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 399 - A lezione dall'asino e dal bue

 

«Vangeli dell'infanzia»: poca storia, tanta teologia

 

Ha suscitato qualche rumore l'affermazione pontificia che la presenza dell'asino e del bue, a custodia della mangiatoia, in cui Maria aveva deposto il «Bambinello», non è attestata dai vangeli e pertanto non deve essere ritenuta un fatto storico.

Per quanto il papa aggiunga subito la raccomandazione di non cacciare la celebre coppia dai presepi ma di utilizzarla come segno dell'umiltà e dell'universalità della divina incarnazione, numerosi sono stati coloro che si sono stracciati le vesti per la scandalosa relativizzazione delle tradizioni natalizie, mostrando così superficiale conoscenza della Scrittura e della secolare avventura iconografica della Natività.

 

Un midrash teologico

Sia come sia; Benedetto XVI sottolinea la pura simbolicità di numerosi scampoli del betlemmitico bestiario e la sottolinea nel libro dedicato alla nascita e ai primi anni di vita di Gesù (Editrice Vaticana – Rizzoli, 2012). La sottolinea proprio nel testo dove, in polemica con la maggioranza dei moderni esegeti, presenta ogni episodio narrato dai “Vangeli dell'infanzia” di Matteo e di Luca come dato storico. Ciò al fine di garantire la verità teologica della loro successiva utilizzazione nei sempre più complicati sviluppi mariologici e cristologici del “Credo cattolico”.

Ora, a parte il fatto che nessuna ricostruzione storica degli eventi narrati dalla Bibbia può offrire decisivo sostegno alla loro lettura di fede, risulta evidente a qualsiasi frequentatore di queste pagine che esse non contengono elementi documentari e narrativi capaci di dimostrarne la storicità. Anzi è dubbio persino che si possano sovrapporre le intenzioni teologiche, con cui le hanno scritte gli evangelisti nel I secolo, a quelle espresse dalle più tarde reinterpretazioni dogmatiche.

Ci si è dovuti arrampicare sui vetri e appellarsi ai «Vangeli apocrifi» per dare sostegno scritturistico ai dogmi mariani: la «divina maternità» e «l'inviolata verginità della Piena di grazia» (Efeso V sec.; Laterano VII sec.); la «Immacolata Concezione» e l'«Assunzione corporea» (Roma 1854 e 1950). Dogma, quest'ultimo, che nulla ha a che fare con la nascita del Salvatore, ma conferma l'uso disinvolto delle tradizioni extraevangeliche da parte della teologia magisteriale.

In modo analogo si è dovuto forzare il senso spirituale dei continui richiami alla «divina figliolanza di Gesù» per farne, rischiando la blasfemia, una generazione quasi fisica dal Padre, laddove tutti i passi biblici che parlano di «figlio di Dio» nei Sinottici si riallacciano al tema teologico dell'elezione di Israele e alla figura del messia davidico o di singoli «giusti» e profeti.

Del tutto gratuito, ad esempio, è ritenere coi mariologi che la risposta stupita di Maria all'angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo», significhi: «Voglio vivere e morire sempre vergine», visto che essa ha già deciso di sposarsi e accetta pure la gravidanza promessagli da Dio. Dove mai, se non nell'immaginifico Vangelo di Giacomo (fine II sec.), si narra che una levatrice incredula è costretta a confermare che l'imene della Madonna è rimasto intatto, non solo dopo il matrimonio, ma addirittura dopo la nascita del figlio?

Col che non intendo negare l'evangelicità della nascita verginale di Gesù, su cui concordano i due racconti canonici dell'infanzia, ma esortare ad assumerla come confessione di fede degli autori e delle loro comunità, coscienti che essa non è propria né del Vangelo di Marco, né di quello di Giovanni, né delle lettere di Paolo, e dei rispettivi gruppi cristiani di riferimento.

Del resto già un autorevole Dizionario teologico, preparato negli anni del Concilio e che conta tra i collaboratori K. Rhaner e J. Ratzinger, alla voce «Maria» scriveva: «Tra gli avvenimenti della storia dell'infanzia di Matteo e di Luca e la loro stesura corrono due o tre generazioni; quindi un tempo doppio rispetto agli altri episodi dei rispettivi vangeli ... In quel lasso di tempo l'interpretazione sembra essersi fusa con gli avvenimenti», fino a sovrapporsi ad essi (Queriniana 1967, vol. II, p. 265). E altrove: «Benché Matteo e Luca concordino sulla nascita verginale di Gesù ad opera di Dio, sotto un povero tetto di Betlemme, ci sono tra essi differenze nei personaggi e nei fatti narrati, che si deve ritenere siano frutto di tradizioni comunitarie tra loro indipendenti».

Ecco, dunque, che «anche un'esegesi, che voglia orientare alla possibile storicità degli eventi qui narrati, dovrà riconoscere e ammettere il carattere speciale di questi racconti: la loro natura midrashica …  La quantità di angeli e di miracoli concentrati in essi, il continuo rimando a passi e vicende dell'Antico Testamento li differenziano dal resto dei racconti sull'avventura di Gesù ... I Vangeli dell'infanzia sono, in tutta evidenza, dei racconti popolari, nati in ambiente giudaico».

La figura di Mosè, il continuo rimando a testi profetici, utilizzati come chiave teologica per interpretare, se non per orientare lo sviluppo dei vari episodi, sono determinanti in Matteo. Così anche in Luca la nascita di Giovanni da genitori anziani e sterili rimanda ad analoghi passi biblici. I cantici di Zaccaria, Elisabetta e Maria sono collage di versetti dei Salmi e dei profeti, per non parlare del tema della verginità di Maria che espressamente evoca Isaia (Is 7,14).

Tutto ci dice che ci troviamo di fronte a due midrash, interpretazioni ed estensioni narrative, sviluppate sulla base della Scrittura per dare volto al mistero, mai prima reso oggetto d'annunzio, dell'origine di colui che verrà riconosciuto come «Cristo» e «Figlio di Dio». Qualcosa di assai simile a come dovettero prender forma i libri di «Giona», «Giobbe» e «Daniele», scritti per affrontare problemi spirituali dibattuti al tempo dei loro autori e posti sotto l'egida di personaggi, ricordati di passaggio da testi più antichi ma solo per la celebrità del nome (2 Re 14,25; Ezechiele 14,14-20).

 

Apologia delle statuine

Ma torniamo all'asino e al bue e alla problematica legittimità del loro trovarsi inseriti, come attori di qualche teologico rilievo, nell'assai frequentata Notte Santa, affollata di angeli osannanti, pastori e greggi, magi d'oriente e relativa stella. Tutte figure simbolicamente essenziali nel grande midrash della nascita del divino discendente di Davide, ma non fissate nel numero, né dotate di rappresentanza esclusiva. Così «la moltitudine dei cori celesti che lodano la gloria di Dio» può essere rappresentata da uno o due angeli di gesso che reggono un cartiglio, mentre i pastori assumono volentieri i volti e le vesti del popolo credente, agglomerato di generi, età e umili mestieri; le greggi si fanno presenti come pecore, capre, polli, cammelli, asini e buoi; la stella acquista una coda e diventa cometa; i magi si fanno re, tre, dalla pelle di diverso colore, seguiti da servi ed eventuali carriaggi. Tutte metamorfosi iconografiche non documentabili sulla base dei testi evangelici, ma tutte midrashicamente riconducibili a personaggi, episodi e profezie dell'Antico Testamento, capaci di conformarsi al messaggio teologico proposto dai racconti canonici dell'infanzia e, in forme anche fantasiosamente più generose, da quelli apocrifi.

Così è innanzitutto per l'asino e il bue che troviamo posti a corona del Bambinello in un tardo midrash apocrifo sulla nascita verginale del Figlio di Dio. Stanno lì anche a titolo maggiore di quanto ci stiano i temi teologici dei dogmi mariani, immaginati presenti nei personaggi, nei fatti e nei detti dei racconti canonici. Tanto gli apocrifi quanto i canonici possono fregiarsi, infatti, di un richiamo ai profeti basato su un errore di traduzione dei «Settanta». Luca e Matteo fondano biblicamente il tema della verginità di Maria sulla resa in greco (parténos, «vergine») dell'ebraico 'almah che significa «giovane donna» di Isaia 7,14. Lo Pseudo Matteo (sec VIII-IX) ricava la certezza della presenza dell'asino e del bue accanto a Gesù («E il bue e l'asino lo adoravano») sulla base di una profezia di Ababuc 3,2 («Nel mezzo degli anni verrà»), resa dagli ebrei ellenizzati dell'Egitto con «Tra due animali lo vedrete». Profezia ulteriormente precisata col rimando ad Isaia 1, 3 («Conosce il bue il suo padrone e l'asino, nella stalla, il suo signore»).

Si dirà che, per quanto biblicamente corretto, tale richiamo entra troppo tardi nella storia della tradizione. Nulla di più falso. Esso non trova rappresentazione iconografica a partire dal celebre prototipo di presepe, voluto da Francesco per Natale a Greccio (XII sec.), dove solo un asino e un bue stanno con Gesù in fasce sulla paglia: assenti persino Maria, Giuseppe e i cori angelici. Lo stesso, esclusivo, terzetto spicca su una stele romana del IV-V secolo, essenziale simbolo del Natale, coeva quindi alla proclamazione del primo dogma mariano: Maria madre di Dio (Efeso 431 d. C.).

Se ne ricava che come la presenza dell'asino e del bue nei nostri presepi non illustra un fatto storico, ma è solo un simbolo carico di significati teologico-pastorali, allo stesso modo è altamente probabile che ogni altro elemento teologico, fatto risalire ai Vangeli dell'infanzia, ma elaborato dalla tradizione, a partire dagli apocrifi, possa arricchirne la vocazione midrashica, ma non ambire alla definizione dogmatica, vincolante per le diverse comunità cristiane, e tanto meno allo statuto di verità suffragata da qualche evento storico identificabile.

Aldo Bodrato

 

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