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società
Oltre dieci anni fa il giurista Luigi Ferrajoli affermava che se in origine lo statuto della cittadinanza aveva la funzione di assicurare l’uguaglianza giuridica tra i membri della comunità appianando differenze di status, oggi, nei «nostri paesi ricchi rappresenta l’ultimo privilegio, l’ultimo fattore di esclusione e discriminazione, l’ultimo relitto premoderno delle disuguaglianze personali in contrasto con la conclamata universalità e uguaglianza dei diritti fondamentali». Oltre il progetto nazionale A 150 anni dal compimento dell’unità d’Italia, per non ridurre l’identità nazionale a una astratta dimensione astorica, distante dalle concrete vicende umane e dai processi e dalle trasformazioni in corso, appare sempre più necessario interrogarsi sui concetti di nazione e di cittadinanza, così come sulle ragioni del senso della convivenza collettiva diventa, a fronte delle tendenze disgregatrici e potenzialmente secessioniste e delle forze sovranazionali, quali l’Unione Europea o gli attuali processi di globalizzazione economica e culturale. Pensare l’Italia e gli italiani a partire da tali premesse significa superare lo sguardo incentrato sulle presunte origini e sui caratteri costitutivi, da sempre ricostruite a posteriori attraverso la selezione accurata degli eventi da parte degli intellettuali organici al progetto nazionale stesso, e quindi acquisire la consapevolezza che appartenere a qualunque nazione vuol dire confrontarsi con qualcosa di complesso e plurale, in buona parte inafferrabile. Lo stesso Risorgimento portava con sé una visione più ampia del concetto di nazionalità rispetto a quella che si è affermata successivamente, offrendo spunti di riflessione che vanno nella direzione di ciò che potremmo definire nazionalità allargata. Ciò risulta evidente prendendo in esame oltre la filosofia e l’azione dei suoi uomini più consapevoli, i quali intesero dar vita, piuttosto che a comunità omogenee ed etnicamente pure, a uno spazio politico costituito da cittadini liberi e uguali indipendentemente dalle loro distinzioni culturali o di altro genere, grazie a cui rendere concreti i valori universali di libertà e giustizia. Questo fu il caso di Mazzini che, oltre alla Giovine Italia, diede vita alla Giovine Europa, nella convinzione che il nostro paese dovesse essere una delle componenti di una nuova e solidale Europa. Ancora più radicale fu il pensiero di Carlo Cattaneo, convinto federalista europeista, così come l’azione di Giuseppe Garibaldi, non a caso definito «l’eroe dei due mondi». Nessuno di costoro concepiva la lotta contro gli imperi centrali come un progetto dai contorni puramente “nazionali”: la loro visione, al contrario, fu sempre orientata verso un’azione che potenzialmente abbracciasse tutti i popoli oppressi. Si pensi alle migliaia di combattenti che giunsero da tutta l’Europa, e non solo, nel corso della spedizione per la liberazione del sud Italia nel 1860, o al contributo dei garibaldini alle lotte contro l’Impero Ottomano in Bosnia nel 1870 e in Francia in difesa della Commune di Parigi nel 1872. Fu invece il nazionalismo ideologico della seconda metà dell’800 che, lasciando cadere questa prospettiva, piegò l’idea risorgimentale a una visione monolitica e aggressiva, con tutte le conseguenze che conosciamo. Lo stesso slancio cosmopolita attraversò la Resistenza, che al suo interno conteneva un progetto di liberazione nazionale che teneva insieme l’indipendenza dell’Italia con prospettive che potremmo definire postnazionali. Ciò emerge chiaramente nel pensiero di uomini come Ernesto Rossi o Altiero Spinelli, così come nelle pagine del Manifesto di Ventotene o nella Dichiarazione di Chivasso, e quindi nel pensiero dei padri costituenti e nella Costituzione repubblicana, in cui si riconosce il valore della limitazione delle prerogative nazionali a favore di organismi internazionali e soprannazionali in una prospettiva di una pace durevole e giusta. Un’Italia fuori dall’Italia Questo patrimonio storico assume un eccezionale valore nel contesto contemporaneo caratterizzato dalla globalizzazione e dall’indebolimento degli Stati e dalla crescente mobilità umana. Nel 2011, infatti, gli immigrati nel mondo erano infatti oltre 200 milioni, a cui si deve aggiungere l’enorme numero di profughi e di semplici cittadini che si spostano da un paese a un altro per le più diverse ragioni. Un processo in crescita, con caratteristiche ormai strutturali, che investono tutte le nazioni, mettendo in crisi il principio d’identificazione tra cittadinanza e Stato. L’Italia a questo riguardo non fa eccezione, al contrario, risulta essere una delle nazioni con il maggior numero di emigranti a livello mondiale e oggi una delle principali mete dei flussi migratori. Attualmente nel mondo vivono circa 80 milioni di oriundi italiani, così distribuiti: 25 milioni in Brasile, 20 in Argentina, 17,8 negli Stati Uniti e in Francia, 1,5 in Canada, 1,3 in Uruguay, 800 mila in Australia, 700 mila in Germania, 500 mila sia in Svizzera che in Perù. Letteralmente un’altra Italia al di là dei confini. Di questi 80 milioni, oltre 4 milioni sono in possesso di un passaporto del nostro paese. Sono inoltre 790 i media in lingua italiana: 480 giornali, 265 programmi radiofonici, 45 programmi televisivi e quasi 1000 comunicatori italiani o di origine italiana che producono cultura italiana all’estero, mentre solo negli ultimi anni lo Stato italiano si è dato gli strumenti politici e giuridici per dar loro un riconoscimento ufficiale. La storia dell’emigrazione italiana ha radici profonde, fu però intorno alla metà degli anni ’70 del XIX secolo che in Italia, a seguito della grande depressione, gli spostamenti della popolazione furono di portata rilevante. Tra il 1876 e il 1915 lasciarono l’Italia 15 milioni di persone, mentre altre 4 milioni e 700 mila lo fecero tra il 1918 e il 1940, nonostante il regime fascista proibisse l’espatrio. Dopo la seconda Guerra mondiale il fenomeno riprese vigore, questa volta con il consenso delle autorità che in molti casi siglarono accordi con i paesi riceventi: 7 milioni e 300 mila espatri. Interessante è osservare che l’incidenza dell’emigrazione “assistita”, cioè quella pianificata e controllata dal governo, non superò il 42% di tutti gli espatri, per cui si deve dedurre che buona parte dell’emigrazione italiana fu clandestina o ufficialmente “stagionale”. Molti altri entrarono illegalmente anche in Svizzera, Belgio, Germania e in diversi paesi latino americani. Nel 1973 per la prima volta il saldo migratorio segnò un dato positivo. Interessante notare che di fronte a questo immane esodo durato un secolo l’Italia risulta unita nel contributo offerto: se la maggioranza di questi cittadini è infatti di origine meridionale (54,3%), il 30,6% è del Nord e il 15,2% del Centro. Non italiani in Italia Dopo aver esaminato la situazione degli italiani fuori d’Italia, passiamo ora all’altra faccia della medaglia: i cittadini di origine straniera residenti nel nostro paese, alla fine del 2011, secondo i dati della Caritas Migrantes, erano 4.968.000, pari al 7,5% della popolazione residente. La crescita degli arrivi nel nostro paese è aumentata di venti volte rispetto agli inizi degli anni ’90. Prendendo in esame i paesi d’arrivo degli stranieri risulta che il 53,6% proviene da paesi europei, il 22% dall’Africa, il 16,2% dall’Asia e l’8,1% dall’America. Le nazionalità con il maggior numero di presenze sono quella rumena, albanese e marocchina: queste nazionalità da sole superano il 40% del totale dei cittadini stranieri residenti. Un altro dato rilevante è la giovane età media degli immigrati e il tasso di fecondità delle donne, il doppio rispetto a quella delle italiane (2,5 rispetto all’1,3). Non secondario è il numero dei matrimoni misti: 236.045 nel periodo compreso tra il 1996 e il 2006, così come il numero dei cittadini di origine straniera che hanno ottenuto la cittadinanza italiana: 541.955 sempre nello stesso periodo. I minori di origine straniera sono quasi un milione, gli iscritti a scuola sono il 7,9% della popolazione studentesca, anche se ancora in buona parte concentrati, dopo la terza media, nelle scuole tecniche e professionali. Particolarmente rilevante il contributo economico degli immigrati alla nostra economia: 2 milioni sono i lavoratori di origine straniera, il tasso di occupazione è superiore a quello degli italiani. L’incidenza sul Pil prodotto dal lavoro immigrato è dell’11,1%. La partecipazione dei lavoratori stranieri, però, continua a caratterizzarsi per essere concentrata nei profili professionali a bassa qualificazione e remunerazione, senza particolare rapporto con il loro livello d’istruzione o formazione. Una cittadinanza basata sulla residenza Dove collocare, dunque, il confine tra chi è e chi non è italiano? Quali principi di carattere giuridico introdurre per definire l’appartenenza nazionale? E forse ancora più radicalmente: ha ancora senso stabilire e quindi normare chi è insider e chi è invece considerato outsider? Non sarebbe meglio abbandonare l’identificazione tra cittadinanza e Stato e volgerci verso prospettive pluri o postnazionali, fondate sui principi universali del diritto cosmopolita così caro a Kant? Non sarebbe meglio desistere dal ricercare una definizione dell’identità italiana in senso cultural-essenzialista e invece arricchire il significato stesso di cittadino come proposto dal presidente Napolitano? Negli ultimi venti anni, le straordinarie trasformazioni dell’ordine mondiale hanno sollecitato la giurisprudenza nazionale e internazionale a problematizzare e ampliare lo spazio e lo statuto della tutela dei diritti rivolti alla persona, al di là del riferimento nazionale, con esiti però non sempre adeguati alle problematiche in questione. È il caso, per esempio, della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori emigranti e dei membri delle loro famiglie del 18 dicembre 1990. Convenzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con risoluzione 45/158, entrata in vigore il 1° luglio 2003, senza però essere stata sottoscritta, ad esclusione della Bosnia Erzegovina, da alcun paese europeo. Sempre in una prospettiva di ampliamento del concetto di cittadinanza si colloca anche la costituzione della cittadina europea definita a partire dal Trattato di Maastricht. Per la prima volta, e proprio nel continente che ha dato vita allo Stato nazionale, si è avviato un processo giuridico che punta a una membership sovrannazionale, collocando in tal modo quest’area geopolitica all’avanguardia a livello internazionale. Nonostante ciò, l’impostazione generale della norma non oltrepassa realmente la prospettiva nazionale, poiché i cittadini di paesi terzi restano comunque esclusi dalla possibilità di accedere automaticamente alla cittadinanza stessa. In Italia la distinzione tra il cittadino membro della comunità e l’outsider è stata confermata dalla Corte Costituzionale, reputando ragionevoli le disparità di trattamento introdotte dal legislatore nei confronti dello straniero, poiché a quest’ultimo manca il nesso giuridico costitutivo con lo Stato. Infatti il nostro paese si basa ancora in buona parte sul jus sanguinis rispetto al jus soli, come dimostra la relativa facilità nell’ottenere la cittadinanza italiana da parte dei discendenti degli emigrati italiani nel mondo, rispetto alla più limitata possibilità di acquisire la stessa da parte di cittadini provenienti da nazioni terze residenti nel nostro paese. Questa situazione ha due effetti: solo i cittadini membri di uno Stato dell’Ue possono usufruire della cittadinanza europea, mentre ne sono esclusi i cittadini considerati «extracomunitari» che, malgrado risiedano nei paesi dell’Unione, vengono a trovarsi in una posizione giuridica differente e a dipendere dalle diverse volontà degli Stati nazionali. In conclusione, la questione della cittadinanza e del suo significato e statuto giuridico e politico è una delle questioni principali delle nostre società, e del nostro paese in particolare, attraversate da profondi processi di ridefinizione della propria struttura demografica, spingendo la riflessione teorica e l’azione politica a problematizzare il significato di appartenenza così come di uguaglianza e differenza. Ci auguriamo che, rispetto all’imponente fenomeno migratorio verso il nostro paese e il nostro continente, a fronte di un’esitazione a superare in Italia il principio dello jus sanguinis e a tante diversità normative tra i diversi paesi dell’Ue, si giunga a un’armonizzazione delle norme sulla cittadinanza, in modo da rendere il diritto omogeneo in tutta l’area dell’Unione. A condizione però che ciò avvenga nella direzione di un ampliamento e non verso una limitazione dei diritti degli stranieri, affinché i diritti umani e la sovranità popolare possano, come afferma Jürgen Habermas, tendere verso una loro sempre maggiore e reale convergenza. William Bonapace
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