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Il Vietnam, la Palestina, l’America Latina, le lotte per la pace, i Tribunali Russell rilanciati da Lelio Basso con Linda Bimbi e le sorelle brasiliane, riempirono gli anni successivi al Concilio. Il ’68 fu la terza rivoluzione della seconda metà del 900. Dopo la rivoluzione del diritto, dopo la conversione del linguaggio della fede, venne col 68 la rivoluzione della vita quotidiana, l’esplodere dei movimenti, il nuovo pensiero femminista, il sogno della libertà, la lotta contro le istituzioni totali, la chiusura dei manicomi, il nuovo diritto di famiglia. Il 68 avrebbe dovuto essere letto come un segno dei tempi; ma così non fu letto né dalla Chiesa né dai partiti, e perciò non poté sprigionare tutte le sue energie. Divorzio e aborto Nel 1974 si ruppe l’unità politica dei cattolici col referendum sul divorzio; i “cattolici del no” con Scoppola, Carniti, le Acli, le comunità di base rifiutarono il sì all’abrogazione preteso da Fanfani e da Gabrio Lombardi. Dopo una notte di preghiera anche il piccolo fratello di Gesù Carlo Carretto disse che avrebbe votato no per compassione verso gli emigrati italiani in Germania rimasti senza famiglia e senza amore. A causa dell’esito del referendum il sistema di potere si incrinò; la democrazia bloccata dalla clausola di esclusione dei comunisti rischiava di non poter essere più nemmeno democrazia. Senza i comunisti, non aveva i numeri. Era venuto dunque il tempo di mettere il dialogo alla prova, come aveva scritto Mario Gozzini: coi comunisti si poteva parlare, e perfino giungere a fare una maggioranza parlamentare con loro. Alla Badia Fiesolana, nel 1976, ospiti di padre Balducci, ci ritrovammo in un centinaio per decidere il da farsi. C’era un invito del PCI a entrare nelle sue liste come indipendenti. Tutti erano d’accordo; alcuni però preferirono continuare il lavoro da intellettuali, altri decisero di mettere le idee nella mischia, di esporsi in prima persona. Non erano solo cattolici: fu decisiva la scelta del pastore Vinay. Nacque così la componente cristiana della Sinistra Indipendente che raggiunse in Parlamento il sen. Ossicini, l’ultimo erede della Sinistra cristiana, e che divenne un punto di riferimento nel dibattito culturale e politico del Paese. In Parlamento il battesimo del fuoco arrivò per me, appena eletto, con la legge sull’aborto. Bisognava uscire dal sistema carcerario e clandestino previsto dal codice Rocco; ma non potevamo nemmeno ammettere la liberalizzazione ideologica dei radicali. Perciò cercammo una soluzione conforme alla Costituzione ma non dimentica del Vangelo, il che voleva dire che contrastava con quella di tutti i gruppi parlamentari, dai democristiani ai comunisti. Il confronto fu molto duro, ma infine riuscimmo a mettere nella 194 quelle cose che nel gennaio scorso la Chiesa ortodossa ha chiesto al governo Medvedev di mettere ora nella legislazione russa: l’obbligo di una consultazione preventiva con la donna, la ricerca di alternative all’aborto, l’introduzione di un consenso informato e di un tempo di riflessione, nonché la creazione di «centri di crisi», che noi chiamavamo consultori, nelle cliniche ostetriche. Per queste proposte il Patriarcato di Mosca è stato ora molto apprezzato a Roma e dall’agenzia di stampa della Santa Sede, mentre allora poco ci mancò che partissero le scomuniche, per non parlare della lapidazione quotidiana da parte dell’“Avvenire”. In quella legislatura Moro, che aveva osservato come nelle elezioni del 1976 c’erano stati due vincitori, la Democrazia Cristiana e il Partito comunista, cominciò a tessere la sua tela per giungere a una democrazia compiuta, superando l’esclusione che metteva fuori gioco un terzo dell’elettorato. L’America non voleva, e c’era in Italia chi minacciava di scendere con le armi nella strada, se i comunisti fossero stati ammessi al governo. Ma le armi già le avevano le Brigate Rosse; e lo sbarramento, interno e internazionale, ad una intesa coi comunisti fu tale che Moro fu ucciso, complice la linea della fermezza che lo votò al sacrificio. Io gridai contro la ragion di Stato che ripeteva la sentenza di Caifa per la quale «è bene che un uomo solo muoia per il popolo», ma il rombo della fermezza coprì ogni voce alternativa. Il tempo della crisi Fu lì che morirono anche la Democrazia Cristiana e il Partito comunista, pur se la loro agonia si protrasse nel tempo. L’ultimo guizzo profetico venuto dalla DC furono il 26 luglio 1990 le dimissioni dal governo Andreotti di cinque ministri della sinistra democristiana (Martinazzoli, Fracanzani, Misasi, Mattarella e Mannino) per protesta contro la fiducia pretesa da Craxi sulla legge Mammì; era la legge che consegnava tutte e tre le reti televisive e un enorme gettito pubblicitario a Berlusconi, che Martinazzoli accusava di essere un «capitalista da Far West»; ma il fedele Confalonieri replicava che andava bene proprio così, che John Ford e il Far West erano la metafora del progresso. Quanto a noi, l’ultima cosa che facemmo fu la nuova legge sull’obiezione di coscienza, talmente bella che subito dopo per rivalsa abolirono il servizio militare obbligatorio. Morendo la Dc e il Pci, morivano anche le prospettive, forse troppo ambiziose, di imprimere un corso diverso alla storia del mondo. La speranza era stata che, a partire dal caso italiano, lo scontro tra le due culture, occidentale e comunista, potesse non risolversi nell’annichilimento dell’una o dell’altra, ma nella ricomposizione dell’unità umana, nel trascendimento degli opposti, nell’incontro fecondo tra le due culture e anzi tra tutte le culture. Invece si partì con la corsa al riarmo nucleare, i missili, Comiso, e quando, nonostante il tentativo di Gorbaciov, lo Stato sovietico crollò, il ministro degli esteri De Michelis venne in Parlamento a dire che la guerra fredda era finita e che noi l’avevamo vinta. Non sapeva che a finire non era solo l’utopia comunista, ma anche il sogno occidentale di una democrazia realizzata, dove la politica moderasse l’economia, il costituzionalismo garantisse i diritti e tenesse entro limiti invalicabili il potere, la giustizia fosse realizzata, e le Repubbliche togliessero gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. Il Novecento finì così con una sconfitta. Non vinse né il socialismo né il costituzionalismo liberale; si ripeté il fato che sempre ritorna, del né né: né con lo Stato, né con le Brigate Rosse, né col comunismo né con la democrazia, né con Berlusconi né con i suoi giudici. Il ripudio revocato Invece venne ripristinata la guerra, il ripudio venne revocato; si cominciò con la guerra del Golfo. Poco prima che cominciassero i bombardamenti, con un gruppo di parlamentari andai a Bagdad, contemplai la città che stava per essere distrutta, e mi feci tradurre in arabo una lettera da far giungere nelle mani di Saddam Hussein, in cui lo scongiuravo, per il suo popolo, per i palestinesi, per la pace, in nome di Allah, di evitare la guerra con gli Stati Uniti: noi sapevamo quale fosse la potenza militare americana, e che cosa poteva voler dire cadere sotto il suo fuoco. Poi ci fu la guerra con la Iugoslavia, la Nato si propose come nuovo sovrano militare mondiale; a Belgrado, dove ero andato con un una delegazione di “un ponte per”, che portava aiuti, rischiammo di cadere sotto il fuoco amico la notte in cui gli americani, che già avevano distrutto la Zastava e i ponti sul Danubio, bombardarono per soprappiù l’ambasciata cinese e l’albergo Iugoslavia che avevamo appena lasciato. I guai vennero poi a cascata. Rilegittimata sul piano mondiale la violenza, in Israele si fece strada l’idea che, pur senza la pace, i palestinesi avrebbero potuto cessare di essere un problema; l’Europa, che era stata la grande costruzione ideale e politica del secolo, non ebbe voce, si infilò nelle maglie economicistiche di Maastricht. In Italia cominciò la demolizione della Costituzione; la democrazia rappresentativa, che finalmente avrebbe potuto funzionare essendo venuta meno la “conventio ad excludendum” dei comunisti, fu abbandonata per essere sostituita alla fine con un Parlamento del principe in un sistema bipolare selvaggio, e cominciò la guerra contro i giudici perché non avesse mai più a ripetersi Mani Pulite e i politici infedeli potessero procacciarsi l’impunità. Costituzione, Concilio, 68 Quando finì il Novecento, finì anche il Millennio. A Roma, come assessore, avevo organizzato un convegno internazionale nel quale avevamo posto la domanda: che cosa di buono e salutare del Novecento dobbiamo portarci dietro nel nuovo millennio, e che cosa dobbiamo abbandonare, perché non ritorni mai più? Questa domanda vale anche oggi, quando la situazione è assai grave, il Novecento è rimasto incompiuto, la democrazia è interrotta, l’Italia ha smesso di essere felice e un fuorilegge si aggira per l’Europa parlando in nostro nome. La mia risposta, che ho voluto darvi qui stasera, è che del Novecento restano, insieme a molti altri doni, quelle tre grandi cose che furono la Costituzione, il Concilio, e il 68. Ma nessuna di queste cose potrà sopravvivere, se non sarà assunta con amore, così come per amore sono state compiute. Non c’è dubbio che alla Costituente uomini come Moro, Dossetti, Basso, La Pira, Lazzati, Calamandrei, e donne come Laura Bianchini, Angela Gotelli, Teresa Mattei, operarono per amore. Non c’è dubbio che Giovanni XXIII ha osato il Concilio per amore. E il ’68 è stato l’utopia dell’amore come alternativa al potere. Oggi si può anche difendere la Costituzione, come noi facciamo, ma senza un amore che abbia l’assillo del bene comune di tutti i cittadini, essa è destinata a sfiorire e a cadere a pezzi, ben oltre l’art. 41; oggi un papa potrà pure rendere formale omaggio al Concilio, ma se non lo assume con amore, anzi con passione, non potrà dare nuova vita alla Chiesa; oggi il 68 è dimenticato e da molti perfino esecrato; ma se le nuove generazioni si incistano nei loro amori privati, e non riscoprono la dimensione comunitaria, politica e pubblica dell’amore, inaridiranno nei loro egoismi. Come diceva Aldo Capitini parlando della nonviolenza, come di una scelta fatta per amore: «ma è l'amore che non si ferma a due, tre esseri, dieci, mille (i propri genitori, i figli, il cane di casa, i concittadini, ecc.); è amore aperto, cioè pronto ad amare altri e nuovi esseri, o ad amare meglio e più profondamente gli esseri già conosciuti. Perciò non è mai perfetto e non finisce mai». Oggi, a dieci anni dall’inizio del nuovo Millennio, siamo preoccupati per i giovani e per i figli dei loro figli che vivranno in questo secolo. Quello che noi possiamo fare è di trasmettere loro gli attrezzi e le speranze che noi abbiano avuto nel Novecento, sapendo però che saranno loro a decidere cosa farne, e anche come dotarsi di attrezzi nuovi. Ogni generazione ha le sue vie. Non si tratta perciò di lasciare ai nostri figli degli altarini alla Costituzione al Concilio e alla contestazione, ma di dire il senso che queste cose hanno avuto per noi. E forse, riecheggiando una vecchia parola, potremmo dirlo così: queste sono le tre cose che rimangono: il diritto, la fede, la libertà; ma di tutte più grande è l’amore. Raniero La Valle
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