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 337 - CINQUE BREVI ARTICOLI SUL CREDERE/1

 

RELIGIONE È RELAZIONE

 

Fede, credere non significa assolutamente, nel significato biblico originario, pensare senza verificare, sul solo principio d’autorità, come ritiene il pensiero moderno. Significa aderire, appoggiarsi, confidare. 

Esprime dunque il rapporto interpersonale, non una speculazione, né un pensiero passivo. Non c’è fede senza un altro in cui credi: è credere in, credere a, non è credere che (opinare, supporre, pensare). È una relazione interpersonale, non un pensiero teorico (che può venire di conseguenza); viene prima del comportamento pratico (che viene di conseguenza, ma vale anche come predisposizione).

Credere in è anche attendere senza avere, è accogliere, sperare, è un lieto non essere autosufficienti, essere poveri di sé e ricchi dell’altro. Poiché è dialogo, è pregare (Agostino: «Il tuo desiderio è la tua preghiera») e ringraziare (eukaristein, in greco, da cui «eucarestia»).

La disposizione (o dono) interiore, è detta nell’evangelico «Chi ha orecchi per intendere…».

*

Ai tempi del Concilio, uno storico di sicuro valore come Luigi Firpo, attento anche alla storia religiosa, scrisse su un giornale (cito a memoria) che non potevano esserci cattolici critici, perché essere cattolici vuol dire pensare come il papa. Sbagliava.

*

Hans Küng in Dio Esiste? (Mondadori 1979) riconduce la questione alla fiducia di fondo nella realtà. La quale dipende anche dal tipo di realtà in cui t’imbatti. Si crede (o non si crede) alla vita e alla realtà, alla propria madre, alle prime persone conosciute dal bambino, prima che ad un maestro, una dottrina, una fede.

Aldo Capitini parla di persuasione, e non gli piace fede, credere (ciò dipende anche dalla sua polemica anticattolica). Così esprime qualcosa che dolcemente (suaviter) convince nell’intimo. Prende l’idea di persuasione, opposta a retorica, da Michelstaedter.

*

Aver fede è semplicemente uguale a vivere? fidarsi che valga la pena di respirare per un altro minuto, e poi un altro ancora? costruire una casa? far lavori e progetti, pur sapendo di vivere per un tempo limitato, forse brevissimo? Ammetto che dir questo (l’ho detto anch’io) è troppo poco. Forse si riconduce al concetto di Küng.

Crediamo a molti, anche al passante a cui chiediamo la via, o l’ora. Credere in Dio è ancora altro: è dare la fiducia massima, totale, affidare tutto, affidarsi nella morte. Soprattutto è fidarsi e affidarsi ad uno che non vedi, del quale cogli la realtà non evidenziabile, non ostensibile, ma interiormente sentita reale.

*

Credere sulla parola altrui non c’entra niente col rinunciare a pensare! Anche gli scienziati sperimentali credono vicendevolmente l’uno all’altro, quando uno dimostra sufficiente credibilità. Uno sa quello che l’altro ha verificato, senza sempre rifare personalmente tutte le verifiche (che però sa che sono possibili). Ciascuno verifica in un campo limitato, e per il resto crede, si fida. Senza questa fede non c’è comunicazione del sapere.

*

Sulla morte: c’è anche chi muore “prendendo congedo” definitivo, per andare nel silenzio del nulla. C’è chi si accontenta di vivere senza trovare un senso oltre la morte. (C’è davvero? o fa finta? si rassegna? si arrende alla morte? ne accetta il potere definitivo sulla vita?). Se la fede è salvezza dell’esistenza dalla contraddizione della morte, cioè trovarle un senso che superi il non-senso della morte, ciò avviene nel donarsi pratico al prossimo, più ancora che nel tendere a colui in cui credo perché mi sottragga al nulla della morte. I salvati di Matteo 25 non sembrano credenti, ma sono bene operanti. Il donarsi pratico varrebbe anche senza la fede. Allora vuol dire che vivere per gli altri è fede in atto. Ma altrove è detto che senza fede non c’è salvezza. Confronta Paolo e Giacomo: vale l’in-tenzione, purché si faccia pratica. Dice il Talmud (cito a memoria): «Lo studio è più importante della pratica perché conduce alla pratica».

*

Ma non qualunque operare, ovviamente. Chi si spende per conquistare e dominare gli altri, crede (dà valore) solo a se stesso, non esce da sé, non si affida, non si appoggia, distrugge il proprio appoggio, si rovina.

Come si dimostra questo? Non si dimostra, si avverte. Non dipende dal consenso democratico: chi avverte che aiutare è bene e che uccidere è male, “deve” andare contro il consenso, quando il consenso è per l’uccidere.

*

La fede è il senso attivo dell’alterità? «Timor di Dio» vorrebbe dire solo questo: rendersi conto che c’è altro-Altro; avere il senso delle proporzioni reali; non fare di sé un assoluto, ab-solutus, sciolto da relazioni essenziali.

*

Religione significa relazione. Aulo Gellio scrive: «religentem esse oportet, religiosus ne fuas (cioè sis)» (Noctes atticae 4,9,1), come a dire che «per non essere religioso», cioè legato-sottomesso, bisogna essere di quelli che «fanno collegamenti, relazioni». Non amo affatto opporre religione a fede. Nel senso migliore, religione non è legame, ma collegamento, rapporto, come la fede. È espressione (imperfetta, ovviamente) della fede.

*

La fede nasce dal bisogno? Sì. Il bisogno è condizione di verità: il cibo per vivere, l’amore dei corpi e dei cuori, l’incarnazione della bellezza nell’arte, la sete di sapere che spinge l’ingegno alla scienza, il rovello del perché che tiene vivo il pensiero: tutti questi sono bisogni che fanno la dignità e la tensione umana, sono condizioni del limite umano e quindi del cammino umano verso una maggior vita. Il bisogno è stimolo e forza, premessa e promessa per interrogare la vita e ascoltarne le risposte. Non c’è luce di verità senza il parto doloroso entro il buio bisognoso. Come ogni parto, il vedere la luce, il venire alla luce deriva da “altri” fecondato da “altri”. Ma “altri” non esiste per me se io non ne soffro il bisogno. Tutto ciò che il neonato sa di sua madre è il bisogno che ne ha. Poi la conoscerà meglio, e le sorriderà. Il bisogno, come il dolore, dice la verità.

 

Enrico Peyretti

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