Spiace non condividere l’auspicio del presidente Giorgio Napolitano per un 25 aprile festa nazionale condivisa da tutti gli italiani. Non è così, e forse non lo potrà mai essere, a partire dalle modalità sociali, storiche e geografiche degli avvenimenti. Sostanzialmente solo il Centro-nord, e per tempi diversi a seconda delle zone, conobbe la Lotta di Liberazione e, a onta del mito fondativo dell’azione di popolo, vi fu una robusta zona grigia che si mise alla finestra in attesa dell’evoluzione dei fatti. Raccontano che nell’immediato dopoguerra nessuno al Sud sapesse di preciso perché ci fosse festa in quel giorno, caratterizzato soprattutto dalla chiusura degli uffici e delle scuole. È bastato del resto un articolo uscito in quella data su «Il giornale», a firma di Marcello Veneziani, per far riesplodere tutte le polemiche sulle ambigue equiparazioni tra le parti in lotta, nonché sulla quantità di sangue versato per stabilire quale sia stata la parte peggiore. Siamo molto lontani dal 14 luglio dei francesi. Per un 25 aprile condiviso occorre, a detta di Veneziani, riconoscere, tra l’altro, che «le vittime del comunismo sono state molto più numerose di quelle del nazismo, shoah inclusa» e che «va onorato chiunque abbia combattuto lealmente, animato da amor di patria».
Già… la patria, che, però, hanno osservato altri commentatori, non è un concetto neutro, ma dipende con quali scopi si coniuga. Per cui se l’8 settembre ’43 è morta una certa idea di patria connessa con l’arroganza nazionalistica e il razzismo, è sicuramente nata un’altra idea di patria, basata sulla pace, il rispetto e la collaborazione tra i popoli. Su queste fondamenta è stata ricostruita l’Italia e ancor più quell’Europa, oggi così malvista e indebolita da risorgenti pericolosi nazionalismi, ma che ci ha garantito 70 anni di pace e benessere.
Approfondisce meritoriamente il tema lo storico Gianni Oliva («La Stampa», 25 aprile) quando afferma che mentre i nomi dei partigiani caduti, salvo eccezioni, non ci dicono più nulla, per il gran tempo trascorso: «sono ormai freddi come la pietra nella quale sono incisi», non così il progetto, che, consciamente o meno, li animava: «la prospettiva e il sistema di valori per cui si sono battuti che sono ancora vivi perché stanno a fondamento della nostra democrazia». Qui si coglie il collegamento tra passato e presente e il motivo profondo che ci spinge a ricordare ogni anno la Resistenza. Per nostra fortuna ha vinto questo progetto, ma ce n’era un altro che prevedeva un’Europa diversa basata su una rigida gerarchia di popoli in cui alcuni avrebbero comandato, altri lavorato da schiavi e altri ancora sarebbero stati soppressi perché semplicemente indegni di vivere.
Non c’è dubbio che tra i volontari di Salò molti fossero in «buona fede», ma, conclude Oliva, quando si fa la biografia dei popoli non è la buona fede a contare ma il progetto per cui si è schierati. Basta rileggere, ad esempio, la lettera che scrisse Quinto Bevilacqua due giorni prima di essere fucilato al Martinetto per capire la profondità delle scelte che allora molti giovani fecero, fino al sacrificio della vita. Non dimentichiamo, ogni anno, di porre un fiore su quelle lapidi, ormai fredde.
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