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teologia
Che cosa vuol dire «beati»? È una promessa, un augurio, una formula di felicitazione? Che cosa vuol dire «essere perseguitati»? È una condizione che si accompagna inevitabilmente alla vita di un cristiano? Sono domande che implicano non tanto una curiosità culturale quanto la decisione esistenziale che deriva dalla fede. Sono domande che non si possono eludere. Ricca è la bibliografia. La maggior parte degli studi esegetici che seguono sono tratti dai due volumi di Dupont (Le beatitudini, Paoline 1992). Chi sono i perseguitati? Secondo Matteo all’ottava beatitudine ne segue una nona, più ampia e articolata che si scosta dalle precedenti, concise e condensate su un’antitesi. La nona beatitudine interpella direttamente gli uditori, rivolgendosi a loro in seconda persona. Inoltre, mentre le precedenti beatitudini prendevano in considerazione la presente condizione dei sofferenti, la persecuzione di cui parla l’ultima beatitudine è prevista solo per l’avvenire. La «ricompensa» promessa sarà un qualcosa di grande, riservato ai perseguitati, mentre nelle altre beatitudini sarà il godimento della felicità che il Regno procurerà ai diseredati la cui condizione subirà un rovesciamento totale. Gli autori di questa persecuzione sono suggeriti dalla conclusione: «Così hanno perseguitato i profeti». Sono evidentemente i Giudei che perseguitavano ed emarginavano i discepoli di Gesù nel momento in cui veniva redatto il vangelo. Tre espressioni caratterizzano, in Matteo, la situazione prevista per i discepoli: dovranno subire oltraggi, persecuzioni, calunnie. Luca (6,22) adopera quattro termini: i discepoli saranno esposti all’odio, all’esclusione, agli oltraggi, e il loro nome sarà proscritto come malvagio. Un pio giudeo non doveva meravigliarsi dell’odio da parte dei suoi nemici. I salmisti e i profeti spesso si lamentano dell’odio di cui sono vittime. L’esclusione era una pena prevista, per certe trasgressioni, anche nei rituali di Qumrân. «Vi escluderanno dalle sinagoghe» (Gv 9,22; 12,42; 16,2). I discepoli, facenti ancora parte del mondo giudaico, sarebbero stati considerati «giudei infedeli». L’uso dell’espressione «oltraggiare, insultare» è riecheggiato anche in 1Pt 4,14: «se siete oltraggiati per il nome di Cristo, beati voi!». Così pure in Atti 5,41: «contenti di essere stati giudicati degni di patire oltraggi per il Nome». «Ripudieranno il vostro nome come infame». Così Luca. L’espressione sarebbe la traduzione letterale di un originale aramaico, di cui Matteo fornisce un equivalente più intelligibile: «Diranno ogni sorta di male contro di voi». In Luca alle quattro beatitudini seguono quattro «guai» (6,24-26). Alla beatitudine nei confronti dei perseguitati corrisponde la maledizione nei confronti di persone di cui tutti dicono bene. Il confronto suscita perplessità. Ci si aspetterebbe che siano maledetti i persecutori. Inoltre le lodi non sono motivate e non si parla di un castigo. La sola motivazione della maledizione risiede nel fatto che così una volta venivano trattati i falsi profeti. Molti studiosi ipotizzano che i «guai» siano stati inseriti da Luca. Così anche Dupont. Schürmann (Il vangelo di Luca, Paideia 1983, p. 557) sostiene invece che la fonte sia prelucana. Se la beatitudine ai perseguitati (e la corrispondente maledizione in Luca), rimanda a un contesto di conflitto tra chiesa e sinagoga, c’è da osservare che Luca parla di «uomini» come persecutori e di «tutti gli uomini» come adulatori. Nei vari discorsi che compaiono nelle cosiddette apocalissi sinottiche (e in Matteo nel discorso missionario) l’espressione ricorrente è «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Matteo 10,22; 24,9; Marco 13,13; Luca 21,17). Matteo specifica: «da tutti i popoli». Sono citate le «sinagoghe», ma anche «governatori e re». La giustizia di Dio Che vuol dire «perseguitati per la giustizia»? Che cosa è giustizia? Quella di Paolo quando si considerava «irreprensibile quanto alla giustizia»? O quando giudicava il suo passato zelo come «spazzatura»? (Fil 3,6-8). Si tratta forse della giustizia di chi ignora la giustizia di Dio «cercando di stabilire la propria»? (Rm 10,3). Secondo Matteo, la giustizia che i discepoli di Gesù devono realizzare è una giustizia sovrabbondante, eccessiva, senza limiti: «Se la vostra giustizia non andrà oltre quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (5,20). E gli esempi forniti appaiono davvero esagerati: non adirarsi, non guardare una donna per desiderarla, porgere l’altra guancia, amare i nemici. Non è questo un comportamento che genera disagio, fastidio, al limite odio? «Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere visti da loro… non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (6,1,3). In un mondo tutto teso al risultato, al successo, alle prestazioni, una tale testimonianza non può che suscitare riso e disprezzo. «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (6,33). La ricerca del regno si oppone all’inquietudine nei confronti di tutti i beni terreni, compresi i più necessari alla sussistenza. «Inquietarsi, preoccuparsi» (merimnân) significa essere ancora sulla lunghezza d’onda della «nostra giustizia». Anche il «cercare» può essere visto secondo due aspetti. «I gentili, i quali non perseguivano la giustizia, hanno conseguito la giustizia, quella che proviene dalla fede. Israele invece, che perseguiva una legge di giustizia, non è giunto a praticare la legge» (Rom 9,30-31). La contrapposizione tra la giustizia nostra e quella di Dio viene espressa da Paolo attraverso il contrasto fede/opere. E cercare per fede, cercare il regno di Dio e la sua giustizia, non è una ricerca «nostra», frutto dei nostri sforzi, quanto piuttosto la disponibilità ad «essere cercati, essere trovati», come indica Paolo citando Isaia 65,1: «Sono stato trovato da coloro che non mi cercavano» (Rm 10,20). La contraddizione decisiva non deriva dal contrasto «giustizia-ingiustizia» ma dalla «giustizia di Dio» diametralmente opposta a quella «nostra», a nostro uso e consumo. Chi si chiude nel cerchio della «propria» giustizia non può che «perseguitare, odiare, insultare, emarginare» chi cerca la «giustizia di Dio». Forse una forma di persecuzione è la lotta che ognuno deve ingaggiare contro se stesso per superare la tentazione di fare la sua volontà e non quella di Dio, come l’angoscia “agonica” di Gesù al Getzemani. Il vangelo di Tommaso (n. 75) la presenta come una beatitudine: «beati coloro che sono stati perseguitati in cuor loro! Essi sono quelli che hanno veramente conosciuto il Padre». Un mondo senza volto, senza ragione, senza vita «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi…Hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione» (Gv 15,18-20.24-25). «Mondo» per Giovanni, è l’insieme di coloro che rifiutano Gesù, è la somma delle preferenze date alla tenebra, anche se l’invio del Figlio ha come scopo che il mondo non sia giudicato ma salvato (3,17). Ma fin dall’inizio «il mondo non lo riconobbe» (1,10). Gelosamente chiuso in se stesso, il mondo ama solo coloro che gli appartengono, la sua cosa. Il neutro (tò ìdion) che li designa è intenzionale, in contrasto con l’uso di hoi ìdioi per i discepoli (13,1). Di fronte agli attori positivi (i discepoli, Gesù, il Padre) il mondo è un’entità senza volto. Gesù ha scelto i suoi discepoli sradicandoli dal mondo, così come la vite Israele (Sa. 80,9) è stata divelta dalla schiavitù d’Egitto. (Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni vol.III, San Paolo 1995, pp. 241-42). Il mondo non può che odiare Gesù e i discepoli: hanno fatto irruzione nella sua tranquilla schiavitù, nella sua conformistica mancanza di identità. Per il mondo, il diverso è «insopportabile solo al vederlo perché la sua vita è diversa da quella degli altri» (Sap 2,14-15). Un modo particolarmente violento di cercare una forte identità artificiale è la costruzione di un Dio intollerante volto a distruggere chi non gli rende il culto dovuto. «Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (16,2). Si tratta certo della persecuzione da parte dei giudei «osservanti», anche se in seguito si parla di «chiunque». Testi rabbinici del II secolo (Numeri. Rabbà) affermano che «colui che versa il sangue di un empio è simile a colui che offre un sacrificio» (Lèon-Dufour, op. cit., p. 261). È proprio quanto avrebbe sentenziato, un millennio più tardi, il mistico san (?!) Bernardo di Chiaravalle: «Un soldato di Cristo presta servizio a Cristo quando uccide… Della morte del pagano il cristiano si gloria perché Cristo viene glorificato» (De laude novae militiae, P.L. 182, col. 924). Dario Oitana (continua)
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