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teologia
Il teologo Vito Mancuso apre il suo ultimo saggio, Io e Dio, notevole per sincerità e chiarezza, con questa bella immagine simbolica: «Mi alzo con la mente in un punto al di sopra del pianeta e lo guardo dall’alto, come se fosse la prima volta, come quando vedo un film e mi chiedo qual è il suo messaggio. Qual è il messaggio della vita degli uomini sulla terra? Con la mente là in alto, libera dai consueti schemi mentali, nuda di fronte al mistero dell’essere, in questo momento, immagine di ogni altro momento della storia, guardo gli uomini miei simili alle prese col mistero dell’esistenza. ... Vedo il bene e il male che gli uomini e le donne sono capaci di generare e che spesso è quasi impossibile distinguere; vedo lo scorrere del tempo che corrode ogni cosa, e il prodigio di opere umane capaci persino di vincere il tempo. ... Vedo tutto questo, e molte altre grazie e molte altre deformità, e mi chiedo se c’è un senso unitario di questo teatro, e qual è ... Rispondere a questa domanda significa parlare di Dio» (Garzanti 2011). Visioni dal cielo Alzo gli occhi dal libro, guardo oltre i tetti delle case, dall'alto del mio nono piano vedo nel cielo terso di questo ottobre torinese, spazzato dal föhn, stagliarsi il profilo grigio-ferro della catena delle Cozie colla piramide acuta del Monviso. Mi chiedo quanto coraggio e capacità di universale giudizio deve avere un teologo per potersi porre dal punto di vista di chi, come un Dio onnisciente, libero da ogni contingenza spazio-temporale, abbraccia in un unico orizzonte, non solo gli infiniti luoghi e l'intero ciclo della storia, ma i segreti dei cuori, i disegni, i dolori, le angosce e le speranze, i pensieri e le azioni degli uomini. Mi domando se, vedendo tutto ciò che il teologo vede, un Dio si chiederebbe: «Ma chi sono io, che starei a fondamento di tutto ciò?» o non piuttosto: «Chi è l'uomo, questo mistero che abita la terra?». Resto un attimo perplesso. Poi penso che interrogarsi su “chi è Dio” o su “chi è l'uomo” significa, forse, porsi la stessa domanda, visto che a Dio attribuiamo il detto: «Facciamo l'uomo a nostra immagine» e che molti teologi, sulle orme di Feuerbach, non disconoscono di «fare Dio a propria somiglianza». Quindi concludo che, per chi sente l'urgenza di riflettere su Dio e sull'uomo, il compito non è contrapporsi o criticare la fatica che gli altri fanno sulla sua stessa strada, ma cercare di accompagnarli e, per quanto può, aiutarli e farsi aiutare. Provo a scavare nel semplice orizzonte del mio vivere quotidiano e mi accorgo che la mia domanda sull'uomo e su Dio resta ancorata al «povero e assai limitato fossato della storia», per parafrasare Lessing. Nulla mi consente di salire alla superna condizione del limpido, sereno e impregiudicato sguardo dal “sopra”. Solo mi è possibile ricorrere alla mia esperienza, ahimè anch'essa terrena e quindi limitata e preconcetta, di lettore e di cultore della Bibbia. Mi accorgo allora che sempre questa condizione di osservatore superiore è limitata a Dio, non solo, ma a un Dio collocato in un orizzonte mitico e sempre collegato a un Suo reale o potenziale operare creativo o direttivo. Un Dio il cui “guardare”, insieme al “fare” e al “dire”, mai è un effettivo fare, vedere e dire di Dio, ma un fare, vedere e dire che l'uomo a Lui attribuisce. Ma soprattutto mi rendo conto che tale “guardare”, “vedere” ed eventualmente “dire” di Dio una sola volta abbraccia l'universo, quando Egli, più che constatare, auspica la piena bontà della creazione, prima che essa inizi il suo autonomo cammino (Gen 1, 31). Tutte le altre volte tale guardare è settoriale e comporta per lo più il riconoscimento che qualcosa nel mondo non va per il verso giusto e richiede un Suo intervento correttivo, che risulta sempre poco risolutivo. Fin dalla Genesi (Gen 1-11,13), dunque, l'uomo biblico, che produce, elabora, scrive, per sottoporli a continue reinterpretazioni, i simbolici racconti della creazione e dei primi passi costitutivi dell'umana condizione, presenta Dio come Colui che risponde al suo bisogno di capire il come e il perché della sua vita, e lo evoca nella forma di Colui che produce o ordina, a partire dalla sterilità del vuoto o dalla confusione del caos, quanto di buono c'è nel mondo, come Colui che cerca operativamente il bene ed è in lotta col male, ma non ha il pieno controllo né dell'uno né dell'altro, proprio come l'uomo, che Gli sta a fronte: «Abisso che abisso invoca» (Sal 42,8). Terrestri incontri e fuochi divini Il rapporto tra l'uomo e Dio è, per gli autori e per i lettori della Bibbia, originario, tanto da essere pensato intrinseco addirittura a Dio stesso, il quale starebbe all'origine della potenziale conformità dell'uno all'Altro (Gen 1,29; 3, 5,22). Ma l'Uno e l'altro sono anche per ambedue un problema, un'interrogazione costante, ben più che una risposta, come mostra bene il conflitto e il dialogo tra sordi del libro di Giobbe e la “confessione” di Geremia sul dramma della sua vocazione (20,7-18). Ci sono poi altri testi in cui la ricerca di Dio da parte dell'uomo biblico mette in scena l'incontro tra l'umano bisogno di futuro e di bene e il potenziale soccorso che gli viene non dalle sue capacità ma dalla grazia, dal dono di un Dio, che sta nel suo orizzonte, ma è altro da lui e a lui inassimilabile. Ne ricordo alcuni. Il desiderio, quasi impossibile, di Abramo di generare un clan numeroso, che si traduce in invito a lasciare la casa del padre per una terra sconosciuta (Gen 12); l'angoscia e la paura per il futuro del transfuga Giacobbe, che sulle alture di Betel, nella notte della fuga, diventano il sogno della scala che sale al cielo e gli porta la promessa di prosperità (Gen 28,10-15); e, per lo stesso, al guado dello Jabbok, prima dell'incontro con l'irato e potente fratello, l'oscura lotta dove Giacobbe, agguantato da Dio, si vede rifiutare la rivelazione dell'angelico nome, ma ne ottiene lui uno da popolo, oltre a una ferita all'anca che l'azzoppa per sempre (Gen 32,25-33); infine l'incontro di Mosè col roveto ardente, alle falde desertiche del Sinai (Es 3). Ecco il testo su cui voglio fermarmi: fondatore della fede biblica che, in una continua rilettura interpretativa, cammina nella storia e, nello sviluppo dell'esperienza e della cultura, cresce fino a noi e oltre noi procede. Nel roveto ardente è Mosè che brucia nell'esilio a cui l'ha costretto l'omicidio di un kapò egiziano per l'ingiusta violenza compiuta verso uno schiavo israelita; brucia la coscienza di chi è cresciuto come principe degli oppressori e non sa cosa deve scegliere tra il ritorno all'ordine e la ribellione. Ma è anche Dio che brucia, in Mosè e a lui di fronte, il Dio dei Padri, che ha abbandonato il Suo popolo alla schiavitù e ora sente salire a Sé il grido delle vittime. È Dio che brucia, risvegliato alla divina natura di cercatore del bene dal disvelarsi improvviso della grandezza del male e del dolore, cresciuti sotto i suoi occhi, senza che Lui muovesse un dito o anche, forse, se ne rendesse conto. L'a-teologia di Dio Ecco la scintilla di fuoco che fa incontrare l'io di Mosè con l'Io, se così possiamo dire, di Dio e li fonde in un unico principio attivo, tanto che diventa auspicabile completare il tradizionale «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe» con «Dio di Mosè» e , fatti i dovuti conti col tempo, secoli dopo, aggiungere: «Dio di Gesù». Diventa auspicabile con l'avvertenza che l'io umano dei vari rappresentanti terreni di Dio a Dio si associa come l'io di un Dio storicamente e umanamente qualificato. Si associa per formare un'immagine di Dio, presente nel nostro occhio e nel nostro cuore, attiva nella storia attraverso di noi come Dio, ma che mai possiamo trasformare nel Suo vero nome e nella Sua propria immagine, nel Suo essere eterno, nella forma fissa di un Suo stare concettuale metafisicamente definito. A impedircelo è la trascendenza di Dio, che in noi si manifesta nell'autocoscienza esistenziale e teologica della Sua alterità amica; autocoscienza di chi ha vissuto l'esperienza di Mosè e poi quella di chi ce l'ha trasmessa, trasformata in racconto e in interpretazione del racconto. È l'autocoscienza di uomini, aperti, nella loro confessata limitatezza e finitudine, all'infinità misteriosa di Dio, che si fa riconoscere come: «Io sono colui che c'è» (3, 14) e c'è per spingerci alla liberazione dall'ingiustizia e dal male, non per essere noi o nostro. Altrimenti perché, nella grande e pubblica teofania del Sinai, dovremmo averGli messo in bocca la proibizione, dopo l'autoproclamazione a nostro liberatore, di farci di Lui immagini terrene e celesti da servire? Perché, dopo averGli attribuito l'ordine di tutelare il Suo nome con l'impronunciabilità, avremmo finito col trasformare il nostro desiderio religioso di appropriarci della sua benevole potenza nell'obbedienza al decalogo dell'agire in vista della realizzazione della libertà e della giustizia per tutti (20,1-21)? Perché mai il Dio antico e neo-testamentario dovrebbe essere descritto come un Dio che parla per bocca di uomini, accetta di presentarsi come il loro Dio e in Gesù Cristo assume forma di Verbo incarnato, sua umana esegesi («exegèsato»: Gv 1,18), ma sempre si nega al nostro sguardo, alla nostra sete di un nome in se stesso Santo e santificante? Sono domande che possono essere diversamente poste e avere esiti teologici diversi, ma a cui solo così mi riesce di rispondere: perché Dio è inevitabilmente per noi quella dimensione trascendente dell'essere che è alla nostra portata, che dialogando col nostro io prende storicamente e culturalmente forma, ma che contemporaneamente sempre si sottrae a noi, come a ogni altra creatura, per spingerci ad essere ciò che ancora non siamo. Perché Dio è quella dimensione trascendente dell'essere che ci sta sempre di fronte nell'altro, ma sempre sfugge alla nostra presa assimilatrice; che si dà a conoscere come l'Inconoscibile, come colui che nessuna nostra teologia può comprendere e che per comprenderSi mai sembra sentire il bisogno di una Sua teologia che gli dica, una volta per tutte, chi è. Aldo Bodrato
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