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chiesa
385 - Mons. Nosiglia alla Chiesa di Torino |
Come olio sull'acqua di uno stagno
A un anno circa dalla sua nomina, dopo aver molto ascoltato e anche, brevemente, consultato gli organismi diocesani, Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino, invia a tutti noi «fratelli e sorelle carissimi» la prima lettera pastorale, in bella veste illustrata: Sulla tua parola getterò le mie reti. |
Il testo inizia, dopo una doverosa premessa di circostanza, con una puntuale e appropriata esegesi del racconto lucano della «pesca miracolosa» (Lc 5,1-11). È il mestiere di chi presiede alla predicazione della Parola che viene illustrato con l'immagine del «gettare le reti». Immagine evangelicamente legittima e fondata, ma non innocua o neutrale se, nella situazione attuale di diaspora dei fedeli e di rivendicazione di autonomia dei cittadini, viene privilegiata rispetto a quella del «buon pastore» e ancor più del «seminatore», collegate, la prima al tema delle pecorelle smarrite, la seconda alla diversa e spontanea capacità produttiva dei terreni, su cui cade il seme. Ma tant'è: è una pagina spirituale, bella e magistralmente proficua per ciò che dice, se non per quel che tace.
Il resto segue con composta semplicità e chiarezza, come il corso sereno di un fiume, che incontra pochi ostacoli: qualche rapida, alcuni mulinelli o anse prive di sbocco. La società torinese, su cui ci si risparmia ogni tentativo di analisi, onde evitare «lunghi discorsi di tipo sociologico» (p. 19) non va certo allarmisticamente descritta come un «mare in gran tempesta». Essa però non può neppure essere scambiata per un lago, increspato da piccole onde, su cui la navicella, ben governata, della chiesa ha il compito di spargere olio, con alcune doverose e stringate raccomandazioni. Possiamo citarle tutte, perché stanno nel palmo di una mano: «Educarsi a stili di vita più sobri, onesti, giusti e solidali … Promuovere i valori fondamentali del diritto alla vita (dalla nascita alla morte naturale) …; dell'identità naturale e rivelata della famiglia e del matrimonio tra un uomo e una donna; la legalità e l'etica dei comportamenti (privati e pubblici) …; un giusto equilibrio tra diritti e doveri …; lavoro per tutti, giovani in particolare …; la solidarietà per i poveri, l'accoglienza e l'integrazione di persone e comunità portatori di culture, religioni e tradizioni diverse» (p. 21).
Nessuno può negare che sono buone indicazioni, come del resto sono buone le indicazioni, date nelle pagine precedenti, sulla chiesa come comunità educante (pp. 13-17). Il problema è che esse restano, in ogni caso, indicazioni di principio. Difettano sforzi di concretizzazioni pastorali. Non emerge e non si delinea alcun vero criterio di priorità. Non si fa il punto sui nodi effettivi da risolvere, sulle strategie da applicare. La lettera cita la Camminare insieme di Pellegrino, ma tace sui modi di tradurre in pratica sociale ed ecclesiale la scelta di privilegiare i poveri, poco oltre richiamata in un bel capoverso, destinato a restare una cattedrale in un deserto (p. 23).
Tutto chiesa, e solo chiesa ecclesiastica
Infatti, da quel momento in poi, il vescovo concentra e rinchiude il suo sguardo sui problemi dell'amministrazione interna della vita della chiesa. Dedica un discreto capitolo a sottolineare l'importanza di affiancare alla pastorale dei giovani una vera pastorale degli adulti, che comprenda, insieme a una catechesi adeguata, anche una loro valorizzazione e responsabilizzazione nella conduzione della vita parrocchiale e diocesana. Il tutto senza indicare strumenti oggettivi di rappresentanza laicale più efficaci di quelli presenti e sempre abbandonando alla buona volontà degli operatori locali, preti di massima, la soluzione d'ogni problema toccato, naturalmente raccomandando di migliorare il coordinamento reciproco delle iniziative.
Larga attenzione, piena di ragionevole buon senso nell'indicare vie per migliorare il funzionamento dell'esistente, è poi data alla formazione degli sposi, alla preparazione dei matrimoni, alla pastorale familiare, alla cura per il battesimo e la catechesi dei bambini. Mai che si evidenzi qualche questione scottante relativa alla scelta crescente delle coppie a rinunziare al matrimonio, compreso quello civile, al diminuire delle richieste del battesimo, alla tendenza, presente anche tra i credenti, a ritardarne l'età, alla crescente indifferenza dei giovani alla vita della chiesa e al messaggio cristiano, alle questioni poste dal pressante confronto con l'islam e con la diffusione di altri credo religiosi. Il cenno all'ecumenismo e all'interreligiosità occupa sei righe (p. 31).
Nella quinta parte, dedicata alla «Comunione nelle unità pastorali», si accenna alla gravissima questione della crisi in cui la scarsità del clero, aggravata dal rifiuto della gerarchia di prendere in considerazione l'ordinazione di coniugati e di donne, sta precipitando le zone di montagna, di campagna e anche alcune periferie cittadine, con sempre più numerose comunità lasciate prive di cura pastorale, in taluni casi persino di messa domenicale. La lettera sfiora questo vero dramma di tante piccole e medie comunità, destinate con la morte degli ultrasessantenni a sparire del tutto, dramma che meriterebbe da solo un intero sinodo diocesano, con un cenno rapidissimo, stampato in minuscoli caratteri, dove ci si limita a suggerire l'uso delle «diverse canoniche disabitate» per convincere qualche diacono, religioso o famiglia credente a occuparle e «svolgervi compiti di animazione e promozione pastorale della comunità» (p. 44).
In chiusura, prima del «Credo» dell'Arcivescovo, molto personale e vagamente agiografico, si enunciano i temi che potranno essere presi in esame, «anche mediante le assemblee diocesane». Essi sono: «l'iniziazione cristiana dei fanciulli e la formazione dei giovani, con specifica attenzione all'orientamento vocazionale. L'alleanza educativa nel territorio in particolare con la scuola e l'Università. L'impegno dei cristiani adulti nella fede missionaria per rendere la società “comunità educante”. La formazione all'utilizzo dei mass media e dei nuovi linguaggi» (p. 44).
Che resta da dire, se si vuole evitare un sarcastico «Amen!», se non che il vescovo è stato male informato sulla chiesa torinese, la quale non è certo il «tesoro nascosto in un campo» di evangelica memoria, ma neanche una chiatta immobile, arenata in uno stagno, abitato da carpe boccheggianti?
Il primo documento firmato dal vescovo che, con la visita ai campi Rom e con alcuni gesti e interventi pubblici, aveva fatto presentire una significativa sensibilità sociale e spirituale, ci lascia quindi una certa delusione per la scarsa adeguatezza del testo ad affrontare la grave situazione di crisi e di necessità di rinnovamento che caratterizza la realtà sociale ed ecclesiale della nostra città. Ma anche la veste editoriale della lettera, che certo non è dovuta al vescovo ma al suo entourage, è sorprendente: su dieci pagine occupate da fotografie, che illustrano il testo (e ogni esperto di media e dei nuovi e vecchi linguaggi comunicativi sa che le illustrazioni fanno tutt'uno col testo e col messaggio), cinque riproducono miniature tratte da un codice evangelico antico, e cinque sono occupate da fotografie del vescovo, tutte con mitria o zuccotto e abiti da cerimonia, mentre a ciascuno di noi è capitato di vedere immagini del vescovo in abiti civili, persino alla presa col fango e con la polvere dei campi e delle strade.
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