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teologia
Pier Cesare Bori, filosofo morale e acuto ricercatore dello spirito, è morto a Bologna il 4 novembre, a 75 anni, di mesotelioma, tumore prodotto dall'amianto che aveva respirato a Casale Monferrato, da giovane: non vi abitava più dall'età di 21 anni. Dal 1958 egli è l'amico che ho sentito più prossimo come cammino e ricerca, fin dalla giovinezza, quando, a Roma, ventenni, lavoravamo insieme nella Fuci. Abbiamo continuato a parlarci, io ad imparare. Questo è il mio unico titolo per parlare di lui. Alla nostra età si parte alla spicciolata, ma non ci si perde. Forse l'affetto fa velo all'intelligenza? Semmai può guidarla – io spero - a conoscere e comprendere. Copio, a questo proposito, alcune sue righe da una lunga intervista, del 2001, su amore e sapienza, eros e sofia, che si trova in internet al suo nome e in www.ristretti.it/interviste/incontri/bori.htm. «Il terzo passo [del suo insegnamento] è il Simposio, di Platone, in cui si parla dell’eros, del desiderio, dell’amore come una potente forza, un’oscura forza, che tuttavia non va distrutta ma va educata perché “eros - dice Platone - è desiderio di sapienza, di sofia”. Non c’è apposizione fra l’amore e la sapienza, ma non bisogna pensare che istinto e conoscenza sono l’opposto: sono diversi, sono profondamente diversi, ma l’istinto, educato, tende alla conoscenza. È un discorso molto complesso, però è un’intuizione di enorme importanza, perché è un’intuizione che afferma l’esistenza in ciascuno di una potenza capace di conoscere. Questa potenza viene già enunciata nella Caverna ma viene spiegata, secondo la mia lettura, nel Simposio come eros, quindi c’è un primato, in un certo senso, con l’immagine dell’uomo nell’antropologia che io presento, del desiderio, dell’emozione, più che dell’intelligenza pura. Uno può avere molta intelligenza ma non capire niente, se non ha potenti affetti che sorreggono questa intelligenza, quindi gli affetti sono pericolosi, potremmo dire che dinamizzano riecheggiando la parola dinamis, la parola potenza. Ma sono anche un potente propulsore che ci spinge verso la conoscenza». Nel testo intero c'è molto di tutto il suo pensiero e metodo. Camminare In molte comunicazioni dei giorni successivi alla sua morte, la parola a riguardo di Bori che mi viene più frequente è “cammino”. Ha molto camminato, traversando regioni della cultura, della storia, della vita spirituale dell'umanità senza confini, ha camminato anche soffrendo, ma libero, serio, onesto, rigoroso, colto, e anche semplice, sorridendo di sé, senza nulla sdegnare (salvo le ipocrisie) delle regioni spirituali che percorreva, dovunque raccogliendo e scambiando beni. Vedo nella sua vita un valore proponibile a chiunque ha cuore e mente in movimento e ricerca. La sua esperienza è significativa e indicativa nella travagliata transizione spirituale, morale, intellettuale del nostro tempo, e dei cristiani. Ha avuto il senso della realtà e delle sue misure non disgiunto dal senso della grandezza delle verità, che ispirano e orientano i passi concreti del pensare e del vivere, degli affetti, del servizio. Ho abbozzato, nei primi tentativi di raccogliere il suo lascito, questa interpretazione: Pier Cesare ha superato “religiosamente” la religione. Bonhoeffer vedeva la necessità di un "cristianesimo non religioso". Credo che Pier abbia vissuto ed espresso questa via. Studiare e insegnare Altri ricostruirà con precisione il suo cammino di studioso, ricercatore accurato sul piano storico e filologico, e mostrerà l'ampiezza dei suoi interessi religiosi, morali, per la pace nonviolenta. Bastino qui pochi cenni: la chiesa delle origini e la patristica, la storia dell'interpretazione biblica, il consenso etico tra le culture, la pluralità delle vie, i diritti umani, l'opposizione alla pena di morte e alla guerra, la spiritualità americana, cinese, giapponese (viaggiò e insegnò in questi continenti), la Bibbia, il movimento dei quaccheri (al quale appartenne senza rinnegare il cattolicesimo; diceva che quella dei quaccheri era «l'unica forma decente», o la più decente, di cristianesimo), il dialogo con l'islam, la pratica buddhista, Pico della Mirandola, Freud, Tolstoj, Gandhi, Simone Weil, Schweitzer… Guardando la sua bibliografia si vedrà quante finestre ha aperto a chi era in contatto con lui. Insegnava filosofia morale nell'Università di Bologna (diceva: «Faccio scuola elementare universitaria», e qualcuno credeva che questo fosse poco) soltanto (!) leggendo, analizzando e commentando i grandi testi da tutte le sapienze umane, di ogni tempo e luogo, il più possibile nelle lingue originali, che imparava. E faceva scuola in carcere, con lo stesso metodo dell'università (vedi Lampada a se stessi), soprattutto con i carcerati immigrati, i quali spesso scoprivano grazie a lui la dignità della cultura e della spiritualità dei propri popoli, e lo ricambiavano di amicizia e fiducia totale. Morire da vivi Nella sua ultima mail collettiva a un gruppo di amici, scriveva il 24 ottobre: «Eccomi! Mi commuove sentire la sollecitudine di tanti cari, vecchi amici, per la mia salute. Devo affrontare una recidiva del mesotelioma, provando con una seconda chemioterapia, il cui esito non è affatto certo. Questa chemio - oppure la malattia in sé - comporta vari malesseri e disagi fra cui un grande gonfiore del ventre. Quando ho saputo della recidiva, da cui non si guarisce, anche se si può provare a curare, ho scritto un testo autobiografico, che ho chiamato CV, curriculum vitae, con ironia. Se qualcuno di voi non ce l'ha e lo vuole, gli mando un pdf. Uscirà presto da Il Mulino, e ci sarà anche un dvd, con molte mie foto. In tutto c'è molto "io" e "mio", ma affidati e come dissolti in una quantità di rapporti e di amicizie. Non mi mancano le risorse spirituali per affrontare queste difficoltà: la semplice preghiera di invocazione, la meditazione che ti aiuta a sorridere delle cose che passano. Ma ci sono e ci saranno momenti di angoscia e o di paura o di dolore fisico in cui è difficile attingere a quelle risorse, mentre vorrei vivere al meglio anche quei momenti. Forse qualcuno di voi ha dei suggerimenti da darmi... Comunque, forza a noi tutti! Un saluto caro a tutti, Pier Cesare». Il 14 settembre passai a casa sua: Pier coi suoi compagni di lavoro e allievi in cerchio - c'ero anch'io sulla porta - consegnava, in qualche modo, l'eredità della sua vita, illustrando il suo CV in bozze. Non lo perdiamo, noi suoi amici. I morti cari li abbiamo così vicini che non si vedono. Mi scrive l'amico e medico che era con lui l'ultimo giorno: «Pier ha avuto momenti di sofferenza molto lenita e di bella vigilanza. Ad un certo momento, eravamo tutti piuttosto sereni, abbiamo trovato all’hospice una Bibbia e mi ha detto di leggere la prima lettera di Giovanni. Dopo che sono arrivato a leggere 2,9-11, mi ha detto di fermarmi. "Di' qualcosa”, ha aggiunto. Giro l'invito a tutti noi». Copio questi versetti. Ognuno può vedere la parte che li precede e li segue: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1Gv 2,9-11). Pier amava un altro versetto del vangelo di Giovanni, caro ai quaccheri: «Era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (1,9). È stato un sapiente morire, quello di Pier Cesare: per nulla facile, ma consapevole, sereno, calmo, preparato, persino sorridente. Ce lo ha dimostrato in questi ultimi tempi. Un grato saluto Il funerale di Pier Cesare Bori, il 7 novembre, è stato poco funebre, e piuttosto un grato saluto corale, tenendo noi in cuore, con mite letizia, con rappacificata tristezza, la memoria di ciò che ci ha dato. Per sua volontà non ci sono stati discorsi, né alcun segno religioso, «per non escludere nessuno», e così abbiamo vissuto un incontro profondamente religioso, se questa parola, anziché confessionale, rituale, sacrale, vuol dire intimo, spirituale, se significa la ricerca di quel bene che chiama e unisce gli spiriti nella pluralità delle vie. Eravamo tanti all'Archiginnasio. La Bologna della cultura e dell'umanità ha dato un saluto amichevole e un riconoscimento autorevole a Pier, in semplicità e amicizia. Aveva chiesto dieci minuti di silenzio (secondo il culto usuale dei quaccheri, senza nominarli), che sono stati di intensa comunione fra i presenti, aperta a quel mondo di relazioni larghe, nel tempo e nello spazio, che Pier Cesare ha vissuto. L'amicizia è stata la preghiera che ha unito tutti, chi prega e chi non prega, chi prega in un modo e chi in un altro. Amicizia e com-passione sono quelle luci che ci conducono oltre le povertà, le miserie, gli smarrimenti - e anche le atrocità - del quotidiano: alcuni danno all'amicizia e alla com-passione il nome di Dio, altri le accolgono come il maggior bene della vita. Come nel necrologio, così oggi i familiari hanno denunciato in due parole che è stato l'amianto respirato da giovane a togliere il respiro a Pier Cesare, dopo tanto tempo. Tra i desideri di Pier Cesare per il suo commiato c'è anche che i suoi amici cattolici, se vogliono, possono ricordarlo in un'eucaristia, in una preghiera. Come Pier ha desiderato, siamo rimasti a lungo nel cortile conversando con i tanti amici e conoscenti che lui morendo ha radunato. Per me, quella di Pier è stata la morte di un sapiente, nel senso più sobrio e serio della parola. È un insegnamento per tutti, specialmente per chi di noi è più avanti nella scuola della vita e sempre cerca di imparare dai veri sapienti. Gli ho posato un bacio sulla fronte, per dirgli grazie. Qualcuno ha notato che il 7 novembre, è il giorno della morte, nel 1910, del “suo” Tolstoj. Qualcuno ha ricordato mentalmente il “Saluto al morto” di Aldo Capitini, come le preghiere di tutte le religioni e di tutte le spiritualità umane quando uno di noi «esce dal tempo», valica quel colle, là dove non vediamo e non sappiamo, ma un poco attendiamo e speriamo − perché ci sono delle promesse – una luce che dia compimento e pace a questo nostro cammino. Da questo suo morire nella cerchia amicale, come Socrate, ma nella trafittura della carne, come Gesù, che Pier ha detto di aver contemplato nella malattia, dalla croce accanto alla sua, ho riflettuto che morire (se non tronca un cammino ancor giovane) diventa ad un certo punto necessario per sigillare e completare il cammino di una vita. Carlo Maria Martini ha detto che diventa necessario per affidarsi pienamente. Solo con questo ultimo e totale dono di sé, nella fiducia piena verso la realtà nota e ignota, pur nel buio, nel freddo, e nella perdita (del resto, quando nascemmo fu per noi la stessa esperienza), noi ci possiamo davvero consegnare, possiamo restituire noi stessi al mistero della vita, che tanto ci ha donato e anche richiesto. Non occorrono dottrine e ortodossie, meno che mai gerarchie e mediazioni sacerdotali, per aiutarci reciprocamente a vivere quel momento che tutti ci accomuna e affratella. Che sia il morire donandoci, con fatica e dolore, con resistenza e paura, ma in fondo con l'atto di amore più intero che sia possibile a noi, che sia quello il luogo dell'incontro universale, dell'uguaglianza giusta, e della pace? «Pier è nella pace», diceva il messaggino dell'annuncio. Qualcuno disse che la filosofia è preparazione alla morte. Sarà. Ma soprattutto la vita di ricerca – la sola degna d'essere vissuta, per Socrate – è talmente tesa alla pienezza del bene e dell'amore (cioè il bene per tutti), che riempie di vita anche la morte. Così mi suggeriscono e incoraggiano sempre di nuovo le vite migliori di cui ho avuto notizia, tra le quali è la vita e il cammino di Pier Cesare Bori, amico caro.
Enrico Peyretti
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