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Già il premio a Obama aveva fatto discutere. Il premio Nobel all’Unione europea ha provocato specialmente nell’area nonviolenta aspre reazioni. Alex Zanotelli, per esempio, afferma: «A livello comunitario siamo prigionieri della Nato, combattiamo dall’Iraq all’Afghanistan alla Libia, e diamo all’Ue il Nobel? Abbiamo fatto le guerre contro i poveri di questo mondo. A livello globale abbiamo speso 1740 miliardi di dollari, perché nessun partito grida?». Altri hanno osservato che era meglio dare il premio a persone o singole organizzazioni che lavorano assiduamente per la costruzione della pace e magari hanno maggior bisogno del denaro del premio.

Ma il punto è che non si può far finta che il premio sia stato dato per qualcosa invece che per qualcos'altro. Perché il premio è soprattutto un riconoscimento al processo di riconciliazione che gli stati europei hanno messo in atto fra loro in questi decenni, e che è forse il più grande e duraturo processo di riconciliazione mai compiuto fra stati nazionali. Se pensiamo storicamente, non sembra poco che oggi in Europa ci paia scontato quello che a chi ha vissuto nella prima metà del Novecento, nell'Ottocento, nel Settecento e a scendere sarebbe parso straordinario: vale a dire 60 anni nei quali Francia, Germania, Italia, Spagna e Inghilterra non si sono scannati in guerre intestine.

Quegli stessi stati nazionali rischiano ora di mettere a repentaglio questa eccezionale realizzazione. Come annota Barbara Spinelli, che raccoglie l’eredità di un grande europeista come Altiero, il premio «è come se non suggellasse un progresso, ma indicasse come rischiamo di perderlo. Mostra quel che l’Europa ha voluto essere, e non è ancora o non è più. Gli scontri sull’euro, la Grecia trasformata in capro espiatorio, il peso abnorme di un solo Stato (Germania): non è l’unione cui si è aspirato per decenni, ma una costruzione che si decostruisce e arretra invece di completarsi» («La Repubblica» 13 ottobre). E conclude: «Rimasta a metà cammino, l’Europa non è ancora l’istituzione sovranazionale che preserva la democrazia e lo Stato sociale. Viene identificata con uno dei suoi mezzi – l’euro – come se la moneta e le misure fin qui congegnate fossero la sua finalità, il suo orizzonte di civiltà. La fissazione sui piani di salvataggio finanziario e il rifiuto di ogni via alternativa hanno fatto perdere di vista la democrazia, e la solidarietà, e l’idea di un’Europa che, unita, diventa potenza nel mondo».

Il fatto poi che l'Europa possa essere, e sia stata a volte, violenta all'esterno non è cosa di poco conto. Perché l'idea di pace è cresciuta in questi decenni, e proprio in ragione di questa evoluzione esige oggi qualcosa di più che la non-guerra: esige l'assenza di violenza non solo militare-politica, ma strutturale-economica-sociale, sia interna, sia nei rapporti con l'esterno. L'Europa è in regola col concetto attuale, maturo, di pace? È auspicabile che la stessa costruzione della pace che è avvenuta all'interno dell'Unione Europea avvenga anche al di fuori, a cominciare dai paesi del bacino del Mediterraneo.


 
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