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chiesa
Il viaggio tra le generazioni del Concilio si è concluso (cfr. foglio 395) ed è tempo di iniziare a organizzare quello successivo. Quali saranno i nostri compagni di viaggio? Per alcuni di noi è impensabile pensare lo stile conciliare senza i testi, eppure dobbiamo prendere in considerazione la difficoltà a districarsi nell’equilibrio e nelle finezze lessicali dei testi senza avere gli adeguati strumenti tecnici. La storia del concilio e la cultura teologica sono necessari per comprenderli appieno: per fare un esempio, siamo pieni di revisionisti che leggono i testi da un punto di vista conservatore, e chi non è attrezzato scientificamente non può capire la distorsione. Questo aspetto potrebbe essere occasione per un dialogo generazionale, nel quale chi fornisce gli strumenti per leggere compiutamente i documenti li sappia anche testimoniare e far risuonare nell'oggi, cogliendo le domande e le inquietudini dei suoi più giovani interlocutori. Allo stesso tempo, dovremmo prendere in considerazione che non è sufficiente riproporre il messaggio conciliare, pur con tutti gli adattamenti all'attuale situazione storica, perché la mutata condizione antropologica e culturale ha cambiato le priorità. L'esperienza vissuta da chiccodisenape (http://chiccodisenape.wordpress.com) ci ha fatto percepire, ad esempio, che le urgenze “etiche” e “politiche” hanno una forza di attrazione ben maggiore dei grandi temi teologici. Il Concilio si può vivere anche senza citare i documenti che lo hanno raccontato e ce lo testimoniano, per raggiungere anche le esperienze più marginali e lontane dai centri della vita ecclesiale. Può vivere se chi lo conosce saprà sfuggire all'eruditismo, cosa che non sempre è avvenuta in passato, e saprà testimoniarlo. Il dialogo spezzato Può sembrare banale, eppure voglio nominare la storia «compagna di viaggio», perché non è scontato che davvero ci si metta in cammino e non si rimanga solo alle prese con le proprie teorie. La vita interpella ogni giorno ciascuno di noi e il Concilio, con le sue gioie e le sue difficoltà, per cercare risposte nuove. Il Concilio nasce come la «risposta nuova», dopo due guerre devastanti, aurora di un processo di cambiamento che non avrebbe risparmiato nessun ambito sociale e che avrebbe segnato una frattura tra le generazioni. È forse questo mancato dialogo che ci ha portato a vivere smarriti e confusi questa grande crisi economica, dopo decenni di boom economico? È la mancanza di confronto tra le generazioni che ci rende difficile leggere i segni dei tempi e farci le domande opportune? In ogni caso qualcosa si è spezzato. Perché se il Concilio è stato davvero il momento di svolta, nella vita della Chiesa, nel modo di osservare il mondo e la storia non rimarcando più tanto la separazione tra la Chiesa e il mondo, tra la storia della salvezza e la storia dell’umanità, bensì affermando una concezione della comunità ecclesiale vista come profondamente coinvolta nelle vicende della storia; com'è allora possibile che sia stata necessaria la crisi del sistema capitalistico occidentale per smuovere le coscienze e proporre concetti come la sobrietà, la condivisione, la sostenibilità? Non è sufficiente il Concilio se non si mischia con la storia, di padri e di figlie, di madri e di figli, di tutte le latitudini e longitudini, nelle sofferenze di milioni di persone e di popoli interi, nelle innumerevoli situazioni di dolore e di estremo degrado, nella storia dell’uomo sofferente. Da questo punto di vista, trovo significativo che la modalità di espressione e di incontro dei giovani trovata dalla gerarchia negli anni esaltanti (in Occidente) del boom economico sia stata la Giornata Mondiale della Gioventù. Sì, Giovanni Paolo II diceva che erano stati i giovani ad averle create, ma in verità la chiesa si è limitata a «proporre ai giovani credenti ciò che gli stessi giovani desiderano: risposte immediate, occasione d'incontro, talvolta delle rassicurazioni per la propria vita», affiancandola a precetti chiari, percorsi ordinati, sicurezze, cose giuste da fare. Sbaglierò, ma mi pare che sia una proposta piuttosto distante dalla richiesta di discepolato: seguire il Maestro che non sa dove porrà il capo questa sera, fiducioso nella sollecitudine del Padre come un giglio del campo. È la proposta di un cristianesimo capace di responsabilità e, al contempo, di affidamento, che non teme la precarietà e le avversità perché confida nel Vivente e non nella divinità che premierà nell'al di là. E non posso non sorprendermi che, pur nella crescente balbuzie nella trasmissione generazionale, permangono più le immagini legate al cristianesimo tradizionale che quelle conciliari. Generazione post-Gutemberg L'ultimo aspetto che vorrei sottolineare è quello missionario: la crisi del cristianesimo del tempo presente ha suscitato il desiderio di arroccarsi all'interno dei percorsi e dei luoghi consolidati. Ne sono un esempio la cura di paramenti e patene, che anima molti pur giovani seminaristi, o l'esasperazione della centralità della parrocchia, nodo cruciale dei discorsi di molti vescovi. Eppure la sfida del cristianesimo è sempre stata la capacità di abitare i luoghi dell'annuncio, nei cambiamenti che hanno avuto nel corso dei secoli. Penso che sia ancora oggi una sfida a cui non ci si può sottrarre, e il nuovo continente da esplorare è quello suscitato dalle tecnologie a disposizione. La mancanza di tempo (o, meglio, di competenza!) mi impedisce di addentrarmi nel discorso più propriamente teologico, ma mi piace aggiungere qualche considerazione prettamente comunicativa. Il punto di partenza mi pare che sia proprio domandarci: che cos’è tecnologia? Qualcuno provocatoriamente ha risposto che «è tecnologia tutto quello che c’era quando siamo nati». E questo cambia il nostro approccio a esse. Diremmo tecnologia un libro? Noi no, ma non penso che gli abitanti del 1455 avrebbero la nostra stessa opinione. Quello che ci sconcerta e ci provoca smarrimento è che viviamo nell’epoca di trasformazione, del passaggio dalla comunicazione che gli studiosi chiamano «meccanica» a quella «elettronica». E non soltanto siamo nel mezzo di questo cambiamento, ma lo siamo da tempo e non è detto che ne usciremo. La cifra delle innovazioni tecnologiche e mediali che viviamo è la continuità e velocità di rinnovamento, oltre alla apparente facilità di accesso. La rivoluzione mediale e lo smarrimento da essa provocato possono «indurci in tentazione»: vedere il modello a cui siamo stati abituati e formati come quello «giusto», «immutabile», a cui i nuovi strumenti devono essere ricondotti. Provo a esemplificare questa considerazione. La nostra educazione, il nostro apprendimento, lo svolgimento del nostro pensiero sono inevitabilmente legati al libro: sin da piccoli siamo stati abituati a questo oggetto composto da una copertina che annunciava il contenuto; un indice descrittivo di quanto avremmo trovato all’interno; una prefazione che ci dava le ragioni della lettura; una serie di capitoli più o meno strutturati e articolati; una conclusione che traeva le fila del discorso e, spesso, lo rilanciava o avvalorava con una bibliografia dettagliata. Siamo stati così abituati ad essere a contatto con questo tipo di approccio che siamo arrivati a considerare questo il metodo corretto e universale: «si è sempre fatto così: questo è il modo di apprendere, questo è il modo di strutturare un testo e un messaggio comunicativo». In tutto questo dimentichiamo che tutto questo esiste, per tutti, solamente a partire dal 1455, da quello che è avvenuto dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg. Il tempo trascorso a partire da allora è decisamente breve nella storia dell’umanità per arrivare a considerare le abitudini generate da questo specifico mezzo di comunicazione come caratteristiche immanenti dell’uomo, modalità immutabili e insuperabili, uniche strategie di azione. Questa banale osservazione permette di mettere in risalto almeno due fenomeni: l’uno è che la conoscenza è stata trasmessa nel corso dei secoli attraverso altri mezzi di comunicazione che, anche quando avevano una forma simile a quello che è diventato il libro con la stampa a caratteri mobili, avevano caratteristiche differenti e attivavano diversi meccanismi di acquisizione e di trasmissione delle informazioni; l’altro è che considerare «naturale» quanto è strettamente legato a un mezzo di comunicazione evidenzia la pervasività che i cambiamenti tecnologici hanno nella vita dell’uomo dopo i traumi vissuti dalla generazione che ne vede l’introduzione. Un cantiere aperto Il quadro tracciato mette in luce un ennesimo luogo di tensione inter-generazionale: da un lato, abitudini e consuetudini rischiano di essere assunte come caratteristiche irrinunciabili dell'umanità; dall'altro, si mette a rischio il senso critico nell'immediatezza e nella velocità. Potrei parlare ore di rischi e di opportunità, ma non seguo questo filone. Mi interessa piuttosto suggerire che i cambiamenti tecnologici non si sono limitati a fornire strumenti sempre più sofisticati ma sono stati fautori della generazione e dello sviluppo di un ambiente, nel quale le persone vivono comunità, creano relazioni, si confrontano sui grandi temi della vita. In questo senso è un luogo di annuncio, del quale come sempre sarà necessario comprendere il linguaggio e le abitudini, come se si partisse per qualsiasi altro Paese straniero, e, ancor più, il cambiamento che ha già innescato nella società e nella chiesa. Se, come scriveva nel 1964 Marshall McLuhan, «le società sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione» ed «è impossibile capire i mutamenti sociali e culturali senza una conoscenza del funzionamento dei media», bisogna generare delle chiavi di lettura nuove, consapevoli e critiche dei mezzi perché nate da coloro che adoperano i media e non proposte dall’esterno, per comprendere l'umanità e compiere la missione che il Concilio continua ad affidarci. Una missione aperta in cui ogni generazione che passa, come dice Gogol, riderà dei predecessori, ma allo stesso tempo continuerà a dare inizio a nuovi errori. Simona Borello
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