutti quelli che hanno messo mano alla formazione ed alla stesura del quarto vangelo, e la pluristratificazione dei livelli, la domanda chi sia l’autore (!?) di tale vangelo o di una singola pericope è meglio lasciarla perdere, anzi è quasi priva di senso.

 

Nel numero 376 del foglio abbiamo già trattato il racconto della peccatrice di Lc 7,36-50, in cui la donna bagna di lacrime, asciuga coi capelli, bacia e cosparge di olio profumato i piedi di Gesù. Il padrone di casa, Simone il fariseo, viene garbatamente rimproverato di non aver fatto quasi altrettanto: cioè di non aver dato l'acqua per i piedi, di non averlo baciato e di non avergli cosparso il capo (non i piedi come la donna) di olio profumato. Se la donna ha amato molto (Gesù) anche col suo gesto, sembra quasi che Gesù si aspettasse qualcosa di simile da Simone, ossia dei gesti di amore: da colui che forse diventerà il discepolo amato (e viceversa), sganciandosi dal fariseismo. Era sì usanza a quei tempi che il padrone di casa fornisse all’ospite, prima del pasto, dell’olio per l’unzione, oppure fargli ungere i piedi da uno schiavo: ma era naturale e necessario lavarsi i piedi dopo un viaggio, mentre non è per nulla dimostrato che si trattasse di un’usanza ovvia in occasione di un invito a banchetto. L’uso poi di salutare con un bacio un ospite invitato non è testimoniato dagli esempi addotti da Billerbeck I, 595s; anzi questi passi la rendono piuttosto improbabile: così H. Schürmann, Vangelo di Luca (prima parte), Paideia 1983, p. 695, note 31 e 32.

 

Quanto alla donna, il suo grande amore nei confronti di Gesù si limita ed è circoscritto ad un unico evento di unzione-baci seppur nobile e delizioso? Schürmann scrive testualmente (ivi, p. 689): «Non si dice perché, come e dove questa donna sia diventata capace di quest’amore sovrabbondante, pieno di riconoscenza. E’ chiaro soltanto che deve il perdono dei suoi “molti peccati” ad un precedente incontro con Gesù». Traspare perciò dalla tradizione lucana un grande amore che va al di là di quell’unico gesto! Si è forse trattato di una relazione, se non proprio con una vera ex-prostituta, con una donna dal passato non proprio cristallino? Già a partire da Gregorio Magno la Maddalena viene confusa con la peccatrice di Lc 7 (senza ovviamente pensarla come la sua donna); poi la tradizione popolare ha identificato la Maddalena, in quanto donna di Gesù, con la donna di Luca 7, sbagliato nel nome ma non forse nella sostanza. Non è la Maddalena, liberata da 7 demoni (nevrotica e isterica fin che vogliamo, ma non prostituta), ma un'altra donna (Maria di Betania o di Cleofa, o con qualunque altro nome) quella amata da Gesù, con un passato forse non proprio esemplare. In che senso la donna ha amato molto? E chi se non Gesù? Se è così, risulta un’altra marcata giustificazione del nostro impianto.

In tal caso si spiegherebbe ancor meglio perché quest'amore femminile non proprio edificante di Gesù sia stato seccamente censurato e cancellato, spostando tutto l’asse sul fratello: infatti è rimasto, seppur anonimo, quello col discepolo maschio, tutto sommato meno compromettente; anche se, qualora si fosse trattato di un sacerdote od ancor peggio di un ex-sommo sacerdote del vecchio tempio, oppure un figlio di (ex-sommi) sacerdoti, sarebbe stato per altri versi pur imbarazzante.

 

Corsa post-pasquale: 3ª scena

 

Abbiamo lasciato per ultima la terza scena perché più complessa. Nei racconti post-pasquali c’è pure un’altra significativa reticenza: già Matteo 28,1 scrive che Maria Maddalena e l’altra Maria si recarono al sepolcro: dato che tantissime donne a quell’epoca si chiamavano Maria, non aggiungere altro è come dire l’innominata [dove c'è il fumo, lì c'è il fuoco; la stessa espressione «Maria Maddalena e l’altra Maria» si trova in 27,61, quando guardano da lontano il luogo del sepolcro]. Tanto che altri autori cercano di darle i nomi più svariati: in Mc 15,47 stavano ad osservare l’entrata del sepolcro dove Giuseppe d’Arimatea depose il corpo di Gesù, Maria Maddalena e Maria di Ioses; in Mc 16,1 vanno al sepolcro Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salome; in Lc 24,10, ma dopo che sono tornate dal sepolcro, le donne del racconto precedente sono identificate come Maria Maddalena, Giovanna [moglie di un funzionario di Erode, anch’essa non di basso rango] e Maria di Giacomo. Son tutti tentativi di colmare il vuoto di un anonimato, con la Maddalena sempre al primo posto! Il fatto che qui l’altra Maria (per noi la discepola amata) non possa essere piazzata prima della Maddalena [come sotto la croce avviene invece per Maria di Cleofa] è evidente: data l'assoluta genericità del nome, non si può scrivere in maniera posposta: «l'altra Maria e Maria Maddalena». 

 

Ma veniamo a Gv 20,1-18: secondo Schnackenburg (496-498) c’è una fonte originaria rielaborata dal redattore/evangelista. Condividiamo la fonte antecedente, ma non la successione individuata da Schnackenburg. Secondo lui originariamente sono Pietro e Maria Maddalena a correre al sepolcro; poi nel v. 10 è solo un discepolo (Pietro) che torna a casa, in modo che la Maddalena rimane da sola al sepolcro e così avviene solo per lei l’apparizione di Gesù risorto. La redazione successiva, per inserire il discepolo amato, l’avrebbe appunto messo nella corsa assieme a Pietro, arretrando al v.1 una prima andata solitaria della Maddalena alla tomba.

Prima di dire la nostra opinione riassumiamo brevemente le disarmonie del racconto, ben descritte da Schackenburg 494-495: al v. 1 la Maddalena vien/va/si reca al sepolcro da sola, ma poi riferisce: « …hanno portato via il Signore, ma non sappiamo dove l'hanno posto». A parte il fatto di non aver ancora la più pallida idea della resurrezione (il che manifesta l'antichità del testo/fonte), è anomalo quel plurale non sappiamo, essendo una sola persona. Inoltre al v. 9, dopo aver detto che il discepolo vide e credette ((in alcuni codici videro e credettero, compreso quindi anche Pietro) si dice: «Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che doveva risuscitare dai morti» (una palese contraddizione).

 

Secondo noi invece nella fonte, pensando alla schermatura di Matteo, sono la Maddalena e l’altra Maria (la discepola amata) che vanno per prime al sepolcro; da cui il “non sappiamo” dove l’abbiano portato, e il v. 9 che andrebbe qui: «infatti non avevano compreso..». Esse vanno poi ad avvisare Pietro e l’altro discepolo amato (jilew, fileo), probabilmente nella casa di Simone e Maria di Cleofa, dove i discepoli (Pietro e le donne) probabilmente saranno stati ospiti dopo la morte di Gesù. Quasi sicuramente risiedono a Gerusalemme o dintorni; se la corsa al e dal sepolcro, oltre che teologica, è anche storica, potrebbe essere sì essere avvenuta a Gerusalemme, ma potrebbe anche essere partita da Betania, o addirittura con una semi-maratona di 30 km da Emmaus [(cento)sessanta stadi; ma in alcuni codici, tra cui il Sinaitico, manca la parola “cento”: sarebbero quindi “solo” 60 stadi, ossia circa 11 km]. 

Stiamo affrontando una questione scottante in cui gli scrittori sono stati reticenti ed hanno privilegiato l’anonimato; bisogna perforare i testi e quindi, anche a costo di apparire cavillosi e ricercati, è giocoforza prestare attenzione ai minimi dettagli, che a volte non sono insignificanti. 20,10 così suona: «I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa loro» (vers. CEI), più precisamente «ri-tornarono presso loro stessi» (eautous, eautouV, nella maggioranza dei codici). Certo il discepolo amato può essere tornato a casa sua che era nei paraggi, ma non Pietro, la Maddalena e gli altri discepoli/e, la stragrande maggioranza dei quali, essendo di origine galilaica, non potevano avere una casa propria a Gerusalemme o dintorni. Dove stavano quindi soprattutto di notte?

Infatti gli autorevolissimi e antichissimi codici Vaticano e Sinaitico (trovato sul Sinai ma oggi esposto in una delle prime sale del British Museum a Londra; è un’occasione per vedere coi propri occhi la cosiddetta scrittura continua: una parola attaccata all’altra e senza punteggiatura) hanno semplicemente autous, autouV  (senza la epsilon iniziale): ritornarono cioè presso (di) loro. Una sfumatura certo: ma dato che quasi tutti i codici seguenti hanno sentito il bisogno di immettere davanti la “e” per precisare con chiarezza che si trattava della loro propria casa, vuol dire che l’espressione originaria è stata sentita come più vaga; la lezione del Sinaitico e del Vaticano potrebbe quindi segnalare che non era proprio la loro casa, bensì una dimora di amici in cui erano ospitati, a nostro parere quella della famiglia Cleofa in cui erano ospiti probabilmente in parecchi: Pietro, la Maddalena, e quant’altri discepoli e discepole, presumibilmente in un’abitazione ampia tipica delle famiglie di alto rango.

 

Tornando a 20,2, dal termine altro, oltre all’uso di fileo (jilew, usato solo qui per il discepolo amato), se ne deve trarre qualche deduzione? (come si chiede Schnackenburg 507). “Altro” può riferirsi a Pietro; come nei versetti seguenti si dice più volte Pietro e l’altro discepolo…; ma se fosse così evidente questa semplice soluzione, Schnackenburg non se lo sarebbe chiesto; dipende anche dalla punteggiatura scelta: Pietro e l’altro discepolo, (che Gesù amava), in cui si tratta semplicemente dell’accoppiata Pietro e l’altro discepolo. Oppure Pietro e l’altro discepolo-che-Gesù-amava: altro si riferisce ad un uno/primo amato, che non può essere Pietro, la cui relazione con Gesù non è sempre stata lineare [i discepoli amati non sono due maschi, Pietro e l’anonimo].

Quindi può darsi che “altro” si riferisca alla (all’una/prima) discepola amata di cui si è parlato in precedenza secondo la nostra ipotesi: altrimenti la “Maria” al sepolcro del v. 11 da dove sbuca? Anche nel testo attuale Maria [Maddalena] è andata per prima alla tomba e poi è corsa ad avvisare Pietro e il discepolo amato, dopodiché scompare di scena. Inoltre se prima si è parlato dell’amata (agapaw, agapao) Maria, per Simone è quanto mai opportuno usare qui, nello stesso contesto jilew, fileo (voler molto bene…), per distinguere i due tipi d’amore...

 

L'apparizione a Maria

 

Come appena detto, al v. 11 poi compare una Maria che sta piangendo al sepolcro: dove si trovava nel frattempo? (come si chiede lo stesso Schnackenburg 494); e soprattutto chi è? Non si dice che è la Maddalena, anche se costava poco farlo; la s’identifica solo alla fine al v.18 con una chiara dicitura redazionale: dopo sei versetti di verbi al passato (a parte i discorsi diretti) compare un presente ercetai «[viene Maria Maddalena annunziando] M.M. va ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore” (discorso diretto), e che questo le aveva detto» (discorso indiretto), con la stessa dicitura iniziale del v.1 (Maria Maddalena viene). È la redazione che apre e chiude la sezione (20,1.18), fra l’altro con un passaggio, cosa rarissima nel NT, nella stessa frase dal discorso diretto a quello indiretto, eliminato da non pochi copisti (Schnackenburg 527). In ogni caso, sicuramente, la Maria del v. 11 non era originariamente la Maddalena, altrimenti l'avrebbero scritto: la fonte antecedente non diceva Maria di Magdala! Per chi ha un minimo di sensibilità storico-critica, la cosa mi pare di un’evidenza solare! E in nessun codice anche posteriore si trova al v. 11 l'aggiunta di un copista o glossatore che precisi che si tratti di Maria di Magdala. Ma così è stata logicamente interpretata ben presto, dato il contesto in cui essa è nominata all'inizio del capitolo ed alla conclusione della pericope in 20,18. Chi poteva essere?

 

Per quanto concerne il pianto a dirotto e pluriripetuto (prima gli angeli e poi Gesù le chiedono perché piange), non si può non pensare all’analogia con il pianto dirompente di Maria per Lazzaro: c’era l’usanza di recarsi al sepolcro per piangere il defunto, per cui i giudei seguono Maria perché pensano che vada al sepolcro per piangere là (11,31: ina klaush ekei, Thyen, Das Johannes-evangelium, op. cit., 758). Poi continua a piangere di fronte a Gesù ed assieme ai giudei, prima della “rianimazione” di Lazzaro (di Simone-Lazzaro?).

Anche qui in Gv 20 una Maria si reca alla tomba di Gesù e sta piangendo, tanto che gli angeli le chiedono semplicemente perché piange senza dare alcuna successiva informazione o consolazione (come diremo anche più avanti, un passaggio che sembra quasi inutile). La Maria in pianto presso il sepolcro, e poi nel dialogo con il giardiniere-Gesù, è molto simile a Maria di Betania…

 

A mio parere una tradizione originaria di una protofania postpasquale a Maria (di Cleofa, o di Betania) è stata repressa a favore di una protofania a Maria Maddalena per attrazione del contesto, personaggio peraltro molto importante nella comunità primitiva, tanto da risultare in tutti gli elenchi di donne dei vangeli, e sempre per prima (a parte, come già spiegato, sotto la croce). Fra l'altro la tradizione oscilla sulla prima persona a cui sarebbe apparso il risorto: Pietro (come ricorda Paolo nella 1ª Corinti 15,5) o Maddalena (come qui in Giovanni secondo l'interpretazione tradizionale, oltre che all’inizio della finale apocrifa di Mc 16,9-20, cioè nei vv.9-10, aggiunta nel secondo secolo, l'epoca grosso modo della redazione finale anche del quarto vangelo)? E la “rivendicazione” di premierato sembra riguardare non solo la proto-apparizione bensì pure la scoperta della tomba vuota: Lc 24,12, che parla della corsa al sepolcro di Pietro immediatamente prima del racconto di Emmaus, manca in alcuni manoscritti [ad esempio in D, negli antichissimi codici latini Vercellense, Veronese, Palatino (Trento), ma è presente tuttavia nel P 75, un papiro ancor più antico del 2/3 secolo che contiene Lc 3-24 (guarda caso da dove il vangelo iniziava originariamente senza i racconti dell’infanzia), e i primi 15 capitoli del quarto vangelo con qualche interruzione come da 13,10 a 14,18]. Tale versetto quindi ha tutta l'aria di essere un'interpolazione (K. H. Rengstorf, Nuovo Testamento, vol. 3, Il vangelo di Luca, Paideia 1980, p. 470). La visita di Pietro al sepolcro è stata inserita di forza…

 

Prima a Pietro o prima a Maria (e familiari)?

 

Ma concentriamoci sulla prima apparizione: nella visione tradizionale prima a Pietro o alla Maddalena? Oppure, nella nostra impostazione, prima ai discepoli amati (Maria e Simone figli di Cleofa) o prima a Pietro? Riaffiora la piccola tensione, la leggera concorrenza fra una chiesa petrina nella scia dei 12, ed una chiesa giovannea (Efeso e dintorni) nella scia del discepolo amato. A mio parere forse la vera contrapposizione non è fra Pietro e la Maddalena, bensì fra Pietro e la famiglia Cleofa; infatti il «che importa a te» di 21,22 segnala una doppia tensione: una fra Gesù e Pietro, ed un’altra fra Pietro e il discepolo amato, tra i due Simone.

Fra l'altro Luca, pur evidenziando il ruolo delle donne durante la via crucis, non narra alcuna apparizione al genere femminile (sembra quasi che la voglia escludere...). Per quale motivo l’unica vera apparizione narrata da Luca è ai due semi-sconosciuti discepoli di Emmaus? Non si dice neppure che fossero “discepoli”, ma semplicemente “due di loro”; Luca non usa più il termine “discepoli” dopo il Monte degli Ulivi. Di uno solo ad un certo punto, quasi per misericordia, si dice il nome: Cleopa/Cleofa. Quando i due tornano a Gerusalemme festanti per annunciare l’incontro con Gesù, non ne hanno quasi il tempo, perché sono gli altri a dire loro che è apparso a Pietro; l'annuncio di tale protofania petrina è inserita di forza contro il vero e proprio filo conduttore del racconto di Emmaus. Ma questa apparizione petrina non viene narrata: qualcuno ha voluto inserire di brutto una prima e/o più importante apparizione a Pietro, spiazzando i due discepoli di Emmaus; nei vangeli solo qui, in Lc 24,34, si parla dell'apparizione a Pietro!. Vi riappare, nella nostra ipotesi, una concorrenza fra Pietro e la famiglia Cleofa; i due di Luca potrebbero appartenere a tale famiglia: o si tratta di fratello e sorella (si fa un nome solo per censurare la sorella, dato che Luca non gradisce apparizioni alle donne), oppure, come a mio parere più probabile, si tratta del fratello-figlio e padre (due uomini che parlano da israeliti), il “cognome” di uno dei quali si estende implicitamente anche all’altro. E' più plausibile che siano stati due maschi a ritornare precipitosamente a Gerusalemme di notte (sera).

 

Infatti, anche se dopo si riferiscono alle “nostre donne” (discepole di Gesù), prima affermano che a far uccidere Gesù sono stati i «nostri capi» (non dicono «i capi dei Giudei o i sommi sacerdoti»: ragionamento che collima con una famiglia dell'aristocrazia giudaica locale). E dicono pure: «noi speravamo che avrebbe liberato Israele...»; non è un ragionamento da comunità cristiana posteriore, ma quasi un discorso intra-giudaico...L’unica vera apparizione originaria pre-lucana, a mio parere, è a due (o ad uno solo) personaggi allora ben conosciuti; poi è intervenuto il fumo reticente su questa famiglia che suscitava imbarazzo.

 

L’alternativa quindi sarebbe: o è apparso prima a Pietro, con a favore la testimonianza di Paolo nella 1 Cor., e di Lc 24,34, anche se inserita di forza; o prima alla famiglia Cleofa, separatamente alla figlia da una parte (qui in Gv 20 secondo noi), al resto della famiglia dall’altra lungo la via di Emmaus, nonostante la forzatura finale dell’apparizione a Pietro che fa seguito alla suddetta forzatura iniziale, subito prima del racconto di Emmaus, relativa alla visita di Pietro al sepolcro (interpolazione, aggiunta posteriore).

Chi ha inserito, redazionalmente o interpolando, la doppia forzatura non ha gradito e non ha ben digerito che il racconto originario fosse imperniato solo sui due di Emmaus, prima conosciuti e poi censurati. Oltre alla censura già avvenuta, ha rincarato la dose racchiudendo il tutto (prima e dopo) con la preminenza petrina..., quasi a ridurre la portata e la rilevanza dei due viandanti.

 

Alcune testimonianze antiche, come ad es. Origene, vedono nell’altro compagno sconosciuto di Emmaus proprio il figlio Simone (assieme al padre Cleofa; non siamo poi così fantasiosi come potrebbe sembrare a prima vista: cfr Rengstorf, Vangelo di Luca, op. cit., p. 472). Abbiamo a che fare con la scuola di Cesarea, di Origene ed Eusebio, i meno propensi ad accettare censure: non è un caso che entrambi fossero eterodossi e poco allineati, con rispettivamente il primo deposto e il secondo scomunicato.

 

Altro dato anomalo, già accennato sopra, è che si faccia il nome di uno solo; ciò può essere un indizio che la tradizione originaria conoscesse un solo viandante: Cleofa padre o figlio? Sarebbe stato Luca ad introdurne un secondo per la validità formale della testimonianza (si richiedevano allora almeno due testimoni). Così Michael Walter, Das Lukas-evangelium, Handbuch zum Neuen Testament 5, Mohr Siebeck, Tübingen 2008, p. 776. Ma che testimonianza è quella di due sconosciuti quasi innominati? A mio parere invece all’inizio erano (era) ben conosciuti; poi è intervenuta la censura. Perché?

 

Nella pesca di Gv 21 il fatto che lo riconoscano o meno è un aspetto dei più contorti, in una narrazione non lineare secondo parecchi mal appiccicata. In 21,7 è il discepolo amato a riconoscere il risorto e a dirlo a Pietro, il quale si copre con la tunica (perché era nudo) e si getta in mare!? L'ha preso per un fantasma? O si getta in acqua per raggiungere più rapidamente il Signore (come suppone Schnackenburg 589)? Si coprirebbe quindi per incontrarlo adeguatamente vestito.

Poi il 21,12 così suona: «E nessuno dei discepoli osava domandargli “Chi sei?”, poiché sapevano bene che era il Signore» [un’altra excusatio non petita]; è veramente enigmatico questo pseudo-riconoscimento del risorto. Risulta perciò un’accusatio manifesta: i discepoli non erano poi così sicuri che fosse il Signore (Schnackenburg 588s); il dubbio di Tommaso non è solo suo, ma anche degli altri (Thyen, Das Johannes-evangelium, op. cit., 786).

 

21,14 poi conclude la scena commentando: «Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli dopo essere risuscitato dai morti»; chiaramente le prime due sono sempre a tutto il gruppo, a porte chiuse, prima senza Tommaso e poi con la sua presenza. Ma così si dimentica, si trascura e si ignora l’apparizione precedente a Maria: perché era una donna la cui testimonianza non era considerata valida [come forse in Luca]? O perché questa Maria bisogna in qualche modo censurarla?

Prescindendo perciò dalle apparizioni collettive (e tardive), se poi il viandante di Emmaus è uno solo (supponiamo il figlio Simone), nei vangeli le uniche due (vere) apparizioni a personaggi precisi e circostanziati [non ad un gruppo indefinito più o meno numeroso di discepoli radunati] col non riconoscimento iniziale del risorto, tipico (solo) del terzo e quarto vangelo, sarebbero ai due fratelli amati: Simone in Luca, e Maria nell’ultimo vangelo. 

Se guardiamo alla finale apocrifa di Mc 16,8-20, al cui autore dobbiamo essere grati perchè a mio parere ci ha salvato il vangelo [il vangelo originario, che terminava in 16,8 con le donne che fuggono dal sepolcro e non dicono niente a nessuno perché piene di paura, avrebbe corso il serio rischio di essere espulso dal canone e di cadere nel dimenticatoio], abbiamo un compendio (preso dagli altri vangeli) che ci testimonia cos'era veramente rimasto di essenziale e ben rimarcato agli inizi del secondo secolo: 1) Apparizione a Maria (di Magdala), alla quale non credono. 2) Successiva apparizione ai due viandanti verso la campagna (scomparso il nome Emmaus, ma in compenso si accentua il “sotto altro aspetto” en etera morjh, ossia la consapevolezza del non riconoscimento del risorto, che avviene solo alla conclusione con lo spezzare il pane), che pure non vengono creduti. Solamente alla fine il risorto appare agli undici. Sostanzialmente e principalmente è rimasta quindi l'apparizione alla nostra Maria, ed al nostro Simone col padre Cleofa, ossia ai discepoli amati. Il “medium” dell’esperienza del risorto non è tanto lo spezzare il pane (inteso in senso rituale, come al solito in modo sovrannaturalistico), bensì la commensalità reale nell’amicizia e nell’amore [un topos universale], compreso quello per il proprio partner in coppia. Teologicamente e sacramentalmente, là dove un uomo ed una donna si amano, traspare il volto del Dio vivente [finalmente, qualcuno dirà, uno squarcio teologico; non disdegniamo certo la teologia, ma in questo lavoro volutamente e metodologicamente ci siamo attenuti strettamente al primo livello del testo nel tentativo di dare un nome ai discepoli amati, prescindendo intenzionalmente dai più alti significati di stampo teologico e spirituale].

Se nell’intera vicenda storica di Gesù di Nazareth traspare il volto di Dio, perché non dovrebbe svelarsi anche secondo questa pregnante modalità di coppia? Il Cristo risorto si manifesta e si rivela (in tutti i tempi) in modo particolare nella commensalità (eucaristica in senso non sacrale) dell’eros, dell’agape e della filia [eroV, agaph, jilia].

Ma in Marco dell'apparizione a Pietro neanche l'ombra; essa è praticamente solo in Paolo: nei vangeli la si cita, senza narrarla, unicamente nella grande forzatura di Lc 24,34.

 

«Maria!»   «Maestro mio!»    La sua donna non era Maddalena

 

A mio parere infatti è all’innominata Maria che Gesù appare in 20,11ss, cioè alla discepola amata, e non alla Maddalena. Si volta una prima volta 20,14 per chiudere la scena con gli angeli ed aprire quella con il giardiniere/Gesù. La scena degli angeli è una reminiscenza matteana, inserita di forza e quasi inutile: gli angeli non danno nessun messaggio, ma chiedono solo perché piange! (Schnackenburg 494, 517), frase poi ripetuta da Gesù. È un ulteriore indizio che il quarto Vangelo conosce il cosiddetto Matteo intermedio. Poi si volta ancora nel 20,16 quando «Gesù le disse: “Maria”!; allora ella, voltatasi, gli disse: Rabbounì» (“maestro mio”, il termine confidenziale della vita terrena). 

Perché si deve (ri)voltare se ce l’ha già davanti in quanto si è già voltata in precedenza?  Come si trova in qualche manoscritto, Maria invece «gli corse incontro per toccarlo»; a mio parere [rimanendo nell'ambito della fiction letteraria; non vogliamo qui nemmeno sfiorare la questione della storicità delle apparizioni, e a maggior ragione quale poteva essere lo status, corporeo o meno, del risorto] gli è volata al collo baciandolo…: il tutto è stato censurato inserendo un improponibile secondo voltarsi.

Acquista così senso il «Non mi toccare...», il “Non mi trattenere” della versione italiana, e ancor meglio, come traduce S. Garofalo, il «non tenermi così», come se fosse quasi avvinghiata a Gesù, abbracciata come nell’ultima cena, e non volesse staccarsi.

Anche nella tradizione delle due sorelle in Luca 10,38-42, Maria è sempre incollata a Gesù, tanto che Marta si lamenta per averla lasciata sola nei lavori di casa e cucina. Anche qui non è detto che il significato sia sempre e solo spirituale (vizio consueto dello spiritualismo, nonché del cosiddetto «sovrannaturalismo cristiano»).

«Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla [bocca]» (sentenza 55 del suddetto Vangelo di Filippo). Liquidare la faccenda dicendo che il vangelo di Filippo è un vangelo gnostico del secondo secolo è un'arma a due tagli: anche il quarto vangelo è a suo modo un vangelo “gnostico” del secondo secolo. Certo il vangelo di Giovanni non è “gnostico” in senso stretto, ma comunque risente del movimento della gnosi, e ne ha assorbito sfumature, sfaccettature, ed elementi non secondari, bensì ben radicati all'interno della redazione del vangelo medesimo. Conosciamo inoltre a sufficienza la problematica del vangelo di Filippo, e sappiamo che per la redazione finale il suddetto passo ha un significato decisamente spirituale; ma ciò non toglie che il redattore si rifaccia ad una fonte a lui antecedente, in cui il senso poteva essere molto più concreto.

 

Se diamo una scorsa ai materiali contenuti nel codice ASKEW, traduzione copta di originali greci, scritto in Lettere greche maiuscole nel dialetto dell'Alto Egitto [la scrittura è greca, la lingua è copta; la scrittura è una cosa, la lingua un'altra, cosa non sempre facile da far capire a scuola anche relativamente ad es. al cuneiforme, scrittura che può esprimere più lingue, come la nostra “latina” alfabetica esprime molte lingue europee], nell'ambito dello gnosticismo di Valentino e dei seguaci Valentiniani (G.R.S. MEAD, Gnosticismo e Cristianesimo delle origini, Fratelli Melita Editori 1988), troviamo ad esempio:

L'evangelo di Maria (citato anche da Ireneo): in esso Pietro chiede a Maria [non è la madre di Gesù] di proclamare ciò che il Signore le ha rivelato, riconoscendo così la grande distinzione che il Signore le ha sempre accordato al di sopra delle altre donne, ed ella incomincia il racconto di un'apparizione del Signore in un sogno [testo qui si interrompe] (G.R.S. Mead, op. cit., p. 423). Di quale Maria si tratta?

 

Rimanendo per un attimo all’interno della visione tradizione che vede la Maddalena come destinataria dell’apparizione di Gv 20,11ss, coloro che vogliono scardinare la tesi della relazione sessuale ed eliminare qualsiasi insinuazione [per demolire tutta la “saga” a partire dal Codice da Vinci di D. Brown], si rifanno al «maestro mio», il «Rabbounì» citato sopra, sottolineando in modo più o meno ironico che non ha propria l’aria di essere un’espressione erotica...Forse; ma l’esclamazione di Gesù “Maria!” [quel chiamarla per nome su cui sono stati scritti, e giustamente, i proverbiali fiumi d’inchiostro], che appare così spontaneo, di getto, quasi senza controllo, e soprattutto non seguìto da alcuna comunicazione-informazione, potrebbe avere una valenza su cui non si è ancora scritto: ossia…erotica (nel senso nobile dell’eros, del desiderio amoroso, e non in quello che rasenta o si confonde col “pornografico”). Chiamare per nome, senza dare o aggiungere alcuna informazione, rientra nel linguaggio non verbale (tono, postura, sguardo, occhi, volto, gestualità), con tutto quel che comporta in quanto spontaneo, genuino, non controllato. Con la semplice esclamazione del nome si trasmette un sentimento: che può anche essere di richiamo, rimprovero, ironia, sarcasmo ecc., ma che qui è chiaramente un’espressione di “grande amore”.

 

[Un po' di Gossip: la mia esperienza nei licei artistici e musicali tuttavia mi insegna che tale saluto (“Maestro”), certo in un conservatorio dell'epoca attuale, è molto più confidenziale ed affettuoso di quanto si pensi (non è comunque freddo e da semplici sottoposti). E’ noto l’aneddoto del maestro Arturo Toscanini nel suo periodo americano con la NBC Sinfony Orchestra; rimproverò una volta durante le prove un soprano (sua amante) per una serie di vocalizzi non proprio perfetti. Al che la donna avrebbe reagito con un «Ma Artur…», con la secca replica del direttore d’orchestra: «Artur solo a letto, qui mi devi chiamare “maestro”»]. 

 

Fra l’altro quasi tutti traducono con “maestro”, mentre in aramaico rabbounì ha più il senso di «maestro mio»; questa omissione ci sembra tendenziosa, per far sparire qualsiasi cenno di tenerezza nell’espressione.   

Sempre nel suddetto codice ASKEW, troviamo la Pistis Sofia; date le lunghe parti relative, potrebbe essere chiamata ugualmente bene Le domande di Maria: nel corso delle molte interpellanze [una specie di interviste impossibili] fatte a Gesù da parte dei discepoli e delle donne “discepoli”, Maria, madre di Gesù che è altresì una delle donne discepoli, rispose e disse: “Maestro mio” (p. 348). Se l'espressione viene attribuita alla madre nei confronti del figlio, è tutt'altro che fredda e asettica.

 

Digressione su Betania/Lazzaro

 

Siamo già intervenuti sul racconto di Lazzaro nell’ormai lontano 2002, Lazzaro: miracolo o parabola, il Foglio 292, maggio 2002, tutt’ora presente on-line ma nel vecchio sito del Foglio, www.ilfoglio.org,

B. costituisce l'abbreviazione di B. Byrne  Lazzaro. Una lettura di Giovanni 11, 1-46, San Paolo 1994; ma ci riferimmo anche ai commenti di R. E. Brown e Mateos-Barreto (Cittadella), di Dodd e Schnackenburg (Paideia), di Henneberry, Kremer, Rochais (citati in B.).

Già allora scrivevamo: «la narrazione è piena di stranezze e anomalie, che testimoniano la redazione travagliata del passo, a più livelli e stadi, a più riprese e sovrapposizioni, con tracce di cuciture e rammendi non ben camuffati» (B 80). «C’era un malato, Lazzaro da Betania, il paese di Maria e di sua sorella Marta». In questo primo versetto d’esordio in Gv 11 non è subito chiaro se Lazzaro sia effettivamente il fratello di Maria e di Marta; potrebbe essere semplicemente una persona del medesimo paese (perché non dire subito che è il fratello?). Designare un uomo dal suo luogo d’origine è una generale costumanza giudaica (Schnackenburg 2ª parte, 528) [anche la Maddalena viene identificata col luogo d’origine, appunto Magdala, un villaggio sul lago 5 Km a nord di Tiberiade]; la precisazione inoltre riguarda la località, e non il rapporto fra le due sorelle e Lazzaro (Schnackenburg 2ª parte, 533s). E il paese viene individuato mediante la figura di Maria; qui il riferimento a Marta sembra una sorta di aggiunta (B 80): viene messa in relazione con Maria in quanto sorella. Maria sembra essere il principale anello di congiunzione con Gesù, risultando una figura ben più conosciuta di quella di Lazzaro (Mateos-Barreto).

 

Marta è invece centrale solo nel dialogo super-teologico (11,20-27) sulla vita eterna, la resurrezione nell’ultimo giorno, il credere in Cristo, figlio del Dio [vivente] inviato nel mondo. L’evangelista sembra aver enfatizzato, per le sue riflessioni teologiche, il ruolo di Marta in una storia originariamente imperniata su Maria. In generale si ha dunque l’impressione che i passi nei quali Marta ha una posizione di preminenza siano una sorta di intromissione (B 80).

 

La suddetta frase di apertura (11,1) corrisponde molto bene alla situazione presupposta in Lc 10,38-42: le due sorelle Marta e Maria ospitano Gesù in viaggio verso Gerusalemme; una di loro, Maria, assume nei confronti di Gesù un atteggiamento di maggior familiarità, con dispiacere della sorella. Il racconto lucano non fa alcuna menzione di un fratello Lazzaro né del nome del paese (non dice “Betania”); ma sembra che entrambi i vangeli attingano a un’antica tradizione comune, meglio riflessa in questa frase iniziale che nel successivo dramma. Secondo Schnackenburg (2ª parte, 531, e altri) tutte le annotazioni relative al “fratello” Lazzaro si possono attribuire all’evangelista (vv. 2.19.21.23.32.39); si può quindi cautamente pensare che sia stato l’evangelista a collegare i tre personaggi in un’unica famiglia, facendo di Lazzaro il fratello di Maria e Marta (B 42).

Comunque nel primo livello del racconto è centrale Maria, come emerge subito nel v. 2: «Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli». E’ sorprendente il riferimento assolutamente anomalo ad un evento che deve ancora verificarsi (l’unzione suddetta viene narrata in Gv 12)!!              A ciò si aggiunge con una certa contorsione stilistica la dipendente «il cui fratello Lazzaro era malato»: se non fosse per questo inciso bisognerebbe attendere il v. 19 per sapere che Lazzaro è il fratello delle due donne; mentre la sua malattia è affermata ben 5 volte nei primi 6 versetti.

L’autore nel v. 2 sembra molto ansioso e desideroso di identificare Maria: se aveva solo bisogno di chiarire che Lazzaro era il fratello, avrebbe potuto tranquillamente farlo nelle 5 volte che nei primi versetti si sottolinea la malattia di Lazzaro. Aveva invece bisogno di identificare Maria (ma secondo noi non fa riferimento all'unzione di Gv 12, narrata al capitolo seguente). La identifica infatti con un participio aoristo: era colei che aveva cosparso…[il quarto vangelo è un enigma, e questa ad es. rientra fra quelle cose che lasciano veramente perplessi].

Fortna (citato in Schnakenburg, 2ª parte, 534, nota 5) ritiene che il versetto 2 [a] sia un’annotazione redazionale dell’autore del “Vangelo dei segni” (fonte dei segni, shmeia, semeia-quelle). E secondo G.W.C. Reim, Studien zum alttestamentlichen Hintergrund des Johannes evengeliums, Dissertazioni Oxfordiane inedite, 1968, (citato in Schnackenburg 2ª parte, 15, nota 4), «non esisteva ancora un vangelo con la storia della passione». Meglio, la fonte dei segni (ultimo segno è quello di Lazzaro) non era ancora agganciata ai “discorsi di rivelazione” ed alla passione; è la divisione classica del quarto vangelo in tre parti: 1) Attività in Galilea (dando per scontate, senza narrarle, parecchie cose dei sinottici; ad es. il quarto vangelo non narra alcun esorcismo, ma li presuppone) organizzata sull’intelaiatura dei circa 7 segni della semeia-quelle, la cui conclusione compare sfalsata in 20,30-31 (due segni a Cana, le nozze e la guarigione alla fine del c. 4 del figlio di un funzionario reale, Nicodemo, la Samaritana, la moltiplicazione dei pani, il cieco nato e Lazzaro); 2) Lungo colloquio coi discepoli (i bultmanniani discorsi di rivelazione nei capitoli 14-17); 3) Racconto della passione/resurrezione.

Perciò l’autore-redattore, che scrive quasi a tavolino coi sinottici davanti, non conosceva (ancora) il resto del...suo vangelo, per cui nell’identificazione di Maria di Betania si riferisce a nostro parere alle unzioni di Marco 14,3-9 e Matteo 26,6-13. E così prende due piccioni con una sola fava, perché dà pure un nome alla donna anonima delle unzioni sia in Mc e sia in Matteo a casa di Simone il lebbroso.

 

Quanto poi all’unzione narrata in Gv 12, l’autore della “fonte dei segni”, considerando il lessico, sembra sì riferirsi all'unzione di Marco in generale (così Schnackenburg, 2ª parte, 615-616), ma a Luca 7 per due varianti rispetto a Marco e a Matteo: 1) Unzione ai piedi (e non al capo come Mc e Mt); 2) Detersione coi capelli (solo qui in Gv e in Lc 7, ma non in Marco-Matteo).

Non è la prima volta che succede nel quarto vangelo che mostra di conoscere i sinottici, o almeno le tradizioni ad essi sottostanti: lo dimostrano alcuni passaggi come «Giovanni non era ancora stato imprigionato» (3,24), anche se tale prigionia del Battista con relativa esecuzione non verrà mai narrata. Presuppone altresì il battesimo di Gesù da parte di Giovanni (1,31-34) senza mai narrarlo; e, come detto sopra, in 6,70 presuppone la nomina-istituzione dei 12 senza averla mai raccontata.

 

Tornando a noi, la fonte dei segni deve identificare Maria in Gv 11: è quella donna che lava i piedi a Gesù, poco prima della Passione, in casa di Simone il lebbroso, come narrato da Marco e da Matteo. Non fa quindi riferimento all'unzione del capitolo 12 che la suddetta fonte non conosce ancora, o col quale non è ancora collegata redazionalmente: quest'ultima (l'unzione in Gv 12) fra l'altro si svolge da qualche parte nel villaggio di Betania (come in Mc e Mt), e non a casa dei fratelli amici di Gesù! Per di più le tre persone che il lettore conosce già dal capitolo 11 come fratelli non sono qui nel capitolo 12 indicate come fratello e sorelle (Schnackenburg, 2ª parte, p. 608). Nella fonte originaria dell'unzione di Gv 12 era centralissima Maria [ancora una volta la centralità di Maria di Betania], e non si parlava ancora dei suoi fratelli. «...sembrerebbe piuttosto che sia stato l'evangelista ad aggiungere le indicazioni relative a Lazzaro e Marta per collegare la vicenda col cap. 11» (Schnackenburg, ivi, 2ª parte, 608). In parole povere, la fonte di Gv 11 non conosce (ancora) Gv 12, mentre Gv 12 conosce Gv 11: il che avvalora la nostra tesi, sopra enunciata, che chi identifica in Gv 11,2 Maria come «colei che aveva cosparso di olio profumato il Signore...», si riferisce a Marco e Matteo, scrivendo coi Sinottici davanti.

Inutile sottolineare che la detersione (asciugare) coi capelli (a prescindere che sia avvenuta ai piedi o al capo, o forse a tutti e due) rivela, denota un atteggiamento molto intimo tra la donna e Gesù, nonché una grande familiarità e tenerezza col suo corpo. E questo vale della donna che unge Gesù in tutti i vangeli, innominata nei tre sinottici, identificata solo nel quarto come Maria di Betania.

«Già sciogliersi solo i capelli davanti a degli uomini era ritenuto gesto di sconvenienza e motivo sufficiente per il divorzio!» (H. Schürmann, Vangelo di Luca, op. cit., p. 690 nota 12). 

 

La famiglia che Gesù amava

 

Si tratta quindi di sentimenti vivi d’affetto e amore per una famiglia di Gerusalemme, di Betania, o di Emmaus; se, oltre alla Passione, abbiamo una triplice ascesa di Gesù a Gerusalemme come dice il quarto vangelo (Gv 2,13; 5,1; 7,10.14), è stata una relazione intensa come a volte tipica di quelle con interruzioni, separazioni, lontananze.

[Calza alla perfezione lo stupendo vecchio adagio: «la lontananza sta all'amore come il vento al fuoco». Un vento medio (lontananza saltuaria e contenuta nel tempo), se il fuoco è piccolo (amore leggero), lo spegne; se invece il fuoco (amore) è grande, lo aizza e lo fomenta].

Per noi il luogo di residenza di tale famiglia oscilla fra Emmaus e Betania: se per Emmaus seguiamo la lezione del Sinaitico (60 stadi anziché 160, ossia 11 km), Emmaus si trovava ad una distanza non troppo superiore a quella di Betania da Gerusalemme; Betania ed Emmaus potevano essere abbastanza vicine, anche se è quasi un’impresa risalire all’ubicazione originaria di Emmaus (come pure quella di Cana; ben 4 località si contendono l’onore di essere l’antica Emmaus). Schnackenburg cita una missione di archeologi italiani che l'avrebbero identificata; la più “gettonata” comunque risulta essere Emmaus-Nicopoli, appunto a 11 km (60 stadi) a NO di Gerusalemme: tale Emmaus è stata arsa da P. Quintilio Varo, ma ricostruita e chiamata Nicopoli. Anche Giuseppe Flavio nella Guerra giudaica 7:6,6, raccontando che l'imperatore Vespasiano vi aveva stabilito una colonia di 800 veterani licenziati dal suo esercito, dice: «Il luogo è chiamato Emmaus e dista da Gerusalemme sessanta stadi».

 

Sempre secondo il citato Rengstorf, Vangelo di Luca, p. 471s, sembra che ad Emmaus abitino alcuni [parecchi] appartenenti alla più vasta cerchia dei discepoli: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola...» (Lc 24,29). «E alzatisi partirono all'istante...» (v. 33).

Sono tutti indizi che fanno pensare ad un discepolato locale di Gesù in Giudea in cui sembrano abitare molti discepoli. E comunque l'eventuale casa aristocratica ed alto-locata della famiglia Cleofa poteva sicuramente ospitarne parecchi.

 

Ma l’abitazione della famiglia Cleofa poteva essere anche a Betania, in cui, come già detto, arrivano da Gerusalemme tanti Giudei  per consolare le due sorelle della perdita del fratello.

[L’unità di misura dello “stadio” allora era abbastanza elastica, a seconda che si trattasse dello stadio greco, alessandrino o romano, quasi come lo spazio…nella relatività ristretta di Einstein: diciamo che era di circa 185 metri. La cosa è complicata dal fatto che c’è una Betania pure in Transgiordania, detta anche Bethabara; per di più i toponimi di 2000 anni fa sono diversi da quelli di oggi, o meglio spesso si conserva a lungo il nome (più duro da modificare), ma cambia il posto per le vicissitudini storiche (ad es. una nuova Betania, Emmaus o Cana, perché le antiche sono andate distrutte)].

La visita di Gesù a casa delle due sorelle in Luca 10,38-42 avviene durante un viaggio a Gerusalemme; il villaggio non sembra proprio trovarsi attaccato a Gerusalemme a ridosso del monte degli Ulivi: si tratta forse nella Betania giordana?

Potrebbero quindi essere o entrambe più lontane seppur vicine tra loro (160 stadi da Gerusalemme per Emmaus e 170 stadi per la Betania al di là del Giordano, presunto luogo del battesimo di Gesù, a circa 30 km da Gerusalemme), oppure molto meno distanti dalla città santa (60 stadi per Emmaus e 15 stadi per la Betania oltre il monte degli ulivi). Quei codici (ad es. il Sinaitico) che hanno pensato Emmaus più vicina a Gerusalemme, data l'espressione greca ekaton exekonta, ekaton exhkonta [cento sessanta], si sono limitati a togliere il cento lasciando il sessanta; infatti è molto più semplice omettere una parola che riscrivere l'indicazione più precisa degli “stadi” nelle decine e nelle unità. Si è trattato quindi a mio parere di un avvicinamento all'ingrosso, abbastanza vago; potrebbe quindi essere, come alcuni sostengono, anche l’attuale El-Qubeibeh.

 

Luca inoltre ha un rapporto “conflittuale” con Betania: nell'episodio di Marta e Maria (10,38-42) non dice che abitavano a Betania; non racconta l'unzione di Betania, ma solo quella della peccatrice in casa di Simone il fariseo; parla inoltre di Betania solo due volte: nella conclusione come luogo dell'ascensione [ma non fa testo dal punto di vista né storico, né geografico], e nel racconto “mitico” del puledro-asinello che Gesù manda a prelevare tramite i discepoli per l'entrata a Gerusalemme. Si tratta del villaggio di Betfage e Betania, che però riprende tout court da Marco [era l'uno o l'altro? Erano gli stessi? Erano due sobborghi attaccati?]. Fra l'altro Matteo 21,1 ha solo Betfage [in pochi codici anche Betania]; per Mc 11,1 invece in un paio di codici è omessa Betfage con solo Betania.  

Il vangelo di Luca è probabilmente nato in qualche grande città a occidente della Palestina [12,55: il vento caldo del Sud è tipico del Mediterraneo occidentale, non della Palestina]. L’autore conosce bene le città (costiere) del Mediterraneo e il suo orizzonte abbraccia tutto il mondo abitato (2,1; 3,1); il “mare” (qalassa) per lui è il Mediterraneo, mentre quello di Genezaret-Galilea viene designato in modo più appropriato come lago (limnh) [Theissen-Merz, Il Gesù storico, Queriniana-Brescia 1999, p. 52].

 

In conclusione a mio parere Luca non conosce bene la geografia della Palestina interna, e quindi neppure l'esatta ubicazione geografica di Betania; forse aveva le idee un po' più chiare su Emmaus..., ma anche questo nome si è abbastanza presto disperso perchè già nella finale aggiunta di Marco (inizi del secondo secolo) i due viandanti [non si dice “Emmaus”] sono in cammino verso la campagna.

La sostanza è che Betania ed Emmaus potevano essere due sobborghi molto vicini o adiacenti (oppure addirittura lo stesso villaggio coi due nomi equivalenti!), diciamo in campagna, ad una distanza medio-piccola dalla città santa [160 stadi, ossia 30 km, ci sembrano troppi].

 

Ma ciò che è più importante è la dinamica familiare, come testimoniata anche dal sorprendente Gv 11,5: «Gesù amava (agapaw) Marta e sua sorella e Lazzaro», oppure «Maria e sua sorella Marta e Lazzaro», oppure ancora in manoscritti latini «questi tre fratelli Maria, Marta, Lazzaro»; l’unica invariabile è che Lazzaro sia sorprendentemente sempre al terzo posto (B 45). Il personaggio-chiave del racconto al termine della lista, per di più dopo due donne! Ciò potrebbe significare che le due donne sono più importanti di Lazzaro.

 

Stiamo chiaramente unendo le tradizioni su Betania (Maria, Marta, Lazzaro) con quelle di Emmaus: il figlio Simone col padre Cleofa, e la figlia Maria di Cleofa sia sotto la croce che nell'ultima cena.

E’ un collegamento dotato di una certa fantasia, ma non più di tanto. L’intuizione, ripresa da Byrne, di una possibile identificazione fra Simone e Lazzaro, è nella nostra mente ormai quasi da un decennio (2002). Nella parabola lucana (16,19-30) del ricco (Epulone) e del povero Lazzaro, quest’ultimo è ricoperto da delle piaghe tipo-lebbra; è quindi assimilabile a Simone il lebbroso, nella cui casa avviene l’unzione della donna, innominata in Mc e Mt, ma identificata dal quarto vangelo come Maria di Betania.

Il fatto poi che il discepolo amato (Simone-Lazzaro) sia stato guarito e/o risuscitato da Gesù, ben si confà ad un personaggio nonagenario che non sarebbe dovuto morire [vedi più sotto nel dettaglio]; si confà altresì all’idea di un ritorno dai morti: reale quello già avvenuto nella resurrezione di Gv 11, solo possibile nella parabola lucana in cui il ricco chiede che Lazzaro vada ad avvisare i suoi fratelli. Degno di nota il fatto che Abramo non dica che sia impossibile! Afferma che è impossibile, dato il grande abisso, passare dal luogo felice di Lazzaro a quello del ricco (“inferi”, adh), ma non dice che Lazzaro non possa andare ad avvisare i fratelli; dice solo che è inutile: se non ascoltano Mosè e i Profeti (la Bibbia ebraica), non daranno retta neppure ad un risorto dai morti.

 

L’intimità familiare, continuata con la madre di Gesù, è adombrata infatti anche nella conclusione della scena sotto la croce, sia che si tratti del discepolo o della discepola amata: «E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» (19,27, trad. Cei). E il discepolo l’accolse «eis ta idia, eiV ta idia, entro le cose proprie», ossia casa, beni, proprietà, secondo la sfumatura segnalata da De la Potterie (citato in Schnackenburg 452). Avviene cioè l’accoglienza in casa Cleofa; il significato non è solo spirituale. Bisogna liberarsi dal suddetto spiritualismo-sovrannaturalismo cristiano, secondo cui, avendo a che fare coi vangeli e non solo, il significato sarebbe sempre e solo spirituale.

 

C’era o non c’era una sorella Marta? E perché no? Sempre dal suddetto codice ASKEW impariamo che Celso era al corrente di questa scuola copta, e forse ne conosceva pure l'opera, perché ci dice che alcuni eretici derivavano la loro origine da Maria e Marta, e riporta il ben noto diagramma dei cosiddetti “Ofiti”. (Mead, Gnosticismo.., op. cit., p. 429) [erano così chiamati gli gnostici nel cui sistema aveva particolare rilievo il serpente della genesi come simbolo  della conoscenza gnostica del bene e del male].

 

Avremmo così un’altra sorella nella famiglia, che si interessava più della cucina e delle faccende domestiche, nonché possibile futura cognata del Signore, unitamente al padre Cleofa, possibile suocero di Gesù se questi non fosse stato crocifisso e si fosse poi eventualmente sposato (come nel film L’ultima tentazione di Cristo). Ci muoviamo nell’ambito di una famiglia “allargata”, che la visione giovannea sotto la croce intende far proseguire coinvolgendo la madre di Gesù, nonostante la morte del figlio dell’uomo.

 

Prescindendo tuttavia dal fatto se c’era o meno una Marta [che qui nella redazione finale fa comunque da schermo alla sorella], Gesù amava (agapaw) i due fratelli, Maria e Lazzaro; invece in 11,36, trattandosi del solo Lazzaro, si dice: «Vedi come lo amava», usando fileo, ejilei (amore di amicizia). Anche in 11,3 abbiamo «colui che tu ami è malato», sempre con fileo, jileiV.

 

«Ci si può dunque chiedere se la figura del Lazzaro giovanneo possa avere qualche attinenza con il “Simone” che appare nei racconti dell’unzione come ospitante e proprietario della casa. Se la tradizione riguardante la donna che unse i piedi a Gesù a Betania nella casa di Simone venne a un certo punto combinata con quella relativa all’ospitalità concessa a Gesù dalle due sorelle, non saremmo lontani dal riunire chiaramente i personaggi principali. Abbiamo già mostrato che le indicazioni di Gv 11 sul fatto che Lazzaro fosse in effetti il fratello di Marta e Maria, subentrano in forma di aggiunte inserite un po’ goffamente nel racconto preesistente» (B 86).

 

Secondo Sanders, Those Whom Jesus Lovel, NTSt I (1954-55) 29-41, specialmente 33s; e Commentary (ed by B.A.Martin 1968), 31s, sarebbe Lazzaro il discepolo amato (cit. in Schnakenburg, 3ª parte, 639). Per noi non lo è, a meno che Simone e Lazzaro non siano due nomi per la stessa persona. Schnackenburg lo esclude: «Perché mai egli, che dopo la sua resurrezione è chiamato ancora col suo nome in 12,2 e 12,19, più tardi sarebbe menzionato anonimamente?» (Schnackenburg 3ª parte, p. 639). 

Sì, ma Schnackenburg si dimentica che Gv 12 fa ancora parte della semeia-quelle, o comunque della prima parte del vangelo (nome Lazzaro), una fonte autonoma con relativo autore. L’anonimato si trova invece nella seconda e terza parte del vangelo, con altri autori…

Schnackenburg, a parte l’epilogo redazionale del cap. 21 e qualche altro dato sparso, presuppone un unico evangelista/autore, il che non è molto corretto; sì anch’io ho usato la parola “evangelista”, ma solo per brevità, per non dover ripetere tutte le volte che ci sono più autori e più livelli.

 

[E’ un dato di cui oggi tengono conto in pochi, e meno che meno la narratologia oggi di moda: è valido in particolare per il quarto, ma riguarda anche i primi tre vangeli, che non sono come la Divina Commedia o i Promessi Sposi, con un autore unico e ben definito.

Vale per la verità per tutta la Bibbia, Antico testamento compreso! Con forse l’unica eccezione degli Atti degli apostoli, e delle lettere paoline autentiche, che richiedono un discorso a parte].  

 

Tornando a noi, se il discepolo amato ha a che fare con una guarigione, dalla lebbra od altro..., allora vale la prima parte di quel che sostiene K.A.Eckhardt, Der Tod des Johannes, Berlino 1961, 17-20: il nome Lazzaro sarebbe soltanto una più tarda interpolazione; in realtà il vero risuscitato [per noi il vero guarito, meglio “risvegliato” da uno stato di coma, molto simile alle rianimazioni moderne] sarebbe Giovanni di Zebedeo [per noi Simone di Cleofa, ex lebbroso e forse ex fariseo]. In effetti la diceria  che non sarebbe morto (21,22) si presta molto bene, come già detto sopra, ad un resuscitato da Gesù poi nonagenario, che sarebbe vissuto talmente a lungo sino alla Parusia, e poi solo trasformato, in modo da conservare indelebile la resurrezione operata dal Salvatore,  un dono praticamente imperituro non “rovinato” o “sciupato” dalla morte. Simone e Lazzaro possono quindi essere due nomi per la stessa persona: guarita, risvegliata da uno stato di coma secondo me (non resuscitata nel senso classico), ma la sostanza dell'azione vitale del redentore non cambia. Una persona risuscitata dal Figlio è quanto mai logico che non dovesse (più) morire...[non solo in senso fisico, soprattutto per la teologia del quarto vangelo nel dialogo tra Gesù e Marta].

 

Maria di Cleofa è molto vicina a Maria di Betania, e Simone di Cleofa molto vicino al Simone (fariseo) di Lc 7 in cui anche lì, guarda caso, c’è l’unzione di una donna; il nostro Simone è pure molto vicino a Simone il lebbroso di Betania, nella cui casa in Mc 14 e Mt 26 avviene l’unzione da parte di una donna innominata. Alla fine dell’episodio si proclama che il suo gesto sarà ricordato nel mondo intero ovunque sarà annunciato il vangelo, e se ne tace il nome?

Questo episodio (ad es. Mt 26,6) contiene un'indicazione di luogo precisa; perciò risulta ancor più sorprendente che la donna, la quale assieme a Gesù è al centro della scena, resti innominata...(così J. Gnilka, Vangelo di Matteo, parte seconda, Paideia 1991, p. 563). Il testo fra l’altro non presuppone necessariamente che Simone sia presente al banchetto...(ivi, 564), il che rafforza la dinamica familiare sopra esposta e sostenuta; infatti se Gesù era di casa presso questa famiglia, l'unzione può essere avvenuta anche col padrone di casa momentaneamente assente...

 

Secondo quindi la nostra “fantascientifica” esegesi, i discepoli amati sono due: fratello e sorella. La sorella Maria nelle prime due scene, il fratello Simone nelle ultime due, ed entrambi nella terza al sepolcro. Cleofa è il patronimico di entrambi; Betania-Emmaus il luogo d’origine e di residenza, “lebbroso” e “fariseo” le determinazioni del fratello.

 

Abbiamo così la piena umanità di Gesù, compreso il grande amore per una donna (al di là del suo nome) e per il possibile cognato, sino al punto di voler riunire le due famiglie, la propria e quella acquisita. Quindi la diceria popolare che vede una relazione profonda fra Gesù e la Maddalena non è del tutto infondata: certo non si tratta della Maddalena, ma dell’altra Maria. La Maddalena, suo malgrado, fa da velo e scherma il grande amore del Salvatore. Intravediamo una profonda relazione sessualizzata, il che non vuol dire che sia espressa necessariamente a livello genitale: non vogliamo suscitare pruriti indebiti, ma tale rapporto appassionato meriterà un’approfondita riflessione, sia umano-esistenziale che filosofico-teologica.

Le infinite discussioni sulla verginità di Maria hanno distolto la nostra attenzione da quella ben più importante relativa a Gesù; che la Madonna sia vergine e madre passi…, ma è la verginità assoluta e sacrale del figlio dell’uomo il vero scoglio da superare.

 

Chi non è d’accordo, o è rimasto sconcertato se non scandalizzato [non era questa la nostra intenzione], deve comunque tentar di rispondere ai seguenti quesiti:

Perché l’anonimato del discepolo amato?

Perché non viene presentato all’inizio, sotto la croce, nell’elenco dei personaggi presenti? Come si spiega la sua postura “sorprendente” nella cena?

Perché l’anonimato dell’altra Maria? (Mt 28,1).

Perché il quarto vangelo dice sempre e solo «la madre di Gesù», o «sua madre»? 

Perché il «non sappiamo» in Gv 20,2?  E il doppio voltarsi di Maria?

Perché solo “Maria” nell’apparizione del risorto?

Perché l’anonimato della donna che unge a Betania in casa di Simone il lebbroso, in Mt 26,6-13 e Mc 14,3-9? Che deve essere ricordata (senza nome) nel mondo intero!

Perché il semi-anonimato dei due di Emmaus?

In Lc 7 la donna chi ha amato molto?   E così via.

 

Le critiche sono benvenute, possibilmente pertinenti su punti precisi e sull’analisi dei testi; quindi non esterne, dogmatiche, al di fuori del metodo storico-critico, solo perché è stata decisamente attaccata (grazie a Dio) quella pervicace visione sacrale a cui siamo stati abituati sin dalla nostra infanzia.

Certo l’identificazione fra Simone di Cleofa, Simone il lebbroso, Simone il fariseo, sino eventualmente a Simone-Lazzaro, come pure quella tra Maria di Cleofa, Maria di Betania e la donna di Luca 7, non traspaiono immediatamente ed hanno indubbi aspetti di fantasia (lo riconosco; ma qualche volta nella vita bisogna osare, e comunque non sono niente a confronto della narratologia oggi di moda, priva di qualsiasi supporto o base storico-critica). Ma non è detto che la fantasia, unita ad uno studio accurato sia testuale che letterario, non ci azzecchi! Il quadro più in generale, rafforzato e sostenuto da parecchi dettagli non marginali, pare proprio dimostrarsi possibile, anzi attendibile, facendo tornare i conti con tutti i tasselli al posto giusto.

 

Epilogo fantasioso   (come del resto il capitolo 21 del quarto vangelo)

 

Quasi tutte le traduzioni dell'esordio della prima lettera di Giovanni suonano: «...ciò che le nostre mani hanno toccato»; ma il testo dice più precisamente «Ciò che le nostre mani hanno palpato» (1 Gv 1,1), col privilegio tipicamente femminile del tatto, che qui si può riferire unicamente al Gesù storico incarnato, non al Signore risorto: così R. Bultmann, Le lettere di Giovanni, CTNT, Paideia-Brescia 1977, p. 28, n. 11, dichiarandosi d'accordo con Schnackenburg.

Il verbo epselafesan, eyhlajhsan (da yhlajaw) , significa infatti palpare, accarezzare, palpare accarezzando: ovviamente anche nel senso della relazione erotica; tanto che il contrectare della vulgata ha pure la valenza oscena. Secondo la critica letteraria di Bultmann, accettata e condivisa da parecchi altri esegeti, alla prima lettera giovannea soggiace un testo precedente (una fonte) che l'autore ha commentato (Bultmann, ivi, p. 19): ...quasi come un esercizio o commento biblico in un’odierna scuola teologica.

Il commentatore [e quindi redattore finale] è sicuramente un maschio che ha davanti ad es. il celeberrimo primo versetto, lo commenta chiosando nel v. 2 («…riguardo al verbo della vita, e la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo veduta e di ciò vi rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre ed è stata manifestata a noi….»), per poi riprenderlo di nuovo al v. 3 richiamando però, da buon maschio, la vista e l'udito ma tralasciando proprio il tatto. Ma anche se l'autore (commentatore) della prima lettera è un maschio, la fonte-testo precedente non potrebbe riferirsi ad una donna che ha palpato Gesù accarezzandolo nell’intimità? E in maniera ancor più fantasiosa, non potrebbe essere stata una (quella) donna a proclamare che Dio è amore? 

 

 Mauro Pedrazzoli

  

Bibliografia più citata:

 

Rudolf SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni, parte 3ª (vol. 3°), Paideia-Brescia 1981 [nel “glorioso” Commentario teologico del Nuovo Testamento, CTNT], in particolare l’Excursus 18 Il discepolo che Gesù amava 623-642. La dicitura secca, ad es. Schnackenburg 637, si riferisce a questa 3ª parte (3° volume).

Per Gv 11-12, ibid., la 2ª parte (vol. 2°), Paideia-Brescia 1977; in questo caso c’è sempre scritto 2ª parte (2° volume).

 

Pius-Ramon TRAGAN, GIOVANNI: “IL DISCEPOLO PREDILETTO”? Identità e teologia, articolo inedito di 15 pagine.

 

Hartwig THYEN, Das Johannes-evangelium, nell'Handbuch zum Neuen Testament 6, Mohr Siebeck, Tübingen 2005.

 

Heinz SCHÜRMANN, Vangelo di Luca,  Paideia-Brescia 1983.

 

K. H. RENGSTORF, Nuovo Testamento, vol. 3, Il vangelo di Luca, Paideia-Brescia 1980.

 

Michael WALTER, Das Lukas-evangelium, Handbuch zum Neuen Testament 5, Mohr Siebeck, Tübingen 2008.

 

G. R. S. MEAD, Gnosticismo e Cristianesimo delle origini, Fratelli Melita Editori 1988.

 

B. BYRNE [Abbreviazione B.], Lazzaro. Una lettura di Giovanni 11, 1-46, San Paolo 1994.

 

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