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chiesa
Tante volte ci siamo sentiti dire che il Concilio Vaticano II è ancora giovane e che tanto ha da dire, perché cinquant’anni sono un soffio di vento, perché ci vogliono secoli per giudicare un evento di tale portata, perché... Eppure, non possiamo ignorarlo: cinquant'anni sono più della metà della vita per la maggior parte di noi e dunque i cinquanta anni del Concilio sono significativi perché i suoi interlocutori sono cresciuti, cambiati, scomparsi, spariti. L’esperienza delle diverse generazioni In questa prospettiva possiamo immaginare un mondo abitato da: - i pionieri, coloro che il Concilio lo avevano desiderato e preparato, prima ancora che venisse annunciato, con l'attenzione alle tematiche teologiche e pastorali che poi avrebbero trovato spazio di risonanza nel Concilio. Sono i nostri pochi «grandi vecchi», capaci di far sognare ad occhi aperti con il racconto dei «loro tempi»; - i fondatori, coloro che hanno vissuto l'appassionante momento in cui il Concilio iniziava a essere attuato e vissuto. Vivono spesso di nostalgia, ora nei panni di una celebrazione degli anni in cui si facevano cose che «neanche si riescono a immaginare» ora nelle vesti della frustrazione per quanto è stato disatteso e tradito; - gli abitanti della Terra di mezzo, i nati negli anni conciliari (subito prima e subito dopo), coloro che hanno toccato la vitalità del Concilio nei racconti degli amici più grandi e hanno vissuto in prima persona i cambiamenti conciliari. Sono molto pochi, nella Chiesa come nella politica e nel volontariato. Ci si domanda dove siano e se possono ancora essere coinvolti, visto che con loro manca un cruciale tassello generazionale; - gli inconsapevoli, le generazioni nate dopo il Concilio. Possono guardarci in modo interrogativo quando si parla del Concilio, per due motivi. Nella migliore delle ipotesi, vivono il Concilio senza saperlo, perché il loro vissuto ecclesiale ne incarna l'essenza e, se leggessero i documenti, non si stupirebbero più di tanto ma troverebbero la risonanza della loro vita. Nella peggiore (e purtroppo ho il sospetto che sia la maggioritaria), non vi sono mai venuti a contatto, perché non frequentano i contesti ecclesiali (i cosiddetti «increduli») o perché quelli che abitano sono rimasti (o sono ritornati) agli anni precedenti il Concilio. Come possono i precursori e i fondatori accettare la mancanza di stupore di chi ha vissuto sempre la Chiesa post-conciliare? Come possono gli abitanti della Terra di mezzo trovare un proprio ruolo ecclesiale in un contesto dove ci sono i vecchi che tengono le fila (della memoria ma anche del potere ecclesiale) e i giovani che sono celebrati (per la loro rarità e per l'entusiasmo dell'impegno)? Come possono gli inconsapevoli vivere appieno la loro vocazione se gli altri hanno già fatto (prima e meglio) tutto quello che poteva essere sperimentato e hanno il dubbio di essere ormai troppo pochi per fare la differenza? Ebbene, lo confesso, mi sono proposta di offrire più domande di quante risposte potrò dare. Iniziamo il cammino intorno ai personaggi che abbiamo messo in scena sinora. Primo racconto: «è davvero un paese per vecchi?» Ormai è un modo di dire che non è più provocatorio, è diventato semplicemente un cliché che riassume la tensione inter-generazionale che anima il Paese e che non trova una seria modalità di espressione e di confronto che vada al di là dei proclami: perché devo farmi da parte se «sono ancora giovane» e ho tanta esperienza? perché devo continuare a vedere le stesse facce e ad ascoltare gli stessi discorsi? Eppure questo è un gioco di pochi, dei potenti e di chi tale vuole diventare. Non è il nodo cruciale della fatica che si accumula nelle famiglie che non sanno come affrontare (moralmente ed economicamente) la presenza di più anziani malati in casa, nel tempo in cui l'aspettativa di vita è ai massimi storici, aumentano le patologie geriatriche e un welfare adeguato è un personaggio mitologico. Non lo è neppure della preoccupazione che assale madri e padri anziani consapevoli che è la loro pensione a poter sostenere i figli separati o precari. Né tantomeno dell'insicurezza dei giovani o presunti tali di poter costruire un futuro indipendente e di creare una propria famiglia. Politica, lavoro... e chiesa, anche questo ambito non poteva essere risparmiato. Qui la contrapposizione assume le vesti della separazione, seppur nella varietà dei fenomeni. Ci sono i giovani che si sentono distanti del cristianesimo elitario e razionale dei loro padri (una delle tentazioni dei fondatori) e si rifugiano nelle Giornate Mondiali della Gioventù o aggregazioni dove l'aspetto emotivo è cruciale. Ci sono quelli che sono stanchi di sentirsi dire che tutto è già stato fatto (e meglio) dopo il Concilio e quello che si propone non è altro che un noioso dejà-vu e generano occasioni nuove per incontrarsi tra pari. Ancora, ci sono quelli che sono interessati a Gesù Cristo ma molto meno a una Chiesa che, dimentica di Gaudium et Spes, propone tematiche distanti anni luce dalla loro vita quotidiana, che non conosce le domande profonde che li agitano, che propone gli stessi criteri morali che andavano bene quando la gente si sposava a diciotto anni. Secondo racconto: «ma che fine ha fatto il Concilio?» Ammettiamolo: non ce lo diciamo mai, ma c'è una parte di noi che sa che il Concilio interessa soltanto chi ha più di 60 anni o è un addetto ai lavori (teologici). Temo che non si sia affrontato compiutamente la questione del mancato annuncio del Concilio, attribuendolo al disorientamento provocato dal «cambiamento di rotta» di parte della gerarchia. È eccessivo dire che la rassegnazione e la disillusione hanno impiegato davvero poco tempo a spazzare via la speranza che il Concilio aveva donato alla Chiesa? Che il ripiegamento nella fede vissuta privatamente ha forse salvato le anime, ma ha minato l'unione e lasciato spazio di parola ai soli vescovi (e non certo ai più innovatori)? Non si tratta di cercare le responsabilità ma di comprendere come coinvolgere le generazioni successive all’evento conciliare e di come rendere attuale oggi questo Concilio. Terzo racconto: «quando si smette di essere giovani?» Sinora abbiamo parlato di vecchi e di giovani, senza considerare la grande anomalia dell'uso di questa parola nel nostro Paese. Sentiamo parlare di «giovani ricercatori» per indicare delle persone di cinquant'anni; di «giovani preti» per gente con venti anni di messa; di «giovani donne» per rivolgerci a madri di famiglia trentenni. In ambito ecclesiale l'anomalia si amplia e ci siamo perfino inventati i «giovani adulti», come se esistesse una dimensione intermedia, tra la consapevolezza di non essere più semplicemente giovani e l’esperienza di essere considerati tali nel mondo del lavoro, nella società e nella chiesa, tra il già e il non ancora, che è esagerata perfino in una prospettiva escatologica come quella di cristiana. Possiamo immaginare che chiunque abbia compiuto le scelte cruciali della vita e vissuto più di un quarto di secolo, che abbia la facoltà di votare anche per il Senato e più di dieci anni di attività pastorale, non è più giovane? Anche se è più giovane delle molte altre persone che vivono con lui un'esperienza di chiesa e di vita? In qualunque nazione che non sia l’Italia questo è chiaro. Nel nostro Paese, la gerontocrazia è così pervasiva da occupare anche il nostro linguaggio e finiamo quasi per non rendercene conto. In questo modo rischiamo di perderci quelli che giovani lo sono veramente, e che vivano delle dinamiche ancora diverse (e forse più problematiche) dei trent/quarant/cinquantenni. Vero è che ammettere che questi non sono più giovani implica la necessità di interrogarsi sulla propria maturità. E anche questo non è un passaggio semplice. Quarto racconto: «come annunciare oggi Gesù Cristo?» Non possiamo nasconderci che l’annuncio del Vangelo oggi vive di fatica e afasia. Non che si taccia realmente − neanche quando forse sarebbe più opportuno farlo − ma piuttosto si è arenati su categorie culturali e strumenti linguistici lontani dal nostro tempo. È indubbio, il linguaggio sta cambiando e sarebbe insensato immaginare il contrario, chiunque abbia un’infarinatura di storia della lingua non ha difficoltà a crederlo. Perché dovremmo avere paura a cambiare il linguaggio della Chiesa? Perché non si deve poter inculturare nel linguaggio di oggi, assumendolo e irrorandolo di contenuti e metodi a noi cari? Le ricerche linguistiche compiute nel corso del mio lavoro di tesi, che analizzava da un punto di vista linguistico le omelie, segnalano una distanza notevole tra l'italiano standard dei parlanti e la lingua diffusa nei contesti ecclesiali (non mi riferisco agli ambiti specialistici, come una lezione o un incontro teologico, o i mezzi di comunicazione scritta, ma alle occasioni di presa di parola di occasione pastorali o liturgici). Qui si trovano termini specialistici, polisemici, obsoleti; costruzioni verbali tortuose e poco efficaci; e altre amenità linguistiche che segnano una distanza tra chi si suppone che debba annunciare il Vangelo e chi troppo poco sa per comprendere appieno. Neppure le parole conciliari rifuggono a queste avversità. Come facciamo a parlare di «regno» quando nell'immaginario sono rimasti quelli tutti bon ton e gossip delle monarchie europee o quelli totalitari di nazioni con molte problematiche da risolvere? Come possiamo usare «popolo», quando a stento è una categoria usata per definire gli abitanti in uno Stato ed è più facile che appaia nella forma dispregiativa di «populismo»? E siamo sicuri che termini come «sinodalità» siano davvero comprensibili? Certo, il contesto aiuta la comprensione, visto che l'italiano non è nuovo alla polisemia. Eppure non si può ignorare che i significati prevalenti sono quelli che creano una mentalità, aprono canali di comprensione automatica, aiutano a creare connessioni di senso. E tutto questo non può non aumentare nel momento in cui la stessa parola designa realtà significativamente diverse. (continua) Simona Borello
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