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L’annunciazione nel manoscritto di Verona Papa Ratzinger nel suo ultimo libro L’infanzia di Gesù (Rizzoli 2012) sostiene la storicità pressoché totale di tali racconti (i primi due capitoli dei vangeli di Matteo e Luca): concede solo, presupponendo che Gesù sia nato qualche anno prima della nostra èra e citando Keplero, che la stella di Matteo forse non era una cometa ma una congiunzione astrale (Giove-Saturno del 6/7 a.C., con o senza Marte, pp. 114-118), oppure un’esplosione di supernova (quella presunta del 4/5 a.C.), e che gli angeli lucani non abbiano cantato, ma solo declamato in lode il «Gloria a Dio nel più alto dei cieli…» (Lc 2,13: «e dicevano…», p. 87ss). La cosa parla da sé, già recensita da Piero Stefani nel 397 con l’appropriato titolo di «Una pietra sopra l’esegesi»; ci sono infatti almeno tre tipi di leggende all’inizio indipendenti: nascita del Battista, nascita di Gesù, e storie del Tempio (Zaccaria, Simeone ed Anna, ritrovamento del dodicenne fra i dottori). Abbiamo poi un circolo vizioso per quanto concerne la retrodatazione, cioè che Gesù sia nato qualche anno prima della nostra era per rendere compatibile l’aggancio della sua nascita con Erode il grande, morto nel 4 a.C., e che quindi Dionigi il piccolo nel sesto secolo avrebbe sbagliato i suoi calcoli. Ma dato che i racconti dell’infanzia non sono storia ma leggenda, l’indicazione «Al tempo del re Erode» (Lc 1,5), o il decreto di Augusto d’indizione del censimento (non si sa la data precisa della sua esecuzione), come pure il racconto dei Magi di Matteo, va presa con le molle e genericamente, nel senso che l’avvento di Gesù è avvenuto più o meno in quell’epoca; quindi Gesù può benissimo essere nato intorno all’anno 0. Tornando al libro del papa, è poi scorretto utilizzare la scienza (fisica di Keplero) quanto fa comodo, e non la scienza esegetica quando risulta totalmente contraria al proprio pensiero, ossia il metodo storico-critico a partire da Martin Dibelius (1883-1947), Rudolf Bultmann (1884-1976) ed Emanuel Hirsch [Frühgeschichte des Evangeliums, Protostoria del Vangelo, 2° volume, Tubinga 1941 (d’ora in poi abbreviato con Hirsch II…)]. Era già tutto chiaro alla fine della seconda guerra mondiale. Tuttavia per i vangeli dell’infanzia sarebbe bastato rifarsi ai meno rivoluzionari Joachim Gnilka [Il vangelo di Matteo (parte prima), nella collana “Commentario Teologico del NT”, Paideia-Brescia 1980] e Heinz Schürmann, Vangelo di Luca, Parte prima, stessa collana CTNT, Paideia 1983, (d’ora in poi abbreviato con Schürmann…), ed in particolare ai «cattolicissimi» Rudolf Schnackenburg e J. P. MEIER, Un ebreo marginale, vol. 1, BTC 117, Queriniana-Brescia 2001, cap. VIII, Le origini di Gesù di Nazareth, pp.193-238: secondo il sacerdote Meier l’unico dato storico è che Gesù era figlio di Giuseppe e Maria [ed oltretutto, aggiungo io (ma è implicito in Meier e chiaro in G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, EDB 2002), nacque a Nazareth e non a Betlemme]. Prendiamo in considerazione solo i primi due capitoli di Luca (da cui tutte le citazioni senza più indicare Luca con Lc, oltre inizialmente al prologo del quarto vangelo; per Matteo cfr il nostro studio I Racconti dell’Infanzia, ancora on-line da almeno due anni sempre in www.ilfoglio.info) nella versione latina del codice veronese purpureo (siglato con la lettera b minuscola nelle edizioni critiche), contenente i 4 vangeli e conservato nel museo capitolare della città veneta. Ma teniamo presenti anche il Vercellese, il Brixianus (Bresciano), il Corbeiense (in parte a S. Pietroburgo e in parte a Parigi) e il Palatino di Trento. Per vederne sia le immagini in un caldo rosa-purpureo e sia i testi, nella sequenza tipica latina (Matteo, Giovanni, Luca, Marco), basta digitare in un motore di ricerca codex veronensis, vercellensis, brixianus, o inserire il link
http://www.archive.org/stream/MN41420ucmf_4#page/n49/mode/2up Per la sinossi comparativa dei codici purpurei basta copiare e incollare: http://books.google.it/books?pg=PR41&lpg=PR41&dq=Et+ipse+Jesus+erat+incipiens+fere+annorum++veronensis&sig=sY4DynBo-9c8q9LsVaf655tncjc&ei=OJm_UMGZDdDb4QSp_YHABg&id=pmhCAAAAcAAJ&hl=it&ots=QHEHW2YvdB#v=onepage&q=Et%20ipse%20Jesus%20erat%20incipiens%20fere%20annorum%20%20veronensis&f=false L’articolo cartaceo riassuntivo, di una pagina, si trova nel n. 400 del Foglio (Marzo 2013). 1.0 Verbum caro facta est Il fatto che si tratti di una vetus latina (antica traduzione latina certo rozza, ma anteriore alla Vulgata di S. Girolamo) non diminuisce la sua importanza per la critica testuale (ossia la ricostruzione del testo più attendibile dal livello originario agli strati successivi): dietro ad essa ci sta comunque un testo e/o un codice greco (o più di uno), l’esemplare dal quale traduce. Il Veronese e il Palatino sono infatti del 4/5 secolo [il Vercellese addirittura leggermente più antico, del 4° secolo, mentre il Bresciano è un po’ più tardivo, del 6° secolo] di poco posteriori ai due più autorevoli codici greci, il Sinaitico (S) ed il Vaticano (siglato con la lettera B maiuscola). Ad es. nelle nostre Bibbie troviamo la lettura al plurale di Gv 1,13: «…a quanti credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne né da volere di uomo ma da Dio sono stati generati» (cioè i cristiani figli di Dio per grazia, v. 12). Ma esiste anche la lettura al singolare, privilegiata ad es. dalla Bibbia di Gerusalemme e in genere dalla scuola francese: «…nel suo nome, il quale [Gesù] non da sangue……..ma da Dio è stato generato». Non ci è pervenuto alcun codice o esemplare greco con tale variante; ma esso esisteva (o esistevano) perché possediamo le citazioni degli scrittori come Giustino e Ireneo (testo greco e armeno), che riportano os (il quale)….eghennêthê, egennhqh (è stato generato). Così lo cita anche l’Epistola apostolorum (un apocrifo di cui però ci è giunta sola la versione copta ed etiopica), e Tertulliano (in latino) che rimprovera i Valentiniani di usare la lettura al plurale per i loro scopi dottrinali. Oltre ad un codice siriaco abbiamo appunto, citato come primo nelle edizioni critiche con la lettera b, il veronese: il suo testo di “vetus latina” è ovviamente il frutto di una traduzione dal greco, e viene riportato nel manoscritto con la tipica u per la nostra v: «…credentibus in nomine eius, qui [in latino è sia singolare che plurale; è il verbo in fondo (natus est) che decide] non ex sanguine neque ex uoluntate carnis nec ex uoluntate viri sed ex deo natus est. Et uerbum caro facta est…». Cosa vuol dire se va riferito a Gesù? È forse un’allusione alla verginità? Che il Logos…carne si sia fatta, con l’attrazione del verbo sul femminile di carne [caro; il Vercellese (come gli altri latini) e Girolamo nella Vulgata invece traducono col più conosciuto «factum est», al neutro collegato con Verbum], significa che non c’è alcuna diminuzione della sua umanità radicale; eppure, o proprio per questo, si sottolinea la sua provenienza diretta e particolare da Dio: quell’umanità di Dio che la teologia deve ancora assimilare bene. [La lettura al singolare, ovviamente riferita a Gesù, pare tutto sommato più logica di quella al plurale relativa ai credenti figli di Dio: infatti per questi ultimi sembra esagerato, seppur vero, sottolineare con tanta forza il fatto di esser giunti alla fede per grazia e non per tradizione, stirpe, famiglia, consanguineità (una triplice negazione di fattori naturali, solo doppia in alcuni manoscritti) in un’epoca di esigua minoranza e non di cristianità stabilita (d’altronde la fede è pur sempre un atto libero del volere umano, che non può essere escluso per nessuna ragione). Ma se vale la lectio difficilior (lettura più difficile, e quindi più probabile; un criterio tuttavia che non va applicato automaticamente senza discernimento), quella al plurale sarebbe la più originaria, in seguito trasformata al singolare perché esagerata e perché si presta più ad essere riferita a Gesù. Il rimprovero di Tertulliano ai Valentiniani testimonia pur sempre che la lettura al plurale era già ben attestata in Africa settentrionale a quei tempi. Ma non va esclusa anche l’altra possibilità, seppur più debole: la lettura al singolare è originaria, poi trasformata al plurale per la violenta polemica (cfr Gv 7,14-52 ) antigiudaica-antiebraica del quarto vangelo; «la triplice negazione è talmente sorprendente che sembrerebbe lecito affermare che il versetto sia dominato da un ardente spirito polemico» (A. von Harnack, citato in Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, parte prima, Paideia-Brescia 1973). La polemica consiste nel fatto che si diventa cristiani per grazia, e non c’entra più nulla l’essere figli di Abramo («Dio può suscitare tali figli dalle pietre», come dice Gesù in Lc 3,8), ebrei, circoncisi ecc. Il gentile “cristiano” è ormai tagliato fuori da qualsiasi legame di sangue, e pure culturale, col giudaismo (ma non con l’AT), soprattutto se quest’ultimo è di stampo integralista e razzista]. Comunque sia, è importante sottolineare per i nostri scopi come il Veronese non si sia «inventato nulla», ma testimoni un testo al singolare proveniente da un esemplare greco, anche se il manoscritto greco non ci è pervenuto (a parte forse il codice D prima mano): questo come preparazione a Lc 1,26a, 1,34 e 2,5, in cui succede a mio parere la stessa cosa. 1.1 Il primo capitolo senza l’Annunciazione a Maria (ma solo quella a Zaccaria) Il vangelo originario di Luca cominciava al cap. 3°, con quel grande esordio da storico: «nell’anno decimo quinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era procuratore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, Filippo suo fratello tetrarca dell’Iturea e della regione di Traconite, e Litania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa…», con la suddetta serie impressionante di nomi, coordinate geografiche e temporali. È «matematico» che questo fosse l’incipit del Luca storico (o proto-Luca), con davanti eventualmente il proemio di 1,1-4; il vangelo dell’infanzia è stato aggiunto in epoca tardiva, a più riprese e inserimenti rielaboranti. «Luca non avrebbe inserito la genealogia al posto attuale (3,23-38) se i capp. 1° e 2° avessero già fatto parte del suo vangelo; un altro indizio [per noi una prova] che il “preludio”, la “protostoria” è stata posta all’inizio del vangelo solo in un secondo tempo» (Schürmann 365). Per tutti la fonte dell’infanzia è non-lucana: ad es. «Lc 1,26-38 non è certo una creazione di Luca» (Schürmann 155). Secondo parecchi esegeti è Luca stesso che li ha aggiunti con qualche ritocco-miglioramento, nel qual caso la fonte primitiva risulta essere pre-lucana; secondo invece una minoranza (noi compresi) l’inseritore-redattore è un altro, nel qual caso la fonte originaria è semplicemente precedente (Luca non c’entra; ma questo non è rilevante): sono invece importantissimi gli inserimenti multipli. E, dato ancor più importante, non si è atteso la redazione super-finale che raccoglie il tutto per poi solo alla fine “pubblicare” e far circolare i manoscritti. Anche il livello originario e quello intermedio (per stringere all’osso, perché ce ne sono anche di più) sono stati fatti circolare ed “editi” prima delle inserzioni posteriori. [Noi in genere pensiamo ad autori, come Virgilio, Dante o Leopardi, che avranno fatto tutte le variazioni, ritocchi, cancellazioni ed aggiunte alle loro opere, ma poi hanno pubblicato solo la versione finale. Virgilio ha solo letto ad una ristretta cerchia di amici (compreso l’imperatore Augusto) il secondo canto dell’Eneide (distruzione di Troia) e il sesto (Enea nell’Ade che visita gli Inferi). L’esempio forse più vicino ai testi biblici è quello del Manzoni, che ha steso una prima versione del romanzo intitolato “Fermo e Lucia”, rimasto per molti anni inedito. Poi sono venuti “Gli sposi promessi”, questi pubblicati, e la prima edizione dei Promessi Sposi, la cosiddetta Ventisettana (1827); e dopo «aver risciacquato i panni in Arno» la seconda edizione detta la Quarantana (1840-41). I contemporanei di Manzoni, e quelli immediatamente seguenti dell’800, potevano fare il confronto tra le varie edizioni”, ad eccezione di “Fermo e Lucia”. Noi invece oggi possiamo confrontare fra loro tutte le versioni, a cominciare dall’iniziale “Fermo e Lucia”. La stessa cosa possiamo fare oggi coi sostanziali tre livelli dei vangeli, tuttavia con l’enorme differenza che nel caso del celebre romanzo è sempre lo stesso ed unico autore a fare le variazioni, mentre nel caso dei vangeli sono autori di volta in volta diversi (autore singolo o autore collettivo, cioè una comunità) che inseriscono del materiale a più riprese dando luogo ai vari livelli, anch’essi tutti e singoli “pubblicati” nei manoscritti in più ondate; non è stata “edita” solo la redazione finale!! Il fatto poi che in genere aggiungessero, ma che raramente togliessero ci permette appunto di ricostruire e di capire il loro percorso, anche se il livello posteriore non collimava con quello precedente]. Così si spiega ad es. la triplice amnesia mariana (2,18s; 2,33 e 2,49-50) ben evidenziata da Dario Oitana nel suo articolo Il Verbo si fece Nazareno nel Foglio 399; ma non c’è di fatto alcuna amnesia, perché dal punto di vista letterario l’autore del 2° capitolo non conosce il primo, e se anche l’avesse conosciuto non cambia nulla perché l’annunciazione non c’era ancora. Nel momento in cui viene inserita in un secondo momento l’annunciazione (cfr più sotto dall’1.6 all’1.8), la Maria del secondo capitolo diventa una smemorata. Questo non significa dimenticare che è stato un cammino di fede: il fatto di usare il metodo storico-critico e l’analisi letteraria non vuol dire diventare freddi, scettici, anemici o miscredenti. A nostro parere chi non tien conto della differenza dei livelli fa solo una gran retorica e/o una gran confusione, andando incontro a delle contraddizioni insanabili in tutta la Bibbia che mettono proprio a dura prova la sua fede se vuole essere intellettualmente onesto (ad es. la “violenza” divina” nell’AT). L’analisi critica, anziché spegnere la fede, la salva! E ciò non significa che venga preclusa la lettura della Bibbia al “buon cristiano” non esperto: basta che in ogni comunità cristiana ci sia almeno uno in grado di fare questo lavoro di preparazione, di fissare i due argini (invalicabili) che permettono al fiume di avanzare sino alle considerazioni di tipo più esistenziale e spirituale. 1.2 Elisabetta «scippata» del MagnificatPer il Vercellese ed il Veronese [e pure in Ireneo, Adversus Haereses 4,7,1, Contro le eresie, ma nella versione armena] è Elisabetta (non Maria) che declama il Magnificat! [Et ait Elisabet/l]. Il Vercellese dice sempre Elisabet, mentre il Veronese Elisabel. Ciò è la prova che non si sono “copiati” a vicenda, né che “copiano” dallo stesso testo della medesima traduzione latina antica (vetus), ma che si rifanno in ultima analisi a esemplari greci diversi. Il cantico d’esultanza di per sé non si adatta bene a nessuna delle due donne, data la sua teologia nell’ambito del midrash e la valanga di citazioni scritturistiche: esso si ispira al cantico di Anna (1 Samuele 2,1-10) e a molti altri passi dell’AT. Diciamo che il 47 [«…in Dio mio Salvatore» (è il nome di Dio, non quello di Gesù)] si adatta maggiormente ad Elisabetta (salvata dalla sterilità; mentre per Maria, che non è sterile, non c’è una vera e propria salvezza, semmai sarà lei a portare salvezza). Anna ed Elisabetta sono nella stessa situazione (Hirsch II 173). Invece il 48b (ecce enim ex hoc, «ecco infatti d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata») è più comprensibile se attribuito a Maria, mentre risulta forzato ed esagerato per Elisabetta [è vero che nel Vercellese, che l’attribuisce ad Elisabetta, il 48 non c’è, ma perché è corrotto]. Tuttavia in un inno poetico, emotivo, soteriologico (extra-razionale), l’inizio razionale del 48b è sospetto: idou gar apo tou nun, idou gar apo tou nun / ecce enim ex hoc non è uno stile poetico da inno salvifico, ma assomiglia ad una aggiunta molto razionale posteriore per adattarlo a Maria, quando è stato effettuato il passaggio da Elisabetta alla Madonna. 1,48b è chiaramente un inserimento-adattamento di 2ª mano (Hirsch II 173). La cosa è confermata dal brusco cambiamento di soggetto [«tutte le generazioni mi chiameranno beata»] all’interno di un blocco che dal 48a in poi ha sempre Dio come soggetto! Se originariamente il Magnificat fosse stato pronunciato dalla Madonna, nessuno si sarebbe sognato di trasferirlo su Elisabetta. Quindi sicuramente nella versione primitiva il Magnificat prorompeva dalla madre del Battista. Ciò però è relativo, perché neanche uno scriba avrebbe potuto improvvisare il Cantico, che è stato invece scritto «a tavolino» con l’AT davanti (probabilmente sia in ebraico che nella traduzione greca dei LXX). Con un esempio moderno, quanti celebranti oggi sarebbero in grado di improvvisare il canone della Messa, una preghiera eucaristica in maniera dignitosa? Ma non è questo il problema! Risulta invece epocale che l’annunciazione e la visitazione non ci fossero: il testo originario scorreva saltando dagli attuali 1,25 a 1,46b (o addirittura al 49; cfr più avanti 2.5.3), con Elisabetta che da sola continuava la sua lode per essere stata salvata dalla vergogna della sterilità, e non alla presenza di una Madonna sempre zitta, relegata allo svilito ruolo di semplice comparsa. Proprio i due suddetti codici purpurei ci segnalano e testimoniano un livello originario e primigenio del testo in cui, come già visto da Hirsch II 189 ma che quasi nessuno osa dire, l’intero primo capitolo parlava solo del Battista (annuncio a Zaccaria, nascita di Giovanni, giubilo di Elisabetta ecc.) senza alcuna annunciazione a Maria né visita alla cugina, cioè senza 1,26-45. Ad 1,25 [Poiché così fece il Signore..] era sùbito agganciato il 46 con «Elisabetta disse», o addirittura senza il 46a con una Elisabetta che prosegue ininterrottamente col Magnificat il ringraziamento del 25 [ovviamente senza 1,56]. O semplicemente «e disse» (sottinteso Elisabetta): questo traspare da Origene il quale, nelle sue omelie su Luca, sottolinea il fatto che in più esemplari («exemplaribus quibusdam» nella nota in calce all’Evangeliarum quadruplex latinae versionis antiquae da noi utilizzato per la sinossi del Vercellese, Veronese, Bresciano e Corbeiense) fosse omesso il nome di Maria; non ci sono allora come testimoni solo il Vercellese e il Veronese ma, come per il prologo, pure due scrittori [Origene appunto e il succitato Ireneo], che si rifanno a manoscritti greci, anche se essi non ci sono pervenuti. Il Veronese e l’Ireneo armeno, che a suo volta si rifà ad un codice siriaco, sembrano dipendere dallo stesso codice greco, o dallo stesso capostipite. O forse ancora meglio, in 1,25 [senza il 25 b (la vergogna tolta) e senza ancora i 5 mesi di nascondimento nel versetto precedente (24; cfr il successivo 1.3): il “dire” è in contraddizione col “tenersi nascosta”] il legousa oti, legousa oti (dicente che…; uno strano participio congiunto) introduceva un Magnificat semiridotto che partiva dall’attuale 1,49 (che comincia appunto con oti, oti), dicendo [e diceva, o e disse]: «Grandi cose/gesta mi ha fatto colui che è potente…» (che è quasi la fotocopia dell’attuale 25a) sino alla fine del Magnificat; una sezione molto compatta in cui Dio (o il suo nome, o la sua misericordia) è sempre il soggetto di tutte le frasi. 1.3 L’invenzione dei 5 mesiIl racconto, tutto incentrato sul Battista e i suoi genitori, scorre così liscio che risulta di un’evidenza solare, quasi “matematica” che in origine così stessero le cose. Nella versione della CEI 1,57 suona: «Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto…»; giusto e logico per continuità il legame col contesto tramite l’intanto, perché abbiamo un cambiamento di scena dopo che Maria se ne torna a casa (1,56) concludendo la visita alla parente-cugina durata circa tre mesi [tuttavia il “circa” non c’è nei nostri codici purpurei (Vercellese, Veronese, Corbeiense, Palatino) e neppure nel manoscritto greco D; sembra che i nostri purpurei seguano spesso quel codice greco che abbiamo utilizzato in maniera massiccia nel nostro lavoro sul Discepolo/a che Gesù amava]. Ma nel testo di 1,57 non c’è nessun “intanto”: «Per Elisabetta si compì il tempo del partorire lei, e diede alla luce un figlio». Versetto secco che segue alla sua recita del Magnificat; la consequenzialità è assicurata dal fatto che si continua a parlare di Elisabetta senza interruzione Invece chi ha introdotto in un secondo momento l’annunciazione-visitazione ha inserito una coordinata temporale in 1,26: prima il vago «eodem autem tempore» testimoniato dal Vercellese e Veronese, cioè nel medesimo tempo, nel frattempo, in quello stesso tempo. La permanenza di Maria presso la cugina è considerevole (tre mesi), per mostrare la sua amicizia e affetto parentale; essendo tuttavia vaga l’indicazione temporale (nel frattempo di 1,26) il fatto che se ne vada dopo tre mesi non significa che l’abbia lasciata indelicatamente alla vigilia del parto. Maria è stata con lei, diciamo, agli inizi della gravidanza di Elisabetta Ancora una volta il Vercellese e Veronese hanno la dizione più antica e originaria! Ma qualcuno poi non si è accontentato del vago “nel frattempo”, e prima ha inserito i 5 mesi di nascondimento di Elisabetta; se il bambino sussulta nel suo grembo al saluto di Maria, non può essere stato appena concepito. I 5 mesi vanno bene, ma è il nascondimento che è assurdo per una che non desiderava altro che proclamare a tutti la sua gravidanza [E mediamente, ad eccezione forse solo di una madre “in carne”, una gravidanza si vede ben prima del 5° mese]. All’inizio quindi il testo scorreva [senza i 5 mesi]…con legousa, legousa (dicendo), cioè dice subito il Magnificat a partire molto probabilmente dall’1,49 attuale [o dal 48: entrambi infatti cominciano con oti, oti]. In questo caso, escludendo la sicura aggiunta del 48b, secondo Hirsch II 173 avremmo una prima strofa [a due versi] costituita dal 48a e dal 49a, ed una seconda costituita dal 49b e dal 50. L’inserimento dei 5 mesi e lo spostamento del Magnificat nella visitazione (un “taglia e incolla”) ha sconquassato il 25a con tutte le varianti nei manoscritti che seguono al participio congiunto (del verbo dire): «Ecco cosa mi ha fatto il Signore…» (CEI), oppure così, o ciò, addirittura «Che cosa così» nel Vercellese [Quid ita mihi fecit Dominus], e nel Veronese [Quid mihi sic fecit Dominus], un’autentica contorsione per tappare il buco e collegare/incollare. Il quasi anacoluto costituisce una spia evidente del nostro impianto: occorreva chiudere in qualche modo la voragine apertasi qui col taglio del Magnificat e suturare con la ripetizione nel 25a [mi ha fatto così il Signore…; quasi la fotocopia del 49a) e con la conclusione aggiunta del 25b (la liberazione dalla vergogna). Ma perché inserire i 5 mesi? Perché dopo aver inserito i 5 mesi in 1,24, ciò permette un più preciso 1,26: «Nel sesto mese l’angelo Gabriele fu mandato..»: cioè sei mesi dopo l’annuncio a Zaccaria; o comunque al sesto mese di gravidanza di Elisabetta. Ma così facendo Maria se ne va dalla cugina al nono mese (sei + tre) in prossimità del parto in maniera decisamente scortese: per questo la stragrande maggioranza dei codici hanno premesso un “circa” davanti ai tre mesi di permanenza (un “circa” per difetto, cioè poco meno di tre mesi), per addolcire la pillola di una presunta indelicatezza. Chi ha inserito l’annunciazione-visitazione non è andato tanto per il sottile, senza preoccuparsi della palese sgarbatezza. L’importante era l’allacciamento della storia dell’annunciazione con l’incontro fra le due donne incinte/gravide (Hirsch II 174), e più in generale il collegamento fra le storie del Battista e quelle di Gesù (che nel livello originario non c’era). Ma, come già detto, il circa non c’è nei nostri purpurei (perché all’origine non ne avevano bisogno). Ciò significa, più in generale, che i nostri manoscritti purpurei spesso dipendono dall’antichissimo codice greco D, e hanno quindi sovente la versione più probabile e originaria: molto importante per le nostre tesi, che si rifanno in modo massiccio ai tali codici latini. Quell’enfant terrible di Hirsch ha visto giusto. Il quadro può essere così pre-annunciato: Poiché le storie del Battista non contengono alcun riferimento alle storie di Gesù, mentre 1,26-45.56 [che è stato scritto appunto dopo] guarda retrospettivamente ad esse [a Giovanni], bisognerà ritenere che le storie del Battista siano più antiche della pericope dell’annunciazione» (Schürmann 276). Non solo ma anche le storie di Gesù (in particolare 2,1-20, la nascita a Betlemme) sono più antiche di 1,26-45 (annunciazione); il racconto di Betlemme nulla sa della nascita verginale perché non conosce nemmeno l’annunciazione né la visitazione. LIVELLO 0 I racconti dell’infanzia non ci sono ancora (il Vangelo inizia al cap. 3°, con o senza il Proemio di 1,1-4). LIVELLO 1
LIVELLO 1a Abbiamo i racconti dell’infanzia senza l’annunciazione a Maria, col primo capitolo tutto sul Battista, e solo il secondo tutto su Gesù [testimoniati dal Vercellese e dal Veronese con «Elisabetta disse…»]. Il secondo capitolo si chiude nel suo primo livello e parziale elaborazione al v. 20; dopo aver ben evidenziato lo stupore (dei pastori, degli uditori, di Maria), si dice maestosamente: «I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro». C’è tutto (udito, vista, parola) in questa originaria e solenne chiusura-conclusione del racconto di Betlemme. 1.4 Materiale leggendario ad oltranza In origine la presentazione di Gesù (senza ancora farne il nome!) parte di brutto solo nel capitolo 2° con l’editto di Cesare Augusto. Non essendoci un’adeguata preparazione (come per il Battista), per necessità la spiegazione teologica è tutta affidata all’angelo / agli angeli / alle schiere-eserciti celesti che (presupponendo una loro parziale discesa) intonano il «Gloria a Dio…» per poi ri-salire in cielo assieme agli uomini (!!) [nella maggioranza dei codici, ma «tagliato» in tutte le nostre Bibbie: 2,13.15 è uno dei passi più mitologici del NT]. E’ fondamentale questa saga angelico-pastorale per l’annuncio teologico e salvifico (senza ancora un’annunciazione a Maria). La narrazione del viaggio a Betlemme, della mangiatoia-greppia ecc., sarebbe gravemente insufficiente senza l’angelologia mitica. Ma la cosa non può essere limitata geograficamente solo ai dintorni campestri di Betlemme e all’interno di una greppia. C’è bisogno di una universalizzazione cosmica: da qui l’annuncio della moltitudine delle schiere celesti col «gloria a Dio ecc.»; gli angeli poi risalgono in cielo da soli [solamente in una quindicina di codici), mentre nella stragrande maggioranza dei manoscritti, come appena detto, ci sta “gli angeli (+) e gli uomini che tornano nei cieli!! Ma l’esercito del cielo, ossia le schiere celesti da cosa sono costituite? Da angeli, o da stelle, oppure da uomini? O da tutti questi insieme? Fra l’altro in Atti 7,42 “la schiera del cielo” ha una valenza negativa (come in Geremia 7,18 e 19,13): «Ma Dio si ritrasse da loro (quelli del vitello d’oro) e li abbandonò al culto dell’esercito del cielo», nel discorso di Stefano. Cosa vuol dire questo versetto (2,15), fra i più mitologici del NT, secondo cui gli angeli e gli uomini risalgono in cielo?? [perché e gli uomini è stato «segato» in tutte le nostre bibbie? Caro Ratzinger, anche questa è storia? Ma su questo passo oscuro tuttavia ritorneremo sia più avanti (2.2) e sia in sede di conclusione]. Abbiamo quindi un corposo materiale leggendario (Hirsch II 192); non è un caso che questi due capitoli ne siano più ricchi e infarciti di qualsiasi altra pericope evangelica. 1.5 Gli angeli e i pastori per sopperire al vuoto In questo livello, senza l’Annunciazione e senza Simeone, sottolineiamo lo sbilanciamento tutto a favore del primo capitolo (Battista) ed a sfavore del secondo che risulta inferiore, depauperato. Ripetiamo sino alla nausea che nel primo abbiamo tutto: annuncio a Zaccaria, nome del nascituro, decorso con ben due cantici (uno della madre e uno del padre), con il protagonista che è a conoscenza degli eventi. A questo stadio invece il secondo capitolo non contiene neppure il nome (Gesù), senza alcuna preparazione-annunciazione, con la protagonista (Maria) o i protagonisti (genitori) che non hanno ancora ricevuto alcun annuncio, nessuna informazione più precisa al riguardo (si comincia a parlare della “sacra famiglia” con l’editto di Cesare Augusto). Ecco il perché dell’ipertrofia degli angeli e dei pastori: sono il medium per trasmettere il messaggio sul bambino (salvatore, con grande gioia per tutto il popolo…), e per informare i genitori. Infatti con l’annuncio dell’angelo (singolo) ai pastori, e poi con la proclamazione del Gloria a Dio da parte delle schiere celesti, la cosa è chiara per il lettore, ma non è ancora giunta ai destinatari più interessati; appunto dai pastori (l’esercito del cielo da solo non basta) Giuseppe e Maria apprendono finalmente qualcosa di più concreto e preciso. Che bisogno c’era infatti per i pastori, nel momento in cui vanno a vedere l’evento «in diretta» nella mangiatoia, di riferire ai protagonisti quel che in teoria avrebbero dovuto già sapere in quanto genitori, e di cui invece sono in buona parte ignari pur essendone gli attori principali? La rivelazione, come un calcio di rigore, li spiazza perché convinti di aver avuto un figlio nella norma anche se in circostanze precarie. Sempre il Veronese, che omette il «dopo averlo visto» di 2,17 (assieme ad un altro codice purpureo, il Corbeiense), ci testimonia quel livello originario in cui, visto o non visto, vedendolo o non vedendolo, fondamentale era che i pastori riferissero «esattamente» (in alcuni codici, sempre nel v. 2,17) quanto avevano “udito” sul quel bambino. E’ per questo che si dice che Maria conservava tutte queste parole meditandole nel suo cuore (2,19), perché «…le sente per la prima volta»; e non come pensa Papa Ratzinger il quale ritiene che tutti gli avvenimenti dell’infanzia siano stati tramandati da una «tradizione familiare» (Maria ovviamente in primis), concependo il “serbare” e il meditare nel cuore come un processo storico cominciato con un’annunciazione avvenuta all’inizio e proseguito con tutti gli eventi seguenti che hanno fatto via via “maturare” e sedimentare le cose alla Madonna. Come mai allora lo stupore in 2,33 e il «non capire» in 2,50? Infatti Giuseppe e Maria avrebbero dovuto capire e sapere benissimo il tutto (Hirsch II 172) grazie alle informazioni date nell’annunciazione classica e completa (compresa l’annuncio in sogno a Giuseppe in Matteo) e sulla base del concepimento verginale (non è stata intesa come una concezione verginale segreta all’insaputa dei protagonisti). Invece sono convinti di aver avuto un vero figlio «loro» nella norma anche se in condizioni precarie per il parto. Se poi Maria avesse veramente serbato e meditato nel suo cuore tutte quelle parole e quegli eventi, non sarebbe andata, assieme agli altri suoi figli, a prenderlo perché lo consideravano pazzo (il micidiale Mc 3,21). Ripetiamo concludendo questo livello 1a: data ancora l’assenza dell’annunciazione (senza quindi alcuna preparazione di quanto sta avvenendo), sono i pastori a mediare l’annuncio angelico, ossia la proclamazione tout court dell’avvento del salvatore (bambino, senza ancora il nome “Gesù” durante tutto il racconto di Betlemme in 2,1-20). La leggenda serve, è funzionale e necessaria per esprimere l’annuncio (il vangelo, la lieta novella). Oltre tutto la nascita fuori (isolata, non nel paesino di Nazareth), lontano, ne favorisce la solennità-sacralità, unendo il mondo di sopra (angeli) col mondo di sotto (pastori); Matteo si è servito dei Magi (provenienti da molto lontano, da Oriente) per dare risalto e solennità al messaggio salvifico (con un tocco di astrologia che non guasta mai ai fini della sacralità). 1.6 Angelus Domini nuntiavit Mariae Ciò nonostante, si avvertì la debolezza-insufficienza della nascita di Gesù rispetto al più corposo e ipertrofico cap. 1°, con tanto di preparazione e annunciazione a Zaccaria, e con ben due cantici (il Magnificat della madre del Battista e il Benedictus del padre). Si è allora inserita, per eliminare appunto questo scompenso del secondo capitolo molto più scarno del primo, l’annunciazione-visitazione, ma con più ondate e inserzioni: ad es. prima 1,26-42 (44) e poi 45-48a. LIVELLO 1b Inserimento dell’annunciazione e della visita ad Elisabetta nel capitolo primo quale preparazione al capitolo secondo. Abbiamo seguito Bultmann, Clement, Montefiore, Bundy, Kraft, che vedono più inserzioni, da noi delineate con grande fatica nella seguente tabella comparativa, che va presa in linea di massima (qualche pericope da noi piazzata nei primi livelli potrebbe essere leggermente posteriore, e viceversa). Le cifre (1,2,3) designano sempre il livello, a sua volta suddiviso in due fasi (a e b); quindi 1a, 1b, 2a, 2b, 3a, 3b. La prima cifra di ogni paragrafo designa sempre il suo corrispondente livello. Livello 1: veterotestamentario-giudaico Livello 2: intermedio Livello 3: ormai greco-ellenistico TABELLA DELLE INSERZIONI PROGRESSIVE 1.7 Giustificazione dell’1b: obiezioni di Schürmann [digressione]
Solo in un secondo momento, nel livello che abbiamo chiamato 1b, viene inserita la pericope mariana con la visitazione per riassorbire il Battista (e il suo movimento all’inizio alternativo!) nell’alveo cristiano, facendo diventare le due madri parenti (cugine) e con la splendida sceneggiatura del loro incontro [l’opposto di quel che pensa Benedetto XVI]. In concomitanza venne inglobata anche l’annunciazione, ma nella sua forma breve di 1,26-33.38ss (privo del 34-37, e col 27 corto, senza alcun accenno a Giuseppe), con l’aggiunta del 56 come ovvio congedo della Madonna dalla parente-cugina. Il Magnificat è un cantico- salmo che Hirsch chiama sempre di Elisabetta tout court («der Psalm der Elisabeth», ad es. a p. 173, 174, 189, tanto è sicuro dell’attribuzione alla cugina e non a Maria). Non ci son santi: è lectio difficilior, quindi più probabile e originaria. Ma era attribuito ad Elisabetta quando la visitazione non c’era ancora! Tutte le obiezioni di Schürmann (e di altri) al fatto che il Magnificat sia di Elisabetta (loro sostengono l’attribuzione tradizionale alla Madonna), si basano sul testo attuale con la visitazione già presente: ma nel nostro testo finale, senza pensare alla distinzione dei livelli, è insostenibile un Magnificat attribuito ad Elisabetta. Se non si guarda alle “irruzioni” susseguitesi, se non si accettano le più mani in tempi diversi, allora la nostra esegesi non regge. Schürmann legge solo il testo finale e formula tutte le sue obiezioni; non tiene presente che non è tanto rilevante che sia l’una o l’altra donna a recitare il Magnificat, ma che Maria non c’era!!! Tutto il mio impianto si basa sulla distinzione dei livelli e sulle inserzioni progressive (altrimenti non ha senso). Elisabetta in origine recita il Magnificat in assenza della Madonna. 1.7.1 L’annunciazione e soprattutto la visitazione non c’erano ancora (altrimenti non si capisce, e tutto il mio ragionamento non quadra). In origine Elisabetta prosegue dopo 1,25 direttamente col Magnificat (semiridotto a partire dall’attuale 1,49, o dal 48a); e subito si passa a 1,57: «si compì il tempo del parto». Una prima obiezione di Schürmann [che correttamente riconosce la lectio difficilior e quindi deve portare motivazioni per smontarla] suona: «Un canto di lode di Elisabetta, inoltre, avrebbe trovato un posto più appropriato dopo il v. 25» (Schürmann 175); infatti era dopo il 25!!!! Un’altra obiezione di Schürmann dice: «Il canto sulla bocca di Elisabetta (in particolare "d'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata", 48b) costituirebbe un'esagerazione non facilmente accettabile» (Schürmann 176); ma il 48b non c’era! Si tratta di un’aggiunta razionale (Hirsch II 173) come già detto nell’1.2, e che sarà ripreso nel 2.5.4; tra l’altro, come già detto, il soggetto nuovo “tutte le generazioni” interrompe brutalmente la serie compatta delle frasi in cui Dio è sempre soggetto. E’ una spia quasi “matematica” che si tratta di un’aggiunta posteriore e secondaria (appunto per adattare il Magnificat alla Madonna). 1.7.2 Subito dopo il Magnificat (che rimane lassù nel testo / prima dell’Annunciazione ) e prima di 1,57 (tempo del parto) si inserisce la pericope dell’Annunciazione. Ma bisogna poi collegarla con “il tempo del parto” di Elisabetta [la bibbia non conosce le storie parallele come nei nostri film / l’alternarsi delle sequenze di storie diverse]. La Visitazione è quindi è perfetta per collegare le due cose [oltre che per altri motivi come quello di riassorbire il movimento battista nell’alveo cristiano], e ritornare ad Elisabetta… Abbiamo quindi il giubilo di Elisabetta [senza l’1,43 e 1,45 che sono chiaramente delle aggiunte].., a cui fa seguito immediatamente la chiusura di 1,56 (senza il Magnificat qui): «Maria rimase con lei»: questa conclusione ha senso se Elisabetta ha appena finito di parlare (ma non col Magnificat che è ancora lassù prima dell’annunciazione), bensì col sussulto del bimbo nel seno (problema: col fatto raccontato in 1,42, o nel “parlato” del v. 44 che lo ribadisce? Cfr più sotto 2.5.4). Se fosse la Madonna che ha appena finito di recitare il Magnificat (o comunque di parlare), la frase doveva essere (esattamente con le specifiche rivoltate): «E rimase (sottinteso chi ha appena finito di parlare, cioè Maria) con Elisabetta/con la cugina» [tutto, ma non con “lei” che è lontanissima se il lungo Magnificat è di Maria]; 1,56 è una spia micidiale di quanto stiamo sostenendo, soprattutto quel «rimase con lei». Schürmann prosegue: «Inoltre si è fatto osservare che nel v.56 si menziona di nuovo - senza necessità - Maria invece che Elisabetta, come sarebbe richiesto. Ma che, dopo un canto, il cantore venga di nuovo menzionato è un fatto che ha paralleli nell'Antico Testamento. E' evidente che per la sensibilità del narratore Elisabetta è stata messa così in risalto nei versi 39-45 che un'ulteriore menzione esplicita di lei gli è apparsa superflua» (Schürmann 175): quest’ultima osservazione è quasi patetica per salvarsi… Quel lei di 1,56 non si può riferire ad una persona distante 10 versetti!! Una persona nominata praticamente un’intera pagina prima!! 1.7.3 Ma in questo modo Maria fa scena muta! Per la precisione c’è stato un primo passo (1) con l’inserimento dell’annunciazione-visitazione col Magnificat ancora dopo l’1,25, prima dell’annunciazione stessa! A ciò è seguito un secondo passo (2) nel quale il Magnificat è stato spostato in 1,46 per farlo declamare a Maria. Si può quindi osservare con le corrette parole di Schürmann 175-176: «Il contesto per di più esige, dopo l'espressione di lode di Elisabetta nei vv.42-45, una risposta di Maria; un doppio discorso monologico di Elisabetta non può essere stato intenzionalmente voluto, tanto più che il primo intervento parlato di Elisabetta nei vv. 42-45 avrebbe richiesto, sul piano del contenuto, una lode a Maria, non a Elisabetta stessa. Inoltre, a favore di Maria c'è anche la formula di introduzione, che in Luca indica per lo più che si passa da un interlocutore all'altro, mentre un'allusione ricercata in una presunta fonte ebraica non dice molto». Tutto quanto affermato nelle righe citate è giusto!!! Ma avviene nel momento (2) in cui si porta giù il Magnificat che era sopra (attaccato all’1,25), e lo si attribuisce alla Madonna (il suddetto secondo passo). Tutto il nostro impianto si basa sulle inserzioni progressive, nella fattispecie con una prima inserzione (1° passo) della visitazione che saltava da 1,44 a 1,56: il che costituisce un complesso narrativo in sé coerente, riconosciuto da parecchi esegeti [per la doppia possibilità del v. 1,44 cfr più avanti nel 2.5.3]. Pur essendo coerente la scena è tuttavia striminzita e troppo rapida; anche per questo si è deciso di portar qui giù il Magnificat per allungarla e renderla più corposa. 1.7.4 A questo punto, dopo lo spostamento del Magnificat, si sarebbe dovuto ritoccare il finale con «E rimase [sottinteso Maria che ha appena terminato di declamare il Magnificat] con Elisabetta…» (1,56); ma a chi è intervenuto (un altro rispetto ai precedenti, l’ultimissimo redattore) non interessava più di tanto andare a toccare qualcosa che fra l’altro non aveva scritto lui. Gli interessava di più, dopo aver trasferito il magnificat da Elisabetta a Maria, immettere tutta una serie di aggiunte, varianti e collegamenti che vedremo nel livello 2b (2.5.3 e 2.5.4). In tutta la storia del Battista (nel cap 1° originariamente a lui solo dedicato) non è per niente chiaro che sia il precursore…(anzi non c’è nessun collegamento con Gesù, neppure in prospettiva col Gesù adulto); Gesù e Giovanni sembrano quasi alla pari, senza dimenticare che addirittura Giovanni è stato probabilmente il maestro di Gesù! Nel Benedictus (1,76) abbiamo: «E tu bambino sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore (=Dio) a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati»; non sono le vie del Signore (Gesù), ma del Signore-Iddio unico dell’AT. Tutto il cantico potrebbe essere riferito pari pari anche a Gesù: non è sufficientemente differenziato a favore del Battista, così come il Magnificat è sostanzialmente indifferenziato quanto alla sua proclamatrice (Elisabetta o Maria). I due cantici non sono nati, creati ex novo appositamente per personaggi cristiani (Battista, Gesù e rispettive madri), ma sono collage (precedenti) di passi dell’AT già pre-esistenti nel giudaismo palestinese (come 1,32-33 che si trova anche in Qumran, cfr. più sotto 1.9). ----------- Riprendendo il discorso dopo la suddetta lunga digressione, abbiamo in 1,31-33 un annuncio vetero-testamentario, regale, davidico senza ancora nessuna verginità. 1.8 Il passo micidiale Il veronese ci testimonia appunto come suonava la prima stesura dell’annunciazione sino al versetto 1,34.38: 30Et ait ei angelus domini: Ne timeas Maria, inuenisti enim gratiam apud deum, 31et ecce concipies in utero, et paries filium et uocabis nomen eius Jesum.32Hic erit magnus et filius altissimi uocabitur, et dabit illi dominus deus sedem Dauid patris eius, et regnabit in domo Jacob in aeternum,33et regni eius non erit finis.34Dixit autem Maria: Ecce ancilla domini, contingat mihi secundum uerbum tuum…. 38Et discessit ab illa angelus [E l’angelo partì da lei]. Il veronese (unico codice a farlo fra quelli a noi pervenuti) anticipa al 34 quello che negli altri è il 38a (Allora Maria disse: «Ecco la serva/ancella del Signore, sia fatto di me secondo la tua parola, che chiameremo il 34 ancillare in contrapposizione al 34 classico che contiene l’obiezione del “non conosco uomo”, o perlomeno una richiesta di delucidazioni al riguardo); ma il veronese non ha spostato materialmente nulla, in quanto è il frutto conclusivo di una traduzione da un testo/codice greco che suonava tale: il suo capostipite o esemplare, come nel prologo giovanneo. La prima scena si chiude in modo deciso con l’accettazione di Maria senza che compaia il «Come è possibile? Non conosco uomo», che è l’unica allusione alla verginità. Se togliamo tale frase (che costituisce il v. 34 classico in tutte le Bibbie, ma manca nel Veronese), la verginità sparisce come per incanto dal vangelo lucano [infatti nel codice purpureo di Verona non compare alcuna verginità]; non si trova assolutamente nel resto del vangelo (dal cap. 3° in poi), e neppure al capitolo secondo che pur fa parte dell’infanzia. Infatti le edizioni critiche scelgono tutte ad es. per Lc 2,33: «E suo padre e la madre si stupivano…», che la lectio difficilior, quindi più probabile e originaria anche se contenuta solo in una quindicina di manoscritti. La stragrande maggioranza dei codici (compresi i nostri tre purpurei, di cui si può vedere la sinossi nell’ultima pagina) hanno invece “Giuseppe e la madre”, appunto perché, avendo gli estensori del 4/5 secolo [a maggior ragione quelli dei secoli seguenti] ormai in testa la verginità, vogliono evitare di dire “suo padre” per scongiurare la paternità naturale di Giuseppe. Anche la CEI attutisce in parte: “Il padre e la madre di Gesù” equiparando esattamente paternità e maternità mentre nel teso prevale leggermente la paternità. Ma è altrettanto significativo il micidiale «tuo padre ed io» di Lc 2,48 conservato da tutte le edizioni critiche; al ritrovamento nel Tempio la madre dice: «Figlio perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre ed io con grande ansietà ti cercavamo…». Per quanto concerne i manoscritti latini, solo il Bresciano lo mantiene (oltre alla Vulgata), mentre nel Veronese e nel Vercellese il “tuo padre ed io” risulta cioè omesso [l’omissione può risalire ai capostipiti greci, e non è detto che sia il frutto diretto dei redattori latini] nonostante il testo prosegua in maniera tranquillizzante col «non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio / oppure è necessario che io sia nella casa del padre mio». Il tutto viene inserito per chiarire che semmai il vero Padre è Dio o lo Spirito santo, non Giuseppe; o comunque per escludere chiaramente la paternità naturale del fabbro-falegname. Questo avviene ovviamente solo nella redazione super-finale (il nostro livello 3b) che ha apportato ritocchi e cancellazioni di tipo dogmatico. Il dato che il Veronese in quanto tale non contenga la verginità, non è in contraddizione col fatto che i suoi ultimi redattori invece ce l’abbiano in testa (data la sedimentazione della concezione verginale nel IV/V secolo, anche se non era così diffusa in estensione come si crede, e nemmeno così radicata in intensità); quindi o l’omissione del «tuo padre ed io» nel 2,48 risale già agli esemplari greci, oppure proprio loro (i redattori del Veronese) l’hanno seccato di brutto. Come già aveva capito Dibelius, il capitolo secondo non conosce la verginità, e più in generale non conosce proprio il primo capitolo (identica cosa in Matteo); e allo stesso modo il primo non conosce il secondo e la tradizione betlemita solo nel secondo contenuta (idem in Matteo). Come rilevato anche da Meier, tradizione verginale e tradizione betlemita non s’intersecano mai, neppure nella redazione finale! La tradizione betlemita è inoltre sconosciuta al quarto vangelo, sulla base della feroce polemica di Gv 7,40-52 (perché, se l’avessero saputo, avrebbero accennato alla nascita a Betlemme per rispondere alla grave obiezione che non può venire nulla di buono da Nazareth): né gli autori né i lettori del quarto vangelo, all’inizio del 2° secolo, nulla sanno ancora della nascita a Betlemme, che infatti non c’è stata. Ma l’hanno fatto nascere a Betlemme per ripristinare e rinvigorire in qualche modo la messianicità regale dopo lo smacco della crocifissione e della distruzione di Gerusalemme (è questo il regno eterno sulla casa di Giacobbe?). Tornando a Luca, ricordiamo che nel livello precedente 1a il primo cap. è tutto e solo sul Battista, mentre il secondo è tutto sul bambino salvatore (non si dice ancora “Gesù”). Quindi nel livello 1 (a + b) I e II cap si ignorano beatamente: solo il posteriore 2,21 (livello 2b) collegherà il secondo cap. col primo. Ed è, come già preannunciato all’inizio, altrettanto evidente che le storie del Battista sono antecedenti alle storie di Gesù, ed a maggior ragione della pericope dell’annunciazione; il capitolo 2° non solo ignora la verginità ma non sa nulla nemmeno dell’annunciazione e della visita ad Elisabetta. Ritornando al nostro codice purpureo, non tiene infatti a mio parere la spiegazione classica e devota, secondo la quale il veronese avrebbe fisicamente e materialmente anticipato (rispetto al suo predecessore) il 38a per togliere la domanda imbarazzante di una Maria che dubita e «obietta»: per differenziarla da Zaccaria, il padre del Battista, che invece per il suo dubbio era stato punito con la perdita della parola. Non regge perché, se ci fosse stato nel suo capostipite il «non conosco uomo», omettendolo per togliere il dubbio, avrebbe eliminato la verginità tout court: infatti in tal modo non comparirebbe alcuna richiesta di delucidazione al riguardo (!!), e la nascita sembrerebbe naturale. Ciò è suffragato anche da un'altra preziosa “perla” del codice di Verona (e pure del Vercellese, anche se corrotto in quel punto, rafforzati pure dal Palatino e dal Siriaco sinaitico), scelta correttamente anche dalla versione Cei in 2,5: «…per farsi registrare insieme con Maria sua sposa [a lui sposata] che era incinta». La quasi totalità dei codici ha/avrebbe di per sé la stessa espressione dell’1,27 lungo nell’annunciazione: «a lui promessa sposa»; tuttavia «Maria sua sposa», nonostante la debole testimonianza, è lectio difficilior [quindi più probabile e originaria] che deve aver urtato la sensibilità della cultura teologica di Alessandria d’Egitto. Ma la scelta dei nostri codici purpurei (e degli esemplari anteriori greci a cui si rifanno) è azzeccata: Giuseppe e Maria vivevano già insieme perché un viaggio nello stato di “fidanzati” sarebbe stato contro il costume; Maria quindi era già andata a convivere in casa dello sposo (Schürmann 217s, n. 37; Hirsch II 171). Tutti quei manoscritti che hanno corretto con «a lui promessa sposa» [th emnhsteumenh autv, tê emnêsteumenê autô, con riferimento a 1,27] vogliono ovviamente tener aperta o non sbarrare la strada alla verginità, spostando la convivenza e il matrimonio vero e proprio il più avanti possibile nonostante Maria sia incinta. Mentre infatti per Elisabetta si indica la data del concepimento (1,24), per Maria non viene mai menzionata tale data (Schürmann 138). 1.9 Annuncio veterotestamentario e intertestamentario, nell’ambito del giudaismo palestinese Del resto la secca ed unica conclusione del 34 ancillare è perfettamente in linea con l’abissale differenza dei vv. 30-33 rispetto al 35 che parla un’altra lingua; infatti è un inserimento secondario, posteriore). Nella prima e originariamente unica parte (30-33) l’annuncio dell’angelo è quanto di più giudaico e veterotestamentario vi possa essere, senza la benché minima notizia su un concepimento verginale [ma l’angelo non annuncia alcun concepimento verginale neppure dopo (v. 35), cfr più sotto 3.1]; nelle sue parole c’è la grande promessa di un figlio naturale seppur eccelso. In 31-33 si tratta di un’escatologia dell’al di qua con la sovranità (più o meno messianica) secolare senza fine del veniente rampollo di Davide (Schürmann 142). Un’escatologia vetero-giudaica infra-storica (di questo mondo; l’opposto del giovanneo «il mio regno non è di questo mondo), che va ben oltre la vita terrena di Gesù; una figliolanza davidica con regno eterno sulla casa di Giacobbe. Qui non si ritiene, e giustamente, che la promessa si sia realizzata “spiritualmente” nei giorni terreni di Gesù (Schürmann 141). Gesù è il promesso figlio di Davide, perché Dio gli darà il trono di Davide sua padre: semmai il padre [trisavolo all’ennesima generazione] di Gesù è Davide [tramite l’ascendenza di Giuseppe: Maria sarebbe di stirpe levitico-aronita in Luca, se diamo credito alla sua parentela con Elisabetta], e non Dio! Oppure lo è, molto più semplicemente, tramite Maria se essa (1,27 corto: alleggerito, senza alcun accenno a Giuseppe, che appesantisce la frase; cfr più sotto 1.10) è della casa di Davide. Figlio dell’altissimo non ha il significato che la gente attribuisce al titolo figlio di Dio. [Fra l’altro secondo l’antichissima formula di fede, citata da Paolo nella lettera ai Romani 1,3s, Gesù è figlio di Dio a partire dalla resurrezione in una concezione adozianista; i sinottici arretrano questa adozione al momento del battesimo con la voce dal cielo. Questa adozione è molto diversa, e molto/molto più leggera del dogma trinitario di Nicea…; e questa cristologia adottiva battesimale è pure diversa dalla concezione verginale di un essere pre-esistente che poi s’incarna: un vangelo, che all’inizio contiene questa cristologia adottiva, con immensa fatica può poi assorbire una figliolanza divina come prodotto derivante dallo Spirito e da una vergine (Hirsch II 192)]. L’essere figlio dell’Altissimo [non ancora “figlio di Dio”] qui nel v. 32 «è posto in relazione con l’intronizzazione messianica e ad essa subordinato» (Schürmann 149-150): cioè è figlio dell’Altissimo in quanto figlio di Davide e Messia [e non viceversa, come siamo abituati a pensare di solito: se suo padre è Dio (nel senso del catechismo), può essere tutto, Messia, Salvatore, Redentore, Signore ecc., senza andare troppo per il sottile]. Col Messia davidico siamo lontani anni-luce da Nicea e da Calcedonia! Ci troviamo invece in pieno ambito veterotestamentario e inter-testamentario palestinese. Lo testimoniano i vv. 29-30: le espressioni “trovare grazia” ed essere la “favorita” (e non tanto «piena di grazia» come nelle traduzioni; comunque è bellissimo il kecaritwmenh, kekaritômenê) sono sempre secondo la testimonianza biblica “in riferimento a qualcosa”, nella fattispecie qui la dignità messianica di madre (madre del Messia; Schurmann 135). Anche «Il Signore è con te» è un’espressione tipica e fondamentale della teologia veterotestamentaria del patto (Schurmann ivi). In un testo di Qumran (4Q246), plausibilmente in relazione alla figura messianica, si dice che «sarà grande…, dominerà come Re sulla casa di Giacobbe, sarà chiamato Figlio di Dio…, lo chiameranno Figlio dell’Altissimo…, ed il suo regno è un regno eterno». È praticamente identico al testo lucano di 1,31ss; il che testimonia l’esistenza di questa concezione all’interno del giudaismo palestinese dell’epoca. E ovviamente in Qumran non c’è la minima traccia di una concezione verginale, e men che meno di un essere (divino) pre-esistente che poi s’incarna. Non bisogna leggere i racconti dell’infanzia col paraocchi della pre-esistenza e dell’incarnazione del prologo giovanneo [la pre-esistenza del Figlio, in quanto seconda persona della Trinità poi nel dogma, che ad un certo punto s’incarna]; anche il popolo, il Re è figlio di Dio, ed anche Adamo alla fine della lunga genealogia del cap. III (3,38) è chiamato (figlio) di Dio: e naturalmente nessuno di essi pre-esiste alla propria nascita. Figlio dell’Altissimo designa un grande personaggio con una missione epocale e salvifica. È chiaro il riferimento alla giovane donna (almah) di Isaia 7,14 che partorirà un figlio, tradotta «erroneamente» dai LXX con vergine (parthenos; cfr Lc 1,27). [Abbiamo così un doppio dogma dovuto ad errori di traduzione; il primo è il quasi-dogma (perché mai formalmente definito) della verginità, presente chiaramente nel simbolo cosiddetto romano, ossia il “Credo corto” originariamente in latino che abbiamo imparato da bambini («fu concepito di Spirito santo, nato da Maria Vergine» natus ex Maria Virgine, quello con la discesa agli inferi, descensus ad inferos), mentre essa è molto più debole nel cosiddetto simbolo niceno-costantinopolitano, ossia il “Credo lungo” recitato nella Messa («per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della vergine/parthenos Maria). Se non prendiamo alla lettera la discesa agli inferi, ma la interpretiamo demitizzandola, perché non possiamo fare altrettanto con la concezione verginale?? Il secondo dogma è quello del peccato originale, dovuto in gran parte ad un’errata traduzione di Rom 5,12ss: uno stanco e sonnecchiante Girolamo ha tradotto «in quo (cioè in Adamo) omnes peccaverunt»: cioè tutti hanno peccato in Adamo a prescindere dai propri peccati personali (senza alcuna responsabilità e colpa; una cosa indigeribile per un moderno). Mentre invece Paolo dice che «come a causa di Adamo il peccato e la morte sono entrati nel mondo, così la morte è passata in tutti gli uomini perché (in quanto) tutti hanno peccato», cioè coi loro peccati personali (in modo responsabile e colpevole). Il peccato originale è un peccato originale grammaticale!]. 1.10 La sceneggiatura della nascita a Betlemme Ritorniamo all’1b, in particolare al suo aspetto ebraico-giudaico (in senso globale), diverso da giudaico nel senso della Giudea (la regione di Gerusalemme a Sud), e non ad es. della Samaria al centro o della Galilea a Nord (senso ristretto). Abbiamo a che fare con un annuncio tipicamente ebraico, veterotestamentario, preoccupato della salvezza d’Israele, ma di tutto Israele (senza particolarismi). C’è un particolare interesse per i Samaritani (Hirsch II 190, 192): il regno sulla casa di Giacobbe evoca chiaramente la Samaria (il pozzo di Giacobbe di Gv 4, e la polemica se si debba adorare Dio al tempio di Gerusalemme o sul monte Garizim; col conseguente odio/disprezzo dei giudei per i samaritani). Questo passo ha quindi un atteggiamento marcatamente anti-giudaico (nel senso ristretto; vuol superare i pregiudizi anti-samaritani dei giudei), ma resta ben ancorato ancora all’ambiente ebraico-cristiano. Non v’è dubbio che qui, nel livello da noi chiamato 1, non è ancora avvenuta una reale e profonda separazione della cerchia giudeo-cristiana, da cui provengono queste leggende, dai legami religiosi col giudaismo [in senso lato] (Hirsch II 187, citato da Schurmann 279, nota 360). E questo in entrambi i vangeli dell’infanzia, in cui abbiamo dei racconti popolari nati in ambiente giudaico. La figura di Mosè, il continuo rimando a testi profetici, utilizzati come chiave teologica per interpretare, se non per orientare e pilotare lo sviluppo dei vari episodi, sono determinanti in Matteo (A. Bodrato, Poca storia, tanta teologia, il foglio 399). Ci s’inventa la strage degli Innocenti e la fuga in Egitto, per far realizzare le scritture nell’ambito del midrash-peser. Ma anche in Luca la nascita di Giovanni da genitori anziani e sterili rimanda ad analoghi passi biblici. I cantici di Elisabetta (Magnificat), di Zaccaria (Benedictus) e di Simeone (Nunc dimittis) sono collage di versetti dei Salmi e dei profeti. Il contesto giudeo-cristiano mira, non ancora alla dimostrazione delle origini di Gesù senza padre terreno, ma soltanto alla dimostrazione della sua provenienza davidica, e quindi della sua messianicità. Schürmann non è convinto di quest’ipotesi poiché essa costringerebbe a cancellare il doppio parthenos (vergine) di 1,27; non siamo d’accordo, perché non c’è nulla da rivedere. Anzitutto parthenos (come nel dizionario greco-italiano dell’abate Rocci, che tiene conto del NT) può anche indicare semplicemente una ragazza, figliola, donzella, giovane non maritata. Su questa base la traduzione che i LXX hanno fatto di Is 7,14 (almah), che sta dietro al nostro testo, più che errata risulta imprecisa [parthenos sarebbe l’equivalente di betullah, non di almah]. Si tratta di una giovane donna, ovviamente vergine come lo erano allora tutte prima della convivenza matrimoniale. E poi nel testo più antico era detta parthenos una sola volta: dall’analisi letteraria risulta infatti che di fatto Giuseppe nel racconto sembra superfluo, e la frase senza di lui ne risulterebbe alleggerita (Schürmann 132, n. 10 nella scia di Dibelius, Gächter, Voss). L’eliminazione renderebbe superflua anche la ripetizione finale di parqenoς, parthenos; il testo corto suonerebbe quindi: «…ad una giovane donna [con o senza] della casa di Davide». Per Dibelius andrebbe lasciata, e quindi Maria sarebbe della casa di Davide! Lei, e forse non tanto Giuseppe: ciò spiegherebbe, sempre nell’ambito di una sceneggiatura romanzata, il fatto abnorme che una donna al nono mese di gravidanza compia un viaggio di circa 100 km nelle condizioni di allora; se invece solo Giuseppe era della casa di Davide, avrebbe potuto fare il viaggio da solo perché era (soprattutto) lui a doversi registrare! Ciò corrisponderebbe al 1,27 lungo posteriore con le aggiunte evidenziate in rosso: «ad una giovane donna promessa sposa ad un uomo, di nome Giuseppe, della casa di Davide, ed il nome della vergine era Maria». Chi ha aggiunto Giuseppe nel 27 lungo, trasferendo l’ascendenza davidica da Maria a Giuseppe medesimo, non aveva la minima concezione verginale in testa; perché tale trasferimento avrebbe creato solo problemi, fastidi e grattacapi, andandosi a scontrare con una paternità solo legale o putativa! La discendenza davidica è stata trasferita su Giuseppe sia perché la linea maschile allora era decisamente favorita e considerata [sino alla scoperta dell’ovulo femminile in epoca moderna la vis generativa era solo dell’uomo; l’utero era poco più di un contenitore], e sia perché Maria, divenuta nella sceneggiatura parente-cugina di Elisabetta di stirpe aronita, perse la sua ascendenza davidica. Ma se Maria, in conformità all’1,27 corto, era della casa di Davide, c’è stato un primo livello/momento da cui non sarebbe dovuto sorgere alcun problema: la concezione verginale, peraltro ultima a comparire, non avrebbe comunque disturbato in alcun modo l’ascendenza davidica per via materna, anzi l’avrebbe rafforzata con una discendenza “pura”; ben diversamente dall’ascendenza tramite Giuseppe con tutti i relativi fastidi. Tutto filava, e sarebbe filato liscio come l’olio. Si annuncia quindi in 30-33 ad una giovane donna in età da marito, già promessa e quindi praticamente sposata per quei tempi, la nascita (dopo il matrimonio vero e proprio e la conseguente convivenza) del primogenito a breve; che ad una giovane donna, alla vigilia delle nozze vere e proprie, si prospettasse la nascita di un figlio nel giro di poco tempo (diciamo di un anno e mezzo) era allora la cosa più naturale di questo mondo (anzi dovuta, come nel Meridione d’Italia fino poco tempo fa). Per il Veronese si tratta appunto della nascita “naturale” del Messia-Salvatore. Per dare credito al messianismo regale davidico l’hanno addirittura fatto nascere a Betlemme, la città di Davide. Abbiamo detto sopra che tradizione verginale e tradizione betlemita non s’intersecano mai; c’è molto di più: mentre infatti la discendenza davidica di Gesù è attestata anche fuori dai racconti dell’infanzia, essendo antica e diffusa in numerosi strati della tradizione neo-testamentaria, Betlemme lo è solo in tali racconti [e solamente nei rispettivi capitoli secondi di entrambi i vangeli dell’infanzia]; la filiazione davidica non è un theologûmenon come la nascita a Betlemme (Meier 216; cfr J. P. MEIER, Un ebreo marginale, vol. 1, BTC 117, Queriniana-Brescia 2001, cap. VIII, Le origini di Gesù di Nazareth, pp.193-238). La tradizione betlemita, sia in Luca che in Matteo, non è solo un’opinione teologica (theologumenon) senza troppe basi (fra l’altro, come già detto, sconosciuta al quarto vangelo), ma sfiora il racconto mitologico; in particolare le matteane fuga in Egitto e strage degli innocenti devono essere demitizzate (interpretate). Ma la saga angelico-pastorale di Luca non è da meno: fra l’altro in 2,13 non si dice che le schiere celesti (l’esercito del cielo) siano costituite da angeli; e in 2,15 gli angeli e gli uomini risalgono in cielo. Ma cosa significa che gli uomini tornano in cielo?? ---------Fine-conclusione del 1 livello costituito da due ondate successive (1a e 1b)---- 2.0 Secondo livello LIVELLO 2a [vedi la tabella delle inserzioni progressive] 2.1 Presentazione al Tempio 2.1.1 C’è solo l’enunciazione breve della presentazione al tempio (2,22-24), e il ritorno a Nazareth (39-40). Per secondo livello intendiamo appunto quello del passaggio dall’ambiente palestinese a quello della diaspora per finire nel mondo greco-ellenistico pagano (dei gentili). Siamo in mezzo al guado. Nella presentazione al tempio siamo sì in un livello ebraico (rito classico per tutti i primogeniti), ma forse già in ambiente grecizzante: Gerusalemme (2,22 Ierosoluma, Ierosoluma) è citata nella forma greca; e in 2,24 «una coppia di tortore o di giovani colombi» è il testo esatto di Levitico 5,11 ma citato secondo la traduzione greca spaccata dei LXX (giudaismo della diaspora). Forse già qui c’era Anna (2,36-38, in cui si parla della redenzione di Gerusalemme; di Israele per il Vercellese e altri: hanno cercato di allargare il quadro almeno a tutto Israele); in questo livello abbiamo proprio la tendenza ad allargare ed a universalizzare via via il più possibile. Le storie del tempio (Zaccaria, Simeone, Anna, Gesù fra i dottori) facevano parte di una tradizione all’inizio a se stante, poi inserita a più riprese nell’intelaiatura delle storie del Battista e delle storie di Gesù (Hirsch II 185s). Simeone/Anna e Gesù dodicenne costituivano una serie di raccontini ambientati nel tempio di Gerusalemme, in cui il Battista e Gesù erano ancora sostanzialmente alla pari, come due grandi profeti e maestri in Israele. Poi è stato aggiunto: 2.1.2 Anna e Simeone Nel giubilo di Anna abbiamo ancora a che fare, appunto, con la redenzione di Gerusalemme [citata nella forma ebraica Ierousalêm, Ierousalhm], e nel brano di Simeone si parla ancora del Messia (Cristo) del Signore per la gloria del popolo d’Israele (alla fine del Cantico, il Nunc dimittis). Il quadro è ancora ebraico (2,25-27). Il Signore è sempre e solo il Dio dell’AT, non ancora Gesù (non si dice Cristo-Signore). Ma si va verso la salvezza per tutti i popoli, una luce per illuminare le genti (per la rivelazione ai gentili). Si sta passando dalla concezione del Messia-Cristo (infra-giudaica) alla concezione del salvatore-redentore più universale… L’affermazione che il bimbo sarà la salvezza per tutti i popoli supera (va oltre) le rivelazioni di 1,32s e 2,10: Schürmann 252, n. 212. Il motivo per cui il racconto di Simeone (2,25-38) originariamente non sia nato assieme a 2,22-24, è dato dal v. 27: «…portavano il bambino Gesù per fare essi secondo ciò che è stabilito consuetudinariamente dalle legge circa di lui». Tutta questa contorsione per inserire l’osservanza della Legge, dopo che tale adempimento è stata sottolineato per ben tre volte in 22-24, e pure nella conclusione di 2,39. Originariamente nel brano di Simeone, ancora staccato da 2,22-24 e da 2,39, qualcuno ha voluto inserire un’osservanza che mancava, a costo di un periodo contorto al massimo. Quando venne innestata quindi fra 2,24 e 2,39, l’osservanza giudaica risultò ridondante (e pesantissima; ma non l’hanno tolta perché in genere aggiungevano ma non toglievano per un sacro rispetto del testo antecedente). Qui dopo il canto di Simeone (2,33) abbiamo la stessa situazione di 2,19, poiché «suo padre e la madre si stupivano delle cose che si dicevano di lui». Anche in questo passo, dopo un’annunciazione stringata senza 1,34-37 (livello 1b precedente) sono Simeone ed Anna, coi loro canti di lode-ringraziamento, il medium della comunicazione-informazione. Il passaggio verso l’ellenismo avviene in maniera decisa appunto nel cantico di Simeone, e forse ancor di più nelle parole da lui dette a Maria (irruzione ellenistica, cfr più sotto 2.3). Ma procediamo con ordine. Da una parte all’inizio (2,25) Gerusalemme è citata nella forma ebraica (Ierousalêm, Ierousalhm), e si aspetta il conforto di Israele; ma nel cantico (il famoso Nunc dimittis: «ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace…») per «Signore» si usa la parola tipicamente greca di «Despota» (Hirsch II 183; che non ha il significato spregiativo tipico dell’italiano). Siamo in mezzo al guado. 2.2 Ripresa del Battista (Intermezzo) La leggera tensione fra il Battista e Gesù, e di conseguenza fra i rispettivi discepoli, la si evince dal passo di Lc 7,18-29: Giovanni manda due discepoli a chiedere a Gesù se sia colui che deve venire, oppure «dobbiamo aspettare un altro» (7,19). Dall’indecisione e dal dubbio del Battista traspare come minimo un’insufficiente comprensione, un’incertezza a cui Gesù risponde con la centralità del Regno; andate a riferire a Giovanni «i ciechi vedono…». Gesù ha sicuramente conosciuto Giovanni da cui è stato battezzato, e forse all’inizio ha fatto parte del suo gruppo/movimento, da cui poi si è staccato in via definitiva. Quando i due discepoli del Battista se ne vanno da Gesù in Lc 7,24, vengono chiamati angeli: ossia messaggeri, nunzi, inviati. Non dimentichiamoci che anche gli «angeli» di 2,1-20 a Betlemme sono messaggeri; e pure i pastori, in quanto messaggeri-nunzi, potrebbero essere chiamati «angeli». [Originariamente forse c’erano solo i pastori a proclamare l’annuncio salvifico del neonato nella mangiatoia; poi il mito ha trasposto l’annunzio solennizzandolo al massimo come proveniente dagli angeli del cielo, o più genericamente dalle schiere celesti, dall’esercito del cielo]. Paradossalmente: perché Giovanni dal carcere (nelle carceri erodiane non penso fosse così facile comunicare coi propri discepoli; la convocazione di 7,18 è irrealistica) non potrebbe aver inviato (miracolosamente) due angeli nel senso tradizionale (esseri celesti) a fare l’ambasciata presso Gesù? Come grosso modo a Betlemme? Perché a Betlemme sì, e nel caso di Giovanni no? Oppure, perché non parlare di normali messaggeri, di semplici pastori-annunciatori a Betlemme senza le schiere celesti? [Da notare che le schiere celesti possono essere angeli (nel senso tradizionale), ma anche stelle e uomini!] Da questo punto di vista il 2,15 (gli angeli e gli uomini che risalgono in cielo), che abbiamo definito come altamente mitologico, potrebbe essere nel contempo il più demitizzante: i veri e unici annunciatori-testimoni-inviati sono gli uomini, nel bene e nel male; gli angeli del bene e i demoni del male non esistono! Anche l’arch(angelo) Gabriele è un super(messaggero), ma potrebbe essere paradossalmente pur sempre un uomo: un uomo ispirato dallo Spirito, come Zaccaria, Elisabetta, Simeone (Anna) coi loro inni. In un certo senso abbiamo invece una Maria demitizzata (che dice quattro parole in tutto, e pure Giuseppe che non parla mai; Hirsch II 186): mentre tutti cantano, declamano e inneggiano, ella medita, serba nel suo cuore, a volte non capisce ma continua nella riflessione, senza essere…«invasata» come gli altri. Sembra a volte un po’ scettica come il Battista. In effetti nella domanda un po’ scettica di Giovanni, trasmessa a Gesù tramite i suoi due “angeli”, sono riecheggiate le dispute fra i discepoli di Gesù e quelli del Battista su chi fosse il Messia. Il dubbio del Battista di per sé turba l’annuncio cristologico dei vangeli nella loro globalità [ricordo le discussioni col mio vecchio parroco, il quale sosteneva che Giovanni (che non aveva alcun dubbio su Gesù) l’aveva fatto intenzionalmente/apposta perché i suoi discepoli capissero a fondo; il dubbio del Battista gli appariva come intollerabile]. Ma Giovanni doveva essere incamerato in funzione del messaggio cristologico (Schürmann 665), tuttavia come precursore, annunciatore, preparatore, quindi chiaramente subordinato. Così l’azione del Battista venne accentuatamente orientata a Gesù [nel primo capitolo originario non c’era nessun orientamento verso Gesù], e Giovanni, da una posizione iniziale di quasi parità, fu ridotto esclusivamente a testimone di Cristo. Per l’uditore-lettore cristiano già formato il problema non esiste (non è turbato più di tanto dal Battista scettico); il discorso è invece rivolto a quella parte del popolo (palestinese) che aveva reagito positivamente all’appello di Giovanni ma che non aveva ancora abbracciato la fede cristiana (Schürmann 663). Secondo Hirsch II 90-94, dato che solo in 7,20 viene chiamato “Battezzatore” (mentre in tutto il brano semplicemente “Giovanni” (come pure in Matteo nella prima parte), il brano almeno nella sua parte iniziale viene da Q [l’altra fonte dei vangeli oltre a Marco; dal tedesco Quelle (fonte), essa contiene il materiale proprio di Matteo e Luca, ma assente in Marco, come ad es. il discorso della montagna, il Padre Nostro ecc.]: si parla di Giovanni, non in quanto battezzatore, che appunto in origine era molto di più (quasi un Messia alternativo). Definirlo Battezzatore, Battista è quindi un “declassarlo” da possibile Messia (Cristo). Chiaramente solo in 7,28 («Vi dico infatti: fra i nati di donna non c’è nessun profeta più grande di Giovanni; ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui») il Battista è sì immensamente apprezzato in quanto profeta, ma nel contempo (pesantemente) relativizzato…nell’ambito del Regno. Ma questa relativizzazione non c’è ancora negli altisonanti racconti dell’infanzia: si provvede ad essa con la chiara subordinazione di 1,43 (Maria quale «madre del mio signore» detto dalla “inferiore” Elisabetta), che è una delle irruzioni (Einbrüche) ellenistiche (come le chiama Hirsch) tipiche del livello da noi chiamato 2b (vedi appena più sotto il 2.5.4). La prima che prendiamo in considerazione è l’irruzione di 2,34-35 [senza l’inciso della spada del 2,35a]: 2.3 Le parole a Maria a Simeone «E Simeone li benedisse e parlò-disse a Maria sua madre: «Ecco costui è posto per la rovina e la resurrezione di molti in Israele, e a segno di contraddizione perché siano svelati da molti cuori i pensieri» (2,34-35); l’introduzione, con «li benedisse» e soprattutto col «parlò a Maria sua madre», segnala l’aggiunta, inserzione posteriore del doppio versetto. Il passaggio è segnato dalle stoccatine anti-giudaiche (non più solo nel senso ristretto di cui abbiamo parlato sopra, cioè anti-giudaiche perché filo-samaritane), che segnalano il fatto di trovarsi in mezzo al guado, in una situazione intermedia che ormai sta prendendo le distanze dal giudeo-cristianesimo palestinese per uscire verso le genti e i pagani. Gesù infatti diviene segno di contraddizione per la rovina e la resurrezione di molti in Israele; Dire “la gloria del tuo popolo” (alla fine del cantico) è un conto; un altro è il ben diverso segno di contraddizione anche rovinoso…per una parte del popolo. E’ il dramma di Paolo [Romani 9-10-11, con ben tre capitoli dedicati a quest’angoscioso problema da lui sentito sulla propria pelle]; non v’è alcun conforto di Israele, aspettato da Simeone, perché Israele nella sua quasi totalità ha rifiutato Gesù come Messia, Salvatore ecc.; e per di più del messianismo regale davidico non si è verificato alcunché (nonostante l’enfasi dei racconti dell’infanzia). Si esce così definitivamente dal giudaismo palestinese. Come rilevato da Hirsch II 190, non si superano solo i pregiudizi contro i Samaritani, ma vengono messe sempre più in ombra le forme di pensiero giudaiche per andare verso nuove forme di pensiero che diventano la nuova cristologia delle giovani chiese provenienti dal paganesimo. 2.4 Ritrovamento al Tempio Il racconto del ritrovamento di Gesù (di cui compare grazie a Dio il nome) fra i dottori (una delle storie del Tempio, quella conclusiva dei racconti dell’infanzia) era costituito in origine da 2,41-48.51a. Gerusalemme è citata alla maniera ebraica [Ierousalêm Ierousalhm]; c’è il micidiale «tuo padre ed io» del v. 48, secondo cui Giuseppe è ancora il padre di Gesù a tutti gli effetti, e non ancora Dio (ciò avviene nel 49 aggiunto e posteriore, cfr il livello 3b in 3.3). Alla domanda angosciata di Maria non c’è risposta, ma il ritorno a Nazareth con la sottomissione (51a che chiudeva originariamente la pericope: Hirsch II 175); o meglio, dopo la “marachella” la risposta pratica è costituita dalla sottomissione. Il culmine di questa prima versione originaria è comunque costituito dalla sapienza, ovviamente leggendaria, già acquisita da Gesù dodicenne, la quale rivaleggia con quella dei dottori e scribi, ossia con gli “esperti” della legge di Mosè e più in generale dell’AT. LIVELLO 2b [vedi la tabella delle inserzioni progressive] 2.5 Continuazione delle irruzioni ellenistiche 2.5.1 Riepilogando nel primo livello (1a) in origine avevamo il Magnificat ancora agganciato in 1,25 (senza ancora né l’annunciazione né la visitazione) che probabilmente partiva dall’attuale 1,49: «Grandi cose mi ha fatto colui che è potente…». E’ stato scritto a tavolino con l’AT davanti: un inno decisamente compatto, con sempre Dio come soggetto, anti-monarchico, anti-oligarchico, rivolto ai poveri ed alla loro liberazione; con un Dio che compensa le disuguaglianze sociali. Può essere pensato come declamato da qualsiasi povero, o da un coro di anawim; il Magnificat poteva essere declamato da Elisabetta, da Maria o da Anna (quella del tempio), così come il Benedictus, anziché da Zaccaria, poteva essere benissimo recitato da Giuseppe o da Simeone. Sono inni pre-cristiani che potevano essere messi in bocca a qualsiasi buon ebreo, e poi a qualunque buon cristiano. Sono inni ecumenici… 2.5.2 Spostamento del Magnificat Con l’inserimento dell’annunciazione ma soprattutto della visitazione (livello 1b), il Magnificat rimane in un primo momento ancora lassù in 1,25ss. Per quanto concerne la visitazione si salta dall’attuale 1,42 (o 44, ma sicuramente senza il 43) al congedo di 1,56. Ma la scena risulta troppo breve e rapida; la si rende perciò più corposa “tagliando” dall’1,25 e “incollando” qui il Magnificat. In un secondo momento si decide quindi di portar giù il Magnificat (che cominciava ancora da 1,49 con Dio sempre come soggetto), ma bisogna collegarlo, e suturare l’1,25. Lo si chiude (1,25a) ripetendo (o lasciando) praticamente l’inizio del Magnificat medesimo (1,49): «questo/ciò/così mi ha fatto il Signore…», con l’aggiunta della vergogna tolta (25b) per non ultimare la sezione in maniera troppo secca, nonché per precisare e ribadire l’azione salvifica anti-sterilità di Dio nei confronti di Elisabetta. 2.5.3 Preparazione, introduzione e ampliamento del Magnificat Ma bisogna pure collegare il Magnificat con la visitazione: se 1,44 c’era già (nel parlato da Elisabetta «il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo»), il legame col Magnificat in bocca a Maria sembrava troppo secco e brusco. Sono stati quindi collegati meglio inserendo 1,45 che si riferisce direttamente alla Madonna: «E beata colei che ha creduto che ci sarà adempimento per le parole dette a lei da parte del Signore». Così si dà anche una stoccatina a favore di Maria/Gesù per abbassare Zaccaria/Giovanni: Maria ha creduto mentre Zaccaria no, beccandosi la perdita temporanea della parola. Bisognava recuperare il Battista, ma tenerlo possibilmente e chiaramente “subordinato”…. 1,45 permette quindi di passare [pur essendo ancora Elisabetta a parlare] su Maria per il suo inizio del cantico; se infatti il Magnificat originario iniziava dall’1,49, il suo passaggio sulla bocca di Maria è stato preparato pure da una corposa introduzione (46-48a): «la mia anima magnifica il Signore (Dio, non Gesù)», «il mio spirito esulta in Dio mio salvatore» (Salvatore è il nome di Dio, non di Gesù; Hirsch II 183)». Dio qui non sarà soggetto come nel resto del cantico, ma è almeno in accusativo o dativo (ossia pur sempre parte strutturale della proposizione); tuttavia in 48a («poiché ha guardato all’umiltà della sua serva») si ritorna a Dio come soggetto e tale rimane sino alla fine, perché il 48b è un’aggiunta (cfr 2.5.4). 45-48a introducono il Magnificat per la Madonna (prima non c’erano). Constatiamo altresì la finezza di accostare in due vv. adiacenti psuchê, yuch, anima, con spirito, pneuma, pneuma, che traboccano nella lode per il Signore e nell’esultanza in Dio salvatore: il Signore e il Salvatore è ancora Dio, non Gesù. Siamo nel cuore della diaspora ma stiamo andando a grandi passi verso l’ellenismo: 2.5.4 2,35a; 1,48b; 1,43-44 La visitazione fissa le gerarchie Non è molto rilevante l’inserimento (Hirsch II 175) posteriore dell’inciso di 2.35a; in relazione a Maria Simeone dice: «però anche l’anima di te stessa una spada trafiggerà…». Inciso oscuro, che forse allude alla passione, anche se, nonostante la sceneggiatura peraltro splendida di Gv 19,25-27 (Stabat mater iuxta crucem…), la Madonna non era presente nella Passione né tantomeno sotto la croce, mentre c’erano invece le altre Marie che guardavano da lontano (perché le donne non potevano stare sotto la croce): Maria di Magdala, Maria di Cleofa, Maria madre di Giacomo il minore, Salome, e tutte quelle che erano salite con lui dalla Galilea a Gerusalemme (Mc 15,40-41). Più in generale la Madonna è assente dal ministero pubblico di suo figlio. Anche dell’1,48b abbiamo già parlato più volte: «…tutte le generazioni mi chiameranno beata», con un inizio così razionale «ecco infatti che d’ora in poi» che, come già detto, non risulta congruo per un inno. L’autore ha fra l’altro inserito qualcosa di specifico e di più adatto per la Madonna (che la differenziasse da Elisabetta, per la quale l’espressione risulterebbe francamente esagerata). La spia di un’aggiunta secondaria la si evince pure dal fatto che viene spezzata la serie delle espressioni che hanno tutte Dio come soggetto. Molto più importante per la nostra tematica è tuttavia l’aggiunta di 1,43 «A che debbo che la madre del mio signore [=Gesù] venga a me?», che collide con quanto verrà detto appena due versetti dopo nell’1,45: «beata colei che ha creduto che ci sarà adempimento per le parole dette a lei da parte del Signore» [=Dio], e nell’1,46: «L’anima mia magnifica il Signore» [=Dio]. Se il 44 c’era già il redattore ne ha approfittato per anteporre il suo inciso (1,43); altrimenti è lui stesso che ha raddoppiato il 41 (sussulto nel grembo narrato già presente) col 44 (sussulto di gioia nel parlato di Elisabetta da lui introdotto), ma premettendogli il 43 in cui il Signore sarebbe il bambino nel seno di Maria. Schurmann 229 dice che l’espressione la madre del mio Signore può stare per la madre del mio Messia, o del mio Re. Se si eccettua questo passo controverso, e quello più chiaro di 2,11, in Luca 1-2 solo Dio viene chiamato Signore-Kurios. Infatti per il mondo ebraico solo Dio è il Signore; chiamare Signore un uomo segnala che siamo già in ambito greco-ellenistico molto spinto (come nella rielaborazione finale, conclusiva e sintetica, riassuntiva del 2,11, cfr più sotto 3.2). Ricordiamo che per un ebreo (VT) il termine «Signore», «Kurios» era riservato esclusivamente all’unico Dio; nel leggere la bibbia ad alta voce si diceva Adonai/Signore al posto di Jahwe, per non pronunciare il tetragramma sacro in una lingua di cui anticamente si scrivevano solo le consonanti (questo in ebraico come in arabo). [Per secoli quindi non è stato pronunciato, e ad un certo punto non si sapeva più come vocalizzarlo; noi in genere lo vocalizziamo con Jahvè, o Jàhve, mentre altri con Jeova (appunti i testimoni di Jeova). Ma tale pronuncia è un fatto puramente nominalistico, assolutamente irrilevante]. Un ebreo, se sente dire di una donna che è la madre del Signore-Dio, sobbalza dalla sedia. Tale espressione è impensabile non solo in bocca ad Elisabetta ma in qualsiasi altro personaggio evangelico. Questo versetto (1,43) è chiaramente funzionale a manifestare la “superiorità” di Maria su Elisabetta, meglio di Gesù sul Battista; solo in 1,43 risulta la doppia "superiorità di Gesù”: Gesù è il Signore mentre Giovanni non lo è, così come il Messia-Salvatore è Gesù, non Giovanni…. C’è stata una risalita grandiosa: da una Maria che non c’era, ad una Maria silenziosa, poi a lei che recita il Magnificat, sino ad essere definita la madre del Signore [=Gesù, e non l’unico Dio dell’AT). Certo, se partiamo dalla prospettiva del catechismo tradizionale, Gesù è Dio tout court; quindi il problema che abbiamo toccato non esiste: “Signore” sono sia il Padre che il Figlio senza andare troppo per il sottile. Ma la visitazione era necessaria, anzi indispensabile per stabilire e fissare le gerarchie tra Gesù e Giovanni. 2.5.5 L’integrazione di di 2,21 Il nome Gesù compare di brutto per la prima volta in 2,27 senza un’adeguata preparazione ed un conferimento ufficiale del nome medesimo come nel caso di Giovanni in occasione della circoncisione. A ciò provvede l’inserimento di 2,21 sulla circoncisione, prendendo con una sola fava almeno due piccioni: a) il conferimento del nome e b) l’unico collegamento col capitolo primo, con l’annuncio dell’angelo. Per inserire qualcosa si usava raddoppiare ad es. i verbi di dire (rispondere; cfr più sotto in Mc 2 «disse al paralitico»); qui non ci sono verba dicendi, e quindi si raddoppia l’inizio del già esistente 1,22, ossia la subordinata temporale iniziale che così suona nel 22: «quando si compirono i giorni della purificazione…»:
(22) kai ote eplhsqhsan ai hmerai tou kaqarismou autou (D coi purpurei latini) (21) kai ote eplhsqhsan hmerai oktw tou peritemein auton
Le parole greche sono le stesse, a parte le due uniche variazioni: anziché «i giorni della purificazione» (22), si dice ovviamente gli «otto giorni della circoncisione (21, con la stessa costruzione al genitivo [lectio difficilior: purificazione di lui / perché semmai la purificazione è della madre, come sino agli anni 50 nelle parrocchie di campagna in cui la puerpera, dopo essersi ristabilita dal parto, andava in chiesa per la purificazione]. Con l’inserimento di 2,21 si sopperisce così ad una doppia deficienza: si conferisce finalmente con ufficialità il nome (Gesù) e lo si collega con l’annuncio dell’angelo in 1,31-33: «gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo». A ulteriore dimostrazione di quanto detto sopra circa il (non) rapporto fra il primo ed il secondo capitolo, il «come era stato chiamato dall’angelo prima di ..» è l’unico collegamento (redazionale) del secondo cap. col primo. [Un esempio paradigmatico di raddoppio tramite i verba dicendi è costituito da Mc 2,1-12 che originariamente era limitato a 2,1-4.11-13. Ossia il racconto scorreva liscio, senza alcun accenno al perdono dei peccati, con: “disse al paralitico”: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua» [“e cammina” solo in un codice]. Qualcuno dopo, non certamente Gesù, ha voluto incastrarci il pezzo sul perdono dei peccati, correndo l’altissimo rischio di collegare il peccato con la malattia in un rapporto di causa-effetto: il peccato come causa della malattia, in quanto questa è un castigo per la colpevolezza peccaminosa. Cosa che Gesù ha chiaramente negato in Lc 13,1-5 (la disgrazia delle persone perite per la caduta della torre di Siloe). Per l’incastro ha raddoppiato il “disse al paralitico”, inserendo dopo il primo [disse al paralitico] la sezione sul perdono. Lo si evince quando compare il secondo [e disse al paralitico] con il maldestro duplice «disse al paralitico: ti dico, alzati…». La traduzione italiana, giustamente per evitare la cacofonia, ha trasformato il “ti dico” in “ti ordino” [giusto cambiare, ma l’aver scelto il “ti ordino” è tendenzioso]. Ancora una volta troviamo una perla nel nostro Veronese che, assieme al Palatino, omette il “ti dico”. Sempre il Veronese, assieme al Vercellese, addirittura mette fra parentesi “ait paralytico” (disse al paralitico). E’ matematico che l’intermezzo sul perdono dei peccati sia un’aggiunta secondaria e posteriore, con buona pace di tutti coloro che si arrabattano e si arrovellano arrampicandosi sugli specchi per trovare retoricamente, in conformità alla narratologia oggi di moda, un legame fra malattia fisica e malattia morale, e simili assurdità per l’uomo moderno [ci sono dei malvagi che fisicamente stanno benissimo]. Così pure anche l’intermezzo dell’annunciazione-visitazione è stato inserito in un secondo momento. 2.6 Contrasti fra la cristologia del ministero pubblico e quella dell’infanzia Oltretutto della succitata concezione realistica (cfr 1.9) non si è verificato alcunché; verso la fine del primo secolo, dopo la caduta di Gerusalemme, non c’era neppure l’ombra di tale regno davidico senza fine (data anche la crocifissione di Gesù). Semmai il regno «eterno» sembrava essere quello dell’impero romano. Inoltre il suddetto figlio di Davide non dice più nulla alle comunità cristiane in ambito greco-ellenistico ma nemmeno a noi oggi; e l’oratoria davidico-regale ci è pure fastidiosa, per non dire indigesta; ma lo era anche per Gesù che non ha mai gradito troppo il titolo di Messia e Figlio di Davide (Mc 12,35-37 e par.). Di solito infatti si sorvola sul messianismo regale proclamato a tutto spiano nei vangeli dell’Infanzia, ma declinato a più riprese da Gesù. Anche secondo Brown (R. E. Brown, The Birth of the Messiah, G. Chapman, London 1977; La concezione verginale e la resurrezione corporea di Gesù, Giornale di Teologia 99, Queriniana-Brescia 1977) esiste un contrasto insanabile fra le due cristologie di Luca, quella del ministero (con tutte le perplessità di Gesù: quasi uno schivare il titolo ambiguo e fraintendibile di “Messia”) e quella dell’infanzia (definito Messia re davidico senza problemi); hanno idee decisamente diverse e contraddittorie. Ciò si spiega ancora una volta col fatto che i racconti dell’Infanzia sono stati inseriti tardivamente, diciamo a cavallo tra primo e secondo secolo, quando il titolo di messia/cristo era ormai diventato il secondo nome di Gesù.
Questo significa che chi ha scritto ad es. 9,20-21 (proto-Luca) non è lo stesso che ha scritto i racconti dell’infanzia, anzi proprio non li conosce perché o inesistenti oppure non ancora inseriti. Stessa cosa a proposito di Luca 20,41-44 (il parallelo del succitato Mc 12,35-37, sul Signore figlio di Davide: «se Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?»); Gesù è molto critico sulla figliolanza davidica, al contrario dei racconti dell’infanzia. Idem anche nell’inizio del vangelo con Zaccaria al tempio: nell’intero racconto si respira un’atmosfera di «pietà templare» (Schürmann 115), non in linea col ministero pubblico di Gesù che ha avuto perlomeno un rapporto conflittuale col tempio, oltre al fatto di aver rovesciato i tavoli dei cambiavalute, il che ha contribuito in modo deciso alla sua condanna a morte. La suddetta grande differenza, fra le concezioni del ministero pubblico di Gesù adulto e quelle della sua nascita, è un indizio (quasi una prova) che non solo Luca non ha scritto i racconti dell’infanzia (c’è una fonte antecedente sulla quale quasi tutti concordano) ma che non li ha neppure aggiunti Lui in un secondo momento. --------Fine-conclusione del 2 livello costituito da due ondate successive (2a e 2b)---- 3.0 Terzo livello LIVELLO 3a [vedi la tabella delle inserzioni progressive] 3.1 1,35-37 Et concepit de Spiritu sancto Prosecuzione ellenistica Data quindi l’irrilevanza o la non digeribilità dell’ideologia regale davidica per il Messia, bisognava quindi trovare qualcosa di più accessibile e comprensibile per i pagani convertiti; per far questo si amplia l’annuncio dell’angelo con una seconda parte-intervento (nella sostanza il v. 35; il 36-37, ossia il parallelo con Elisabetta, dato che il Battista è nato in maniera naturale, non fa altro che confermare pure la naturalità della nascita del Salvatore a questo livello): «lo Spirito santo verrà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo (35a); e perciò ciò che [da te] nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio» (35b). Il scendere/venire su Maria non riguarda la concezione verginale poiché lo Spirito Santo è ad es. anche sopra il vecchio Simeone (2,25 durante la presentazione di Gesù al tempio), ed in particolare nel grembo di Elisabetta fin dall’inizio. Del Battista infatti si dice in 1,15 che sarà grande e soprattutto che sarà riempito di Spirito santo sin dal/nel seno di sua madre; si è voluto equiparare Gesù al Battista, dato che la figura di Gesù nel 2° capitolo originariamente era più depauperata e di basso profilo. Non si poteva accettare più a lungo la sur-determinazione di Giovanni rispetto a Gesù; molto anomala questa faccenda del Battista che all’inizio è più curato, più corposo e più preparato di quella di un semplice bambino (senza ancora il nome “Gesù”). Si rimedia quindi col 35a: «Lo Spirito santo …..», già commentato sopra; 1,35a parla effettivamente un’altra lingua, ma non è necessariamente superiore a 1,32-33. Si innesta inoltre il 35b che così suona nelle nostre bibbie: «colui che [da te] nascerà sarà dunque santo e chiamato figlio di Dio». Il “da te” si trova solo in alcuni manoscritti, fra cui il Palatino e il Vercellese, ma non nel Veronese; un’ulteriore prova che il Vercellese ed il Veronese [quelli di «Elisabetta disse» in 1,46, di «Maria sua sposa» in 2,5 e di «Nel medesimo tempo» in 1,26] non si sono “copiati” a vicenda, non hanno “copiato” dalla medesima traduzione latina, ma provengono in ultima analisi da esemplari greci diversi. Più precisamente: «E perciò [il dunque è all’inizio] ciò che nascerà santo [tutto al neutro] sarà chiamato figlio di Dio», senza il verbo essere davanti a “santo”. In una manciata di manoscritti tuttavia abbiamo «ciò che nascerà, santo è e sarà chiamato…». La CEI con «sarà santo e chiamato..» ha cercato di rendere l’idea: è Gesù che è santo, non la sua nascita! “Gesù santo” si ricollega al “Santo di Dio” (Lc 4,34) in bocca ad uno spirito di demonio immondo che così apostrofa Gesù; Santo di Dio suonava quindi molto più denso di “figlio di Dio” (per la relazione fra santità e figliolanza divina cfr Schürmann 148; Santo di Dio è il primo tassello che poi condurrà al titolo “Il Figlio” del quarto vangelo, molto più pregnante del “Figlio di Dio” dei sinottici e di Romani 1,4). A quel tempo «San Gesù» (inusuale per noi, che diciamo «Sant’Iddio, Dio santo, Cristo santo» solo come intercalare stizzato dal sapore bestemmiante) sarebbe stato ben più forte e corposo di «figlio di Dio» (anche Adamo è figlio di Dio in 3,38); infatti “santo” nell’AT era un attributo (quasi) esclusivamente divino. Santo è Iddio, o il suo nome (1,49 nel Magnificat), o il suo Spirito che suscita profezia. Fa eccezione nel Benedictus «per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo» (quindi uomini): sia per Schürmann 196 che per Hirsch II 178 si tratta tuttavia di un’aggiunta posteriore. Comincia già a delinearsi quel passaggio che porterà la santità da Dio anche agli uomini, in particolare ai suoi profeti, soprattutto se del passato lontano [questa diventerà poi la concezione classica dei fedeli, anche attuali, con tutta la lunghissima serie dei santi (uomini e donne) canonizzati e non]. Ma nella quasi totalità dei manoscritti nel 35b non c’è il verbo essere (al presente solo in pochissimi e al futuro in nessun codice) davanti a “santo” come nelle nostre bibbie; secondo Schurmann 150, dopo agion, agion, santo non si deve sottintendere alcun estai kai, estai kai, (sarà e): cioè non si può leggere “ciò che nascerà”, o “il bambino nato” santo sarà e lo chiameranno figlio di Dio [abbiamo usato il verbo chiamare all’attivo per evitare di usare nel passivo il verbo essere (sarà chiamato che confonde), perché in greco non c’è l’ausiliare “essere”, bensì il futuro passivo klêthêsetai, klhqhsetai]. Anzi Schurmann (ivi) intende “santo” come predicato nominale, e “figlio di Dio” come libera apposizione: «il bambino sarà chiamato santo, figlio di Dio». L’apposizione “figlio di Dio” è aggiunta perché, dopo l’indicazione al neutro (di “santo”), occorreva apporre una denominazione al maschile, e così riagganciarsi alla prima caratteristica del v. 32 (Schürmann 150). Si trattava di fondare teologicamente (a) la santità di Gesù (che non è una cosa da poco, poiché solo Dio è santo), collegandola con la sua nascita (b). Ma per sottolineare (a) si comincia a caricare sempre più (b), sino al punto di rendere la nascita vieppiù miracolosa e soprannaturale; ma questo solo con l’inserzione ultima e super-redazionale del 34 classico (verginità). Per ora, in questo livello, ha ragione Hirsch (II 195) nel sostenere che qui ci si riferisce alla voce che risuona dal cielo nel momento del battesimo, che nei nostri beneamati codici purpurei (in buona compagnia con altri manoscritti) suona: «Figlio mio sei tu, io oggi ti ho generato» (3,22). 1,35 si aggancia a 3,22, che si confermano a vicenda; nel battesimo abbiamo il compimento, la realizzazione delle parole di Gabriele (Hirsch II 195), o, ciò che è lo stesso, l’adozione nel Battesimo è preparata dalla santità nello spirito. Siamo nell’ambito di una concezione adozianista: ossia Gesù è adottato come figlio in un primo momento a partire dalla resurrezione (la formula di fede di Romani 1,3-4), ma qui l’adozione è arretrata all’evento del battesimo (oggi ti ho generato, non prima!). Forse all’inizio il 35b suonava: «sarà figlio di Dio». Ma la figliolanza divina in medias res (spostata al futuro) divenne conturbante, per cui il verbo essere (è al presente) venne anticipato subito dopo “santo” squinternando la frase in alcuni codici. Nella redazione finale rimase alla fine del v. il «sarà chiamato», decisamente più vago e neutrale, per cui diverrà compatibile con una figliolanza divina sin dalla nascita (guardando dal Battesimo all’indietro). Il figlio di Davide diventerà figlio di Dio (guardando dalla nascita in avanti); ma ciò andrà in rotta di collisione con le concezioni posteriori per le quali è figlio di Dio sin dalla nascita: la differenza-scostamento è tuttavia solamente temporale (non solo a partire dal Battesimo ma sin dalla nascita). La verginità invece (livello 3b) contraddice sostanzialmente la figliolanza davidica tramite Giuseppe, ma non quella tramite l’albero genealogico di Maria (se è Lei figlia-discendente di Davide). Ricordiamo che a questo livello abbiamo ancora l’unica risposta (ancillare) di Maria: «Ecco l’ancella del Signore..». Certo il veronese contiene la suddetta aggiunta secondaria di 1,35-37; esso e soprattutto il suo capostipite hanno accettato l’inserimento posteriore, ma non se lo sono sentita di modificare/sostituire il 34: dall’ «ecco l’ancella del Signore…» al «non conosco uomo». Il cambio/sostituzione del 34 non ha raggiunto tutti i codici greci (il diavolo fa le pentole ma non i coperchi): almeno un codice è sfuggito all’aggiunta verginale conclusiva e pervenuto come tale, senza di essa, alla versione del veronese. In Lc 1,31-36 del capostipite greco del veronese quindi non c’è (ancora) alcuna verginità…; in esso anche i vv. 35-37 si reggono benissimo senza alcuna concezione verginale. Un lettore alieno, che non conoscesse le religioni e il cristianesimo storico, leggendo il veronese non si sognerebbe in alcun modo un concepimento verginale…(e neppure se leggesse il testo di Luca senza il v. 34 classico). Non gli passerebbe nemmeno per l’anticamera del cervello…un concepimento senza apporto maschile. 3.2 Il completamento-riassunto sintetico di 2,11 Il sorprendente 2,11 suona: «Vi è nato nella città di Davide [il nostro 1° livello] un salvatore [2° livello], che il Cristo Signore [3° livello]; ma è una correzione, meglio un’implementazione. Anche qui non v’è alcuna incarnazione di un individuo pre-esistente, diversamente dal prologo del quarto vangelo, ma certo abbiamo una nuova concezione cristologica: non più il Messia (Cristo) del Signore, ma Gesù Cristo lui stesso Signore (kurios). Nell’infanzia il titolo di kurios/Signore è ancora un titolo riservato a Dio (Jahwe, Adonai), mentre qui è già sorprendentemente passato su Cristo; [l’altra eccezione è costituita da 1,43 di cui abbiamo già parlato, interpretata da Schürmann come la madre del mio Signore nel senso del mio Re o del mio Messia]. La progressione è illuminante: con la “città di Davide” siamo ancora in ambito ebraico-palestinese, con “salvatore” siamo in mezzo al guado con una visione più universale di salvezza e redenzione, sino al Cristo Signore elevato. 1Fra l’altro manca ancora il nome di Gesù; solo due codici latini (uno è il Palatino) timidamente dicono “Cristo Gesù” in 2,11. LIVELLO 3b [vedi la tabella delle inserzioni progressive] 3.3 Inserzione finale al tempio (2,49-50.51b-52) L’aggiunta di 2,49-50 con la chiusura di 51b-52 costituisce un’inserzione finale dogmatica (Hirsch II 175s) temporalmente antecedente all’altra posta quasi all’inizio (1,34 classico). Abbiamo a che fare con la prima espressione tramandata di Gesù, costituita dall’aggiunta redazionale di 2,49: «…nelle cose [o nella casa] del padre mio (=Dio) è necessario che io sia» (tradizionalmente: «Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?»). Ma tali prime parole conosciute di Gesù bambino, dopo che Maria ha appena detto nel primigenio e micidiale 2,48 «tuo padre (=Giuseppe) ed io angosciati ti cercavamo», suonano surreali e per di più quasi crudeli nei confronti di Giuseppe (che avrebbe dovuto dare una sonora sberla al figlio dodicenne sia per la sparizione che per la brutale scusa addotta). Hirsch 172 trova la risposta addirittura repellente. Si paga questo prezzo poiché si vuole chiaramente evidenziare la paternità divina, relativizzando (o negando) quella di Giuseppe. Si chiude (2,52) con la sostanziale ripetizione di 2,40, tramite la solita, già evidenziata, tecnica del raddoppio. 3.4 Correzioni ed eliminazioni Si corregge 2,33: dall’originario «suo padre e la madre» a «Giuseppe e la madre», per evitare di dire che Giuseppe è il padre (come fanno i nostri codici purpurei). Si elimina inoltre «il tuo padre ed io» di 2,48 (ma questo solo nel Vercellese e nel Veronese, non nel Bresciano; cfr la sinossi finale). 3.5 1,34 verginale: «Come avverrà questo poiché non conosco uomo?» Diversamente dal Veronese che non se l’è sentita di modificare il suo 34 ancillare, gli altri codici hanno invece usato la classica tecnica di duplicare i verbi di dire (come già visto a proposito del paralitico in Mc 2) per inserire qualcosa (nel nostro caso la domanda imbarazzante di passaggio) rendendo più attendibile la prosecuzione dell’angelo. Duplicano il “Maria disse” e al v. 34 pongono la domanda di chiarimento: «Come sarà questo poiché non conosco uomo?»; la verginità è tutta in queste sette parole. L’altro “Maria disse: ecco l’ancella…” viene spostato al 38a come conclusione definitiva che sembra più logica. Il Palatino di Trento stranamente non ha l’ovvia conclusione del 38a, pur avendo il 34 classico “Non conosco uomo”; il che costituisce un’altra spia consistente del nostro impianto. Quasi sicuramente anche il Palatino, come il Veronese, aveva il 34 ancillare («Ecco l’ancella del Signore…»); poi, quando è stato trasformato nel 34 classico (verginità), non ha sentito alcun bisogno di spostare sotto in 38a la risposta secca e ancillare di Maria: e ciò vale soprattutto del suo capostipite greco! L’esemplare greco del Palatino ci testimonia quel passaggio intermedio in cui il 34 ancillare era già stato trasformato nel 34 classico, ma senza la conclusione del 38a; si chiudeva seccamente solo col 38b: «E l’angelo partì da lei», senza alcuna accettazione esplicita in obbedienza di Maria (grave lacuna). Poi giustamente qualcuno, che conosceva la trasformazione avvenuta e il versetto più antico, ha pensato bene di chiudere nel 38a col vecchio versetto ancillare («Ecco l’ancella-serva del Signore…»), che costituisce una perfetta conclusione dell’intera scena, rimediando alla pesante suddetta lacuna. Che il «non conosco uomo» sia invece un’aggiunta secondaria, posteriore, anzi finale, lo si evince anche dal fatto che epei, epei (poiché) sia un apax per il terzo vangelo, cioè ricorra solo qui. Luca usa 5 volte (due nel vangelo e tre negli Atti) sempre e solo la sua preferita epeidê, epeidh; se ne può dedurre che il 34 classico è di mano non-lucana. Anche la prima parola del vangelo all’inizio nel proemio (1,1 epeidêper, epeidhper è sospetta perché è un apax in tutto il Nuovo Testamento!! (e così pure sempre in 1,1 plêroforein, plhrojorein, succedere/avvenimenti successi). Ho molti dubbi che l’autore del proemio sia Luca… Tornando a noi, chi ha innestato il “non conosco uomo” ha voluto inserire in qualche modo la verginità, ma senza rendersi conto dell’insensatezza della situazione: la domanda, se presa alla lettera (come l’ha intesa la tradizione millenaria), significa che Maria e Giuseppe avevano già deciso in precedenza, a prescindere dall’annuncio angelico, un matrimonio bianco, senza rapporti sessuali; tale decisione è stata interpretata dalla tradizione quasi come un voto. Ma la cosa per quei tempi (e non solo) non sta né in cielo né in terra, dato che la sterilità (come si evince dai passi su Elisabetta) era allora considerata un disonore-vergogna! Maria ha trovato grazia presso Dio (1,30) proprio perché avrà un figlio che sarà grande; e così pure Elisabetta che per grazia ha vinto l’onta della sterilità, con un altro grande figlio (il Battista). Oltre tutto il matrimonio bianco duraturo è falso, perché Gesù ha avuto fratelli e sorelle carnali (ovviamente concepiti in modo naturale) secondo la testimonianza inoppugnabile dei vangeli: in particolare Mc 6,3 con addirittura i nomi dei quattro fratelli. La domanda-dubbio (1,34) ha anzitutto una funzione letteraria, quella di preparare e rendere possibile la spiegazione-prosecuzione di 1,35; non è un’affermazione storica letterale di Maria, ma un’affermazione dogmatica del redattore finale (cfr Schürmann 143-146). Ciò è del tutto comprensibile come espressione letteraria dello scrittore [rivolto soprattutto al lettore; il dubbio è del lettore, non di Maria (Schürmann 152)]; diviene invece incomprensibile se inteso, sul piano psicologico, come storicistica e letterale espressione di Maria (Schürmann 145). Che Maria intendesse mantenersi vergine, vuoi per ragioni puritane, vuoi per influssi essenici (come sostiene Laurentin, il mariologo di fiducia di Vittorio Messori, citato in Schürmann 146, n.79), è patetico. Come già detto, il vangelo originario cominciava col 3° capitolo, e subito dopo il battesimo conteneva la genealogia (diversamente da Mt che è all’inizio-inizio, prima del vangelo dell’infanzia). Tanta fatica per nulla; una laboriosa genealogia, con più di 70 generazioni, per essere subito vanificata nel primo anello (con l’esclusione di Giuseppe). Il che è una prova ulteriore del ritocco verginale finale nell’infanzia, ma nella prima stesura (e pure nel secondo riarrangiamento di 35s) la verginità non c’era. La verginità è solo nel 34 classico; come già detto, nelle parole dell’angelo (sia nel primo che nel secondo intervento) non c’è alcun contenuto verginale. Nell’originario racconto mitico-poetico-simbolico letterario l’annunciazione non avviene per chiarire (fornire delucidazioni) e preannunciare la verginità (come quasi tutti pensano), ma per portare a Maria il lieto annunzio del concepimento e della nascita a breve di un primogenito che sarà grande [solo in alcuni codici, compresi i nostri purpurei, troviamo: «l’angelo le recò il lieto annuncio», letter. “la evangelizzò”, versione scartata dalle edizioni critiche e non presente nelle nostre bibbie]. Gabriele non la chiama vergine: è solo un redattore-narratore (fuori campo) che la definisce tale, poi ribadito dall’inserzione successiva [e la parthenos si chiamava Maria; ma entrambi sono attratti dalla traduzione errata (o non precisa, perché, come già detto, anche parthenos può significare ragazza, giovane donna) dei LXX di Is 7,14 (almah)]. Nel saluto iniziale di Gabriele essa non è appunto chiamata vergine, bensì «Ti saluto [con un termine greco, Kaire, caire], kekaritômenê, kecaritwmenh, cioè o favorita (di Dio)»: è la favorita in quanto imminente madre del Salvatore. L’affermazione è comunque cristologica (su Gesù), e non mariologica (sulla biologia della madre). Si vuole evidenziare la santità di Gesù e non tanto la verginità biologica: il tutto per ingrandire Gesù. E’ Gesù che è/sarà santo; non è la sua nascita che è santa; ma per evidenziare Gesù santo, si colora di miracoloso-eccezionale la sua nascita…(la potenza del Natale). 2,49ss (alla fine con Dio=suo padre) fa da contraltare all’1,34 verginale, nella prima scena possibile. A questa dogmatica iniziale (alla comparsa della Madonna) ne corrisponde appunto una finale («devo occuparmi delle cose del Padre mio»). La dogmatica (cattolica) agli inizi del 2° secolo, aprendo e chiudendo tali racconti, ha posto il suo sigillo conclusivo sull’intero vangelo, più in generale a due sinottici su tre: tuttavia Marco, come il codice di Verona, si è sottratto a tale omologazione. Conclusione: è credente chi crede ai significati del racconto; dopodichè è cristiano (per carità) chi ritiene la storicità di tali racconti, ma lo è alla pari (questa è la nostra grande rivendicazione) anche chi li pensa come leggendari (non è un cristiano di serie b, o peggio ancora un miscredente, eretico ecc.). Anzi la seconda categoria sta forse un gradino sopra, poiché denota una maggiore onestà intellettuale; per dirla col card. Martini, appartengono a coloro che pensano… L’apparente mitico 2,15 è forse demitizzante: ormai non ci sono più angeli ed eserciti del cielo, ma solo uomini pervasi dallo Spirito, dalla profezia, dalla carità, e dal sapere agapico. Queste sono le vere schiere celesti! Non si danno più angeli che discendono dal cielo, bensì solo uomini che salgono in un cielo simbolico. Non «dove c’è il cielo fisico, lì c’è Dio», bensì dove c’è Dio, il suo spirito, la sua misericordia agapica, il suo essere dalla parte degli anawim (poveri e diseredati), lì c’è il cielo [in cui possono salire gli uomini di buona volontà].
Mauro Pedrazzoli Qui in fondo l’immagine dei codici purpurei con relativa sinossi di alcuni passi più importanti. E la ripetizione della tabella delle inserzioni progressive. TABELLA DELLE INSERZIONI PROGRESSIVE Livello 1: veterotestamentario-giudaico Livello 2: intermedio Livello 3: ormai greco-ellenistico Mauro Pedrazzoli
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