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Cattolici «inquieti» a Torino

Si è tenuto a Torino e a Lanzo il 4-5 novembre scorsi un convegno su Ettore De Giorgis, una singolare figura di cristiano, morto nel 1991. Nel corso delle giornate di studio, Marta Margotti ha presentato un inquadramento del cattolicesimo torinese durante l’ultima parte dell’episcopato del cardinal Fossati, di cui anticipiamo una sintesi. Nel prossimo numero presenteremo un ritratto di De Giorgis.

 

Scattare una fotografia della chiesa torinese nei vent’anni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale appare particolarmente difficile, sia per la molteplicità di soggetti da riprodurre, sia per il loro continuo movimento, sia per la pluralità di punti di vista dai quali si può osservare la scena. Nonostante l’apparente staticità dell’immagine, è possibile rilevare la presenza di luoghi e personaggi che possono essere considerati come particolarmente significativi di questa «inquietudine» cattolica. Con questo termine, evocativo e vago, si intende definire un atteggiamento o, meglio, una sensibilità che esprimeva una volontà di rinnovamento al tempo stesso religioso e sociale che – è bene sottolineare – non caratterizzò la maggior parte della chiesa torinese. In alcuni casi si trattò di singole personalità, in altri di piccoli gruppi di credenti, in altri ancora di militanti impegnati nell’associazionismo cattolico che intravedevano i limiti della mobilitazione di massa prevalente nella chiesa di Pio XII e che, lontani da visioni tradizionaliste, ritenevano necessario inserire attivamente il cristianesimo nella società moderna.

L’uscita traumatica dal regime fascista e dal conflitto mondiale rappresentò per il cattolicesimo torinese uno snodo fondamentale che ebbe ricadute notevoli anche sulle scelte compiute negli anni successivi. Nel dopoguerra, si affermò diffusamente una visione politica moderata che, unita alla serrata battaglia contro il comunismo, caratterizzò l’attività di pressoché tutte le associazioni cattoliche, strette a fianco della Democrazia cristiana per tutti gli anni della «guerra fredda». Non si comprenderebbe, però, la complessa articolazione della chiesa torinese se si limitasse la ricostruzione soltanto al lato politico che pur ebbe una notevole rilevanza nelle vicende del cattolicesimo locale. Esisteva una diffusa rete di istituzioni e di gruppi che copriva e collegava tutto il territorio diocesano con attività di tipo spirituale, formativo e caritativo, soprattutto attraverso le parrocchie e gli oratori, le congregazioni religiose e le loro numerose scuole, la stampa religiosa e le case editrici, ma soprattutto attraverso le associazioni del laicato cattolico che durante gli anni del «miracolo economico» potevano contare su migliaia di aderenti.

Proprio le dimensioni e la velocità dell’espansione economica e urbanistica, con l’arrivo di centinaia di migliaia di immigrati, rappresentarono per la chiesa torinese una sollecitazione che aveva pochissimi termini di paragone nel resto d’Italia. Intellettuali e operai erano i gruppi sociali ritenuti più distanti dalle istituzioni cattoliche, ma anche quelli che apparivano più attivamente impegnati nella costruzione della società moderna. Si trattava di un dato ancor più evidente a Torino, dove nella grande industria manifatturiera (con il ruolo determinante svolto dalla Fiat) e nei numerosi centri di cultura erano luoghi i cattolici apparivano, se non del tutto assenti, non in grado di condizionarne le scelte. Soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta, la situazione di incertezza nel governo della diocesi, dovuta anche alla salute malferma del cardinal Maurilio Fossati (che muore nel 1965), e in seguito alcune maldestre scelte compiute dal vescovo coadiutore, mons. Felicissimo Tinivella, contribuirono a far emergere le tensioni che già erano maturate nel cattolicesimo torinese negli anni precedenti.

Se si volesse disegnare una mappa dell’«inquietudine» cattolica nella diocesi torinese si noterebbe una puntiforme presenza di persone, iniziative e gruppi, ora collegati tra loro dalla vicinanza di percorsi, ora all’apparenza privi di connessioni significative, ma accomunati dalla percezione della inadeguatezza del cattolicesimo di fronte alla società moderna. Si potrebbe parlare di “frammenti” del cattolicesimo, mossi da ispirazioni diverse, insoddisfatti del conservatorismo della chiesa di Pio XII e dell’attivismo tradizionalista incarnato dall’Azione cattolica di Luigi Gedda, con la perdurante confusione tra dimensione politica e dimensione religiosa.

Non fu un caso, quindi, che il disagio verso contenuti e forme della presenza cattolica ritenuti incapaci di rispondere alle esigenze di una società in rapida trasformazione sia maturato soprattutto negli ambienti più direttamente a contatto con i ceti che incarnavano la modernità. La ricerca di nuove modalità di azione e di riflessioni religiose più vicine alla sensibilità “moderna” non fu comunque un fatto esclusivo di circoli ristretti e di personaggi isolati, ma si sviluppò anche all’interno di associazioni di notevoli dimensioni, come la Gioventù di Azione cattolica e le Acli. Soprattutto dopo la battaglia elettorale del 1948, tra alcuni militanti emerse lentamente la consapevolezza dei limiti di un’azione concentrata quasi unicamente nella battaglia contro il comunismo. Diventò progressivamente più chiara la distanza esistente tra la concreta realtà della diocesi e i programmi di azione dettati dai rispettivi centri nazionali, ma anche i limiti della guida dell’anziano cardinal Fossati, tanto da rendere pressante la necessità di un rinnovamento dai contorni spesso indefiniti, ma che si percepiva dovesse essere condotto sul piano organizzativo, culturale e teologico.

I «raggi operai» di Sereno Regis. A Torino, l’esigenza di avvicinare i lavoratori dell’industria si era tradotta già durante la guerra nella costituzione di «raggi operai» all’interno della Gioventù cattolica, con l’azione soprattutto di Domenico Sereno Regis, che puntavano a sostituire i circoli su base parrocchiali con gruppi in grado di aggregare i ragazzi nei luoghi di lavoro e nei quartieri. Non era soltanto una questione organizzativa: superare la struttura su base territoriale dell’Azione cattolica (ma, in senso più ampio, della chiesa) significava rivedere radicalmente le forme tradizionali della presenza cristiana, pensate più per un contesto rurale che per l’ambiente urbano, ma rappresentava anche un impulso a riflettere sul linguaggio e sui contenuti della fede da trasmettere. Annunciare un cristianesimo dinamico, sensibile alle richieste di libertà e di giustizia sociale diffuse tra i lavoratori, attento più alla formazione dei singoli che alla mobilitazione di massa, in grado di cogliere gli elementi positivi presenti nella società moderna, cozzava con un’impostazione giocata in gran parte sulla dimensione gerarchica della comunità cristiana, sulla difesa delle prerogative della chiesa e sul mantenimento dell’ordine sociale, anche attraverso alleanze con i circoli politici più conservatori.

Cappellani del lavoro e preti operai. Altre iniziative, che pur apparivano legate a impostazioni all’apparenza scarsamente innovative, si rivelarono luogo di fermentazione di riflessioni particolarmente originali. I cappellani del lavoro furono uno di questi luoghi. Sulla base di accordi stipulati con le singole aziende, preti diocesani e religiosi garantivano l’assistenza religiosa ai lavoratori direttamente nelle officine e negli uffici. Il contatto diretto con gli ambienti di fabbrica e la conoscenza delle pesanti forme di condizionamento e di discriminazione dei lavoratori da parte delle aziende favorirono tra alcuni cappellani del lavoro, soprattutto dalla metà degli anni Cinquanta, la progressiva maturazione di un’idea di presenza della chiesa tra gli operai più attenta alle esigenze di giustizia sociale e di testimonianza cristiana, anche sulla scia delle esperienze francesi della mission ouvrière e dei preti operai. Le tensioni maturate tra cappellani del lavoro e dirigenza della Fiat portarono nel 1962 all’espulsione dagli stabilimenti di don Toni Revelli e don Carlo Carlevaris, segnale del crescente deterioramento dei rapporti tra i cattolici “inquieti” e vertici del potere politico ed economico della città.

Sinistra Cristiana di Balbo e Centro studi sociali. Nei mesi immediatamente seguiti alla fine della guerra, un interesse più spiccatamente rivolto al proletariato aveva già caratterizzato, in campo politico e culturale, gli esponenti della Sinistra Cristiana che a Torino si aggregarono intorno alla figura del filosofo Felice Balbo. Non era soltanto l’opposizione alla Dc a segnare l’attività di questi gruppi – che rimasero comunque minoritari nell’area torinese – ma anche la volontà di introdurre alcuni elementi di riforma religiosa all’interno della chiesa. Su temi simili e recuperando esplicitamente l’eredità del pensiero di Felice Balbo, si mosse il Centro studi sociali, promosso dal 1959 da giovani cattolici di varia estrazione, che mostrò particolare attenzione ai problemi dei lavoratori-studenti, attraverso un’azione sociale di stampo laico che si muoveva dichiaratamente oltre la logica politica e partitica.

Fuci, Laureati cattolici e Gruppo Mounier. Nonostante l’estrema cautela con la quale solitamente agivano le organizzazioni “ufficiali” del cattolicesimo torinese, la Fuci e i Laureati cattolici proposero percorsi di formazione per i propri aderenti che si interrogavano su alcune delle questioni emergenti della cultura dell’epoca, guidati da alcuni sacerdoti dai molteplici interessi, tra cui padre Ceslao Pera, assistente ecclesiastico dei Laureati cattolici, don Pippo Gallesio, il canonico Francesco Gosso e padre Enrico di Rovasenda. Con sottolineature anche molto diverse, il giurista Giuseppe Grosso, l’economista Silvio Golzio, i filosofi Augusto Del Noce e Carlo Mazzantini incarnarono la generazione che nell’immediato dopoguerra si fece portavoce del personalismo francese e della rivista «Esprit» nell’area torinese, con una frequente vicinanza con le posizioni di Dossetti e di «Cronache Sociali». A questo filone di pensiero attinsero alla fine degli anni Cinquanta i giovani universitari (tra cui Ettore De Giorgis) raccolti intorno al Gruppo Mounier che intendevano porre a confronto la cultura cattolica con il pensiero laico e socialista, con fitte discussioni sulla laicità della politica e sul ruolo dei laici nella chiesa. Si trattava di iniziative che si concentravano quasi esclusivamente nella città di Torino, dove maggiori erano le possibilità di contatti, le sollecitazioni culturali e gli stimoli provenienti dalla “grande trasformazione” economica e sociale. Proprio la vicenda di De Giorgis, attivo a Lanzo e nel circondario, rende evidente però come tali riflessioni attecchirono e si svilupparono anche nella “periferia” della diocesi, trovando un terreno fertile pure in contesti all’apparenza più lontani dai “centri” intellettuali e organizzativi della chiesa torinese.

Il Concilio vaticano II arrivò a Torino in modo imprevisto, forse soltanto un po’ meno inatteso che nel resto d’Italia. Non fu in ogni caso un esito scontato delle vicende che si erano sviluppate negli anni precedenti. Durante il suo episcopato, Michele Pellgrino raccolse in parte ciò che era già maturato nella chiesa di Torino e non ebbe timore di guardare dentro le tensioni che si erano accumulate, silenziose e sommerse, prima del suo arrivo: ci sono rare stagioni – e tale fu quella vissuta intensamente da Ettore De Giorgis – in cui i profeti riescono a raccogliere i frutti dei semi che hanno gettato.

Marta Margotti

 

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