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bibbia
Chi legge è talvolta portato a condividere le affascinanti tesi proposte, mentre altre volte rimane perplesso e per niente convinto. Ma, anche in quest’ultimo caso, il lettore è costretto a reagire, a seguire il testo parola per parola, a verificare i riferimenti, a consultare altri commentari, a riflettere. Nelle righe che seguono ho preso in esame solamente quello che mi appariva più coinvolgente e innovativo, scartando da una parte quanto era ovvio e condiviso, dall’altra quanto mi appariva una sospetta manipolazione del testo. La “politica” dei demoni e dei discepoli Indemoniati: sono davvero posseduti dal diavolo? Oppure sono colpiti da gravi disturbi psichici? L’ipotesi presentata è che i loro mali rientrino in categorie ideologiche e sociali. Nel caso dell’uomo posseduto da uno spirito immondo nella sinagoga di Cafarnao (1,23-27), si fa notare che il personaggio (forse simbolico) fa parte delle persone riunite nella sinagoga, ed è probabilmente un alunno degli scribi. Avendo constatato come Gesù insegnasse con autorità, vede in lui una minaccia non solo per sé ma anche per gli scribi: «Sei venuto a distruggerci?». Riconosce nel nazareno un consacrato e vorrebbe che si mettesse al servizio dell’istituzione religiosa e della causa nazionalista. Ma l’esorcismo di Gesù porta a espellere (con strazio e grida) l’ideologia giudaica da quell’uomo. Una situazione apparentemente diversa si presenta quando il messaggio di Gesù viene accolto con entusiasmo anche in regioni pagane di frontiera (3,8-12). Gli spiriti immondi non lo percepiscono come nemico, anzi gli rendono omaggio, «si prostrano» e lo acclamano. Essi intendono opporre al potere oppressore del giudaismo ufficiale un altro potere violento che ritengono liberatore, e questo potere lo offrono a Gesù. Desiderano dal «Figlio di Dio» un prodigio, una liberazione senza collaborazione umana. Gesù non soddisfa il loro desiderio, ma non li espelle, impone solamente il silenzio. La liberazione sarà ottenuta attraverso altre strade. La condotta dei Dodici sovente non risulta conforme alle istruzioni del Maestro. Quando li manda in missione (6,7-12), Gesù sottolinea l’importanza del loro equipaggiamento e del loro comportamento. Essi avranno il «potere sugli spiriti immondi» e il messaggio sarà annunciato attraverso l’esempio di povertà e di fiducia nella gente anche se rischieranno un rifiuto. Gli apostoli partono ma la loro attività non coincide con l’incarico dato da Gesù. Scacciano molti demoni, ungono e guariscono molti infermi. Predicano la conversione ma, non essendosi scontrati con la mentalità dell’ambiente, nessuno li rifiuta. Al contrario ottengono molto successo. Accorre grande folla ma «erano come pecore senza pastore» (6,34). Dopo la “moltiplicazione” di pani e pesci, Gesù ordina ai discepoli di fare sdraiare la folla in modo conviviale. Infatti il termine greco symposia esprime l’idea di una riunione informale in allegria e amicizia. La gente invece si sistema in gruppi ordinati, in formazioni fisse di cinquanta e cento, secondo una struttura rigida che ricorda quella stabilita da Mosè per il popolo (Es. 18,13-27; Dt. 1,9-18). La gente sceglie la dipendenza e i discepoli non fanno nulla per evitarlo (6,39-40). In seguito all’episodio del ricco proprietario e alle dure parole di Gesù nei confronti dei ricchi, i discepoli, sbigottiti, dicono tra loro: «e chi si può salvare?» (10, 26). Viene proposta una diversa traduzione. L’espressione sothênai significa salvarsi da un pericolo. Il pericolo che i discepoli temono è quello di vedersi ridotti in miseria in questa vita per mancanza di mezzi materiali. Essi dunque si domandano: «e chi può sopravvivere?». Ma, quando Pietro chiede implicitamente dal Maestro un impegno concreto rispetto all’avvenire del gruppo, Gesù rassicura i discepoli. In una società egoistica è impossibile sopravvivere per i miseri. Dio non farà continui miracoli: la sopravvivenza sarà frutto del comportamento dei credenti. Il regno di Dio esclude la miseria, anzi, moltiplica per cento i beni; però questo non si ottiene accaparrando, bensì condividendo (10,28-30). Il crollo del tempio, la caduta delle stelle, la venuta dell’Uomo Udendo da Gesù la profezia della distruzione del tempio, quattro discepoli non si disperano e gli rivolgono alcune domande sui tempi e sul segno salvifico attraverso il quale si arriverà alla fine, cioè alla catastrofe seguita dall’instaurazione del regno messianico (13,1-4). I discepoli attendevano un oracolo, Gesù risponde con una serie di moniti che denotano il dolore per la sorte del popolo e portano una deludente smentita. L’imminenza della rovina non annuncia la restaurazione messianica e non ci sarà alcun segno salvifico. Altre volte i profeti avevano previsto una grande afflizione. Ma in quelle occasioni la profezia di castigo era stata accompagnata da oracoli di salvezza. Questa volta invece la storia di salvezza si concluderà con la rovina. Il popolo eletto ha smesso di essere tale. Fallisce il progetto di salvezza universale che Dio intendeva realizzare per mezzo del suo popolo. Ma Gesù non è indifferente alla calamità che si abbatte sul suo popolo, anche se non può porvi rimedio perché quello che avviene è conseguenza del rifiuto, da parte di Israele, dell’opportunità di salvezza. Sventurate le vittime, soprattutto le donne! Occorre pregare perché il disastro non sia aggravato dalla stagione invernale! Dio allevierà le sofferenze, abbrevierà quei giorni. E’ stridente il contrasto con quanto si legge in Dt. 28,63: «Come il Signore gioiva a vostro riguardo nel beneficiarvi e moltiplicarvi, così il Signore gioirà nel farvi perire e distruggervi». All’interno dell’epoca definita «in quei giorni», l’orizzonte si allarga a popoli diversi da quello giudaico. Dopo quella tribolazione (la rovina del tempio e della nazione giudaica) accadranno altre tribolazioni: «il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e le stelle andranno cadendo dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno scosse» (13,24-25). Spesso gli astri compaiono nelle scritture ebraiche come oggetto di culto idolatrico, caratteristico dei pagani e tentazione per Israele: «alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle e tutto l’esercito del cielo, non traviarti prostrandoti davanti a quelle cose per rendere loro culto; cose che il Signore ha abbandonato in sorte a tutti i popoli sotto il cielo. Voi, invece…» (Dt. 4,19). Accenni al culto degli astri si ritrovano in molti altri testi e l’oscuramento del sole e della luna viene visto come il riflesso di qualche disastro che avviene sulla terra. In questo caso tuttavia il fenomeno non è legato con alcun altro evento. Il significato dell’oscuramento deve essere cercato negli astri stessi: l’idolatria pagana perde il suo splendore ed entra in crisi. E i tiranni pagani sono delle stelle che precipitano come il re di Babilonia (Is. 14,12-15). I re della terra saranno puniti come l’esercito del cielo (Is. 24,21). I rivali di Antioco sono paragonati a stelle precipitate e calpestate (Dn. 8,10). E queste potenze che cadono saranno i testimoni principali della venuta del Figlio dell’Uomo (13,26), cioè dell’Uomo nella sua pienezza, eccelso ed insieme accessibile, non estraneo alla condizione umana. Al posto di una condizione divina usurpata dai potenti della terra, la venuta dell’Uomo significa l’opposto, la condizione divina autentica. La forma esontai piptontes, «andranno cadendo dal cielo, si metteranno a cadere», al posto del semplice futuro, ha significato iterativo, denota una serie di eventi particolari successivi, una successione di «cadute» nel corso della storia. Anche la venuta del Figlio dell’Uomo non sarà unica. Ogni caduta del potere oppressivo sarà una crescita dell’Uomo, di cui si renderanno conto gli oppressori stessi. Queste successive venute non presentano alcun tratto di violenza e di castigo. E neppure si parla di una venuta finale. A tutti i seguaci di Gesù, qualsiasi possa essere la loro origine, è rivolto il monito «restate svegli» (13,37), svegli per essere in grado di percepire i segni della crisi degli idoli, della caducità dei potenti, della maturazione dell’Uomo. Chi ci ha trasmesso la Buona Novella? Escludendo il finale canonico non marciano, il Vangelo di Marco termina con la scena delle donne che, all’annuncio del giovane vestito di bianco, fuggono. Chi sono queste donne? L’avevano seguito fin dalla Galilea ed erano al suo servizio. Non servivano il gruppo, ma lui solo che probabilmente consideravano, come molti altri, un leader, il messia tanto atteso. Avevano assistito, da lontano, alla sua morte e sepoltura. Ora sono rassegnate al fatto che tutto sia finito. Avvertono però l’urgenza di onorare il suo cadavere. All’annuncio del giovane, non provano gioia. Si rendono conto che la sconfitta di Gesù non è stata tale, ma che la sua vittoria non ha niente a che fare con i sogni di gloria di Israele. Non assolvono all’incarico ricevuto e fuggono. E non dicono niente a nessuno. I discepoli erano fuggiti per paura dei soldati, le donne fuggono turbate dalla notizia sconvolgente. Ma allora chi ci ha trasmesso il gioioso annuncio? Forse nessuno il cui nome figura nel Vangelo. Forse la donna del profumo (14,3), forse la povera vedova (12,42), forse il centurione (15,39), forse le numerose altre donne che avevano accompagnato Gesù fino a Gerusalemme (15,41). Forse tanti altri anonimi: i quattro portatori del paralitico, i molti che assieme a esattori ed emarginati stavano con Gesù, tutti coloro che gli portavano i lettucci coi malati o i bambini perché li accarezzasse. Sono i servi, sono i piccoli, sono gli sconosciuti, sono gli ultimi. E, proprio perché ultimi, forse sono coloro che fanno parte della comunità di un ignoto a cui è stato dato il nome di Marco. Dario Oitana
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