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Il caso dell’Ilva di Taranto è tragico e profetico allo stesso tempo, perché da una parte mette in contrasto due diritti fondamentali quali quello alla salute e quello al lavoro e dall’altra, come un esperimento in laboratorio, ci mostra quel che potrebbe succedere domani a livello globale.

Nella sua ordinanza che respinge le proposte dell’Ilva, il magistrato afferma che il diritto alla salute non è negoziabile; ma allora neanche quello al lavoro lo è. Certo si può produrre acciaio in modo più pulito, abbattendo la maggior parte (mai la totalità) dei gas nocivi, ma in questo caso la produzione sarebbe troppo costosa e si sposterebbe in paesi più «disponibili». Certo si potrebbe risanare il territorio e riconvertire l’economia, ma ci vogliono molti soldi, molto tempo e una forte iniziativa e per ora non c’è nulla di tutto questo. Il rischio è dunque, in alternativa alla situazione attuale in cui c’è lavoro, ma respirare è pericoloso, di trovarsi a Taranto con un’aria più pulita in un territorio socialmente distrutto. E questo l’hanno capito bene gli operai che si oppongono con tutte le loro forze alla chiusura dello stabilimento, chiedendo, prima dello spegnimento irreversibile degli altiforni, un’alternativa.

A Taranto siamo arrivati a questo punto dopo decenni di incuria, allarmi e appelli inascoltati, indifferenza e fatalismo, avidità e ottusità di interessi irresponsabili. Anche nel mondo, in scala diversa, si ripresentano gli stessi problemi: da una parte l’inquinamento crescente, l’esaurimento delle risorse e l’accumulo dei rifiuti mettono a rischio la qualità della nostra vita e aumentano i costi di produzione, mentre dall’altra una massa crescente di persone ha bisogno di lavoro, ma i posti creati e adeguatamente retribuiti aumentano molto più lentamente. Inoltre, a livello globale, c’è anche un grave squilibrio nella distribuzione della ricchezza e del lavoro da colmare. Insomma la strada senza uscita in fondo alla quale si trova ora Taranto è la stessa che sta percorrendo speditamente il mondo.

C’è un altro insegnamento che possiamo generalizzare dal nostro esempio: una grande impresa che persegue, com’è nella sua natura, i suoi interessi, ma così facendo mette le premesse per la sua rovina, e un potere politico che non è in grado di far rispettare delle regole minime e di proporre alternative, dimostrando così la sua inutilità.

Occorre dunque modificare il rapporto tra economia e politica, dando a quest’ultima il potere di indirizzare e correggere l’andamento economico spesso caotico e autodistruttivo e cercare un nuovo assetto per la società, divenuta ormai un’unica grande comunità mondiale.

Da tempo ormai l’allarme è stato lanciato e qualcosa si è già cominciato a fare, ma è ancora largamente insufficiente; e mentre i disinformati, gli indifferenti, gli sfiduciati, i distruttori e quelli che per volere tutto e subito danneggiano la causa sono in maggioranza, i ricostruttori sono ancora in minoranza. Per Taranto forse è già troppo tardi, ma non lo è per il mondo, occorre però moltiplicare gli sforzi e, partendo anche da esempi negativi come questo: aumentare tra la popolazione la coscienza dei pericoli che incombono e dell’impegno e dei sacrifici che occorrerà dispiegare per superarli.

 


 
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