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società
Ho raggiunto circa quaranta persone di contesti culturali e regionali diversi (Piemonte, Venezia Giulia, Trentino Sudtirolo, Marche). Ero sempre a conoscenza della storia personale dell'intervistato e ho motivato con la perdita recente dell'amico la mia ricerca; si è creato così fin dall'inizio un clima di fiducia e ascolto reciproco. Dato il tema, devo precisare che quasi tutti gli intervistati hanno avuto un'educazione infantile cattolica, ma che molti di loro l'hanno poi abbandonata. Faccio prima parlare alcuni bambini intorno ai sei anni che hanno perso un nonno molto amato, con il quale hanno convissuto per lunghi periodi. Raccontano le nonne vedove che i piccoli si sono accostati senza paura al letto o alla bara del nonno, fortunatamente morto in casa, e l'hanno toccato e accarezzato. Nei giorni successivi hanno parlato del viaggio del nonno fuori dal nostro tempo. La nonna di Alessia, che voleva andare al cimitero, ha usato l'espressione «vado a trovare il nonno» e Alessia: «Ma arrivi su fino alle nuvole?» Per Marco il nonno ora si ritrova in alto, in un luogo preciso. Chiede: «Ora il nonno è in piedi o sdraiato?» Maia: «Il nonno è arrivato in cielo? ma in cielo dove?» Odilia la sera prega Gesù per il nonno: «Salutamelo e tieni compagnia al nonno». È un immaginario di commovente concretezza, in bambini i cui genitori sono agnostici. Qualcosa del paradiso della tradizione cristiana è rimasto in loro, forse attraverso le nonne credenti e la scuola materna. Vivere nel ricordo Per gli adulti ho messo insieme le risposte simili e ho formato tre gruppi omogenei al loro interno. C'erano variazioni personali interessanti e alcune le ho riportate nel testo. Il primo gruppo, una decina di persone, è formato da coloro che si dichiarano assolutamente certi che la morte di un individuo significa la sua totale scomparsa. Per loro non c'è alcuna possibilità di sopravvivenza personale. Il morto vive solo nel ricordo e nelle opere che ha lasciato. «È fuori da ogni possibilità razionale e sperimentale conoscere cosa c'è dopo la morte, per quel che significa per gli uomini conoscere e capire con il cervello. Ergo, la cosa non mi interessa. Dopo la mia morte non rincontrerò le persone che ho amato. Invece rivivo spesso i rapporti che ho avuto con loro quando erano in vita. Sono grata di quel che mi hanno dato, e lascio cadere, con il passare degli anni, tutti gli aspetti negativi o meschini del loro carattere» (Annamaria). «Quando il corpo finisce, con lui finisce lo spirito, perché sono un tutt'uno. L'idea del paradiso o di altre forme di sopravvivenza dello spirito, anche quelle di altre religioni o filosofie come quella buddista, sono trucchi consolatori, da rispettare in quanto tali» (Giangia). «L'eternità non fa parte del tempo e dunque, per quanto mi riguarda, neppure della mia vita e della vita delle persone che amo. […] Sapere che luoghi a me molto cari mi sopravviveranno, e persone che amo mi penseranno dopo la morte, e rimarrà qualche traccia del mio passaggio, mi basta: o meglio me lo faccio bastare» (Michele Serra, rispondendo su Il Venerdì di Repubblica del 9/11/2012 a domande simili alle mie). Tra il dubbio e la speranza Il secondo gruppo, il più numeroso, è quello delle persone che esitano tra il dubbio e la speranza che una sopravvivenza dello spirito ci sia. «Non si può sapere», «è un mistero», «lo vorrei» sono le espressioni più usate. Talvolta credenti cattolici più o meno praticanti ma più spesso agnostici, quasi tutti esprimono uno stesso bisogno profondo: di un oltre che arricchisca di senso la loro vita qui. «Vivo la mia vita senza metterla in relazione con la morte perché una vita buona serve qui: diminuisce la sofferenza di chi mi sta vicino e lo fa stare meglio. Penso la morte come un passaggio: se dopo c'è il nulla, tornerò alla natura; se lo spirito sopravviverà al corpo ci sarà una nuova esperienza, un mistero che m'incuriosisce» (Laura C.). «Mi piacerebbe tanto che una sopravvivenza ci fosse, perché in questo modo il nostro sforzo di amare non sarebbe assurdo. Se c'è un dopo per lo spirito, deve essere qualcosa di costruttivo, in crescita. Sui morti a me cari non metto paletti, ma comunque li tiene in vita il ricordo delle cose buone che mi hanno trasmesso» (Laura V.). «Spero nella sopravvivenza dello spirito di tutti gli umani e sperarlo vuol dire crederci. I nostri morti possono aiutarci se in vita si sono comportati bene, se no la loro cattiveria continua a disturbarci, ma un po' per volta si disperde» (Lilia). «Credo alla sopravvivenza dello spirito individuale e ci sono arrivata riflettendo sulla morte di chi è già andato; dove i morti siano non lo so. Sento le presenze dei morti come spiriti che ci aiutano a vivere meglio. La permanenza della parte buona del morto si realizza nei vivi che l'hanno conosciuto e amato» (Francesca). Qualcuno infine prospetta, al posto della sopravvivenza dello spirito individuale, il suo sciogliersi nell'energia positiva del cosmo. Sotto gli occhi di Dio Prima di passare al terzo gruppo, quello dei credenti, devo raccontare una piccola storia, singolare e straordinaria, che ci riporta a un immaginario religioso che va scomparendo. In un paesino della montagna tirolese ho conosciuto una donna di quasi novant'anni, lucida, forte e sana, e ho avuto modo di cogliere il suo immaginario sull'aldilà. Difficile da riassumere la sua vita in poche righe. Sposata con un pastore, dopo quattro anni era già vedova con due figlie piccole. Le ha viste morire, appena trentenni, di una morte molto dolorosa per cancro alle ossa. Una vita la sua di fatica e di dolore; per sopravvivere, in passato oltre ai piccoli aiuti della famiglia d'origine si è data da fare in tanti modi con lavori saltuari, come la sarta e l'operaia. Chi l'ha conosciuta a quei tempi, racconta di non averla mai sentita lamentarsi né confrontarsi con quelli più fortunati di lei. Ama ancora la vita perché dice di viverla «sotto gli occhi di Dio e Lui sa». Alterna le fatiche quotidiane alle preghiere: non per sé, ma per i divorziati e i separati, le donne che non obbediscono al marito, i testimoni di Geova: tutti, a suo dire, in mano al maligno e quindi infelici. E prega per la loro felicità qui, non per strapparli all'inferno. Il santo Padre, la Madonna, il S. Cuore di Gesù sono le sue icone. Non ha paura della morte, perché fa parte del piano che Dio ha in mente per lei. Sa che il suo posto sarà in paradiso, luogo di luce, di contemplazione e di gioia. In paradiso, dice, «ci sono le mie figlie e stanno una a destra e una a sinistra del Signore e cantano le sue lodi». Questa è una vita che insieme intenerisce e stupisce per la sua coerenza interna; ma si tratta, io penso, di una antropologia religiosa che appartiene al passato e che non ha futuro. Il paradiso è già qui in terra C'è un abisso tra questa storia e quello che sentono e pensano i credenti “biblici” del terzo gruppo. Li chiamo biblici perché conoscono la Bibbia in quanto da molti anni la leggono e la studiano insieme; hanno inoltre elaborato autonomia e libertà religiosa nei confronti delle istituzioni e delle norme della chiesa cattolica. Pochi in Italia, sono più numerosi in altre parti del mondo cristiano. Ecco alcune delle loro risposte. «Non ho paura della morte; mi fido delle Scritture. Si può morire “sazi di giorni” come i patriarchi. Il nostro agire è qui e ora. Non accetto l'idea del sacrificio che procura il paradiso» (Maria). «Chi ha vissuto bene, muore riconciliato. Io mi impegno per una vita piena qui, senza pensare all'oltre. Non so se uno che attinge alle Scritture abbia una marcia in più. Per i morti che abbiamo amato, il problema più grosso è il distacco: la non riconciliazione e il non detto con loro quando erano in vita» (Elisa). «È sciocco tormentarsi sul dopo. Bisogna affidarsi a Dio, avere confidenza in Lui. A me basta che Dio sia amore» (Silvano). «Ho la certezza di un futuro presso Dio. Quanto ai nostri morti, noi come il giovane vasaio del racconto di Galeano, possiamo incorporare alla nostra argilla i pezzetti del vaso frantumato della loro esistenza buona» (Ausilia). Per concludere, un'altra storia che guarda a un futuro religioso possibile. L'ho raccolta in occasione di una messa all'aperto degli scout dell'Agesci di Trieste; il prete era anche lui uno scout. Era il giorno dei passaggi dal branco al reparto di alcuni lupetti, tra cui mia nipote: una specie di festa annuale delle iniziazioni a cui partecipano anche i genitori, che portano il cibo per tutti. Il clima era laico e religioso insieme, anche perché non tutte le famiglie sono credenti e ci sono bambini, come mia nipote, non battezzati. Dopo l'omelia, incentrata su l'istruzione di Gesù ai discepoli «tra voi nessuno domini sull'altro», un lupetto, uscendo dal tema e seguendo un suo pensiero come fanno i bambini, ha chiesto: «Il paradiso esiste? Se esiste, dov'è?» Risposta immediata del giovane prete: «È qui in terra, tra noi, ed è inutile cercarlo altrove; poco fa nel vangelo Gesù ci ha detto come costruirlo». Amore alla vita Partita dal mio bisogno di elaborare il lutto per una perdita, questa ricerca mi ha regalato, oltre a bei momenti di condivisione, alcune scoperte e alcune conferme. È ormai lontana da tutti una visione remunerativa e punitiva dell'aldilà; la sequenza morte-giudizio-inferno o paradiso dei catechismi della mia infanzia si è dissolta. Molti, anche anziani, affermano di vivere senza pensare con angoscia alla propria morte. Per tutti ha senso vivere con bontà e generosità qui e ora. Quanto alle persone care perdute per sempre, esse rivivono attraverso il ricordo o la prosecuzione attiva nel vivente della loro parte buona. Alcuni pensano che una vita ben vissuta aumenti l'energia positiva del cosmo. Sono tutte conferme di quello che cinque anni fa avevo scoperto in una ricerca sulle antiche fiabe del mondo che hanno al centro l'evento della morte. Oggi, ripensando alle risposte dei miei quaranta amici, posso concludere con la stessa riflessione: «Ogni gruppo umano ha inventato modi per esorcizzare, combattere, accettare, differire la morte; con un solo comune obiettivo: quello di non spegnere il nostro amore alla vita». Tullia Chiarioni
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