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Almeno per ora la spedizione punitiva di Obama contro la Siria è scongiurata, grazie anzitutto al voto parlamentare contrario della Gran Bretagna, ma anche a una maggiore disponibilità alla trattativa di Russia, Iran, e dello stesso Assad, e all'astensione di Italia e Germania. Gli Stati Uniti hanno anche accettato il ritorno in campo autorevole dell’Onu. Eppure non possiamo nascondere che la decisione di papa Francesco di proclamare sabato 7 settembre una serata di digiuno e preghiera per scongiurare la ventilata guerra degli Usa alla Siria e la testimonianza del giornalista della «Stampa» Domenico Quirico, liberato il giorno seguente dopo 5 mesi di prigionia, hanno suscitato nella nostra redazione una serie di riflessioni, non sempre convergenti, sul valore del digiuno e, in generale, su guerra e pace. Quirico è arrivato a definire la Siria «il paese del male», con una categoria morale, non storica, e a sostenere che attualmente la situazione è molto ingarbugliata, e la rivoluzione contro il regime di Assad ha tradito le aspettative iniziali.

Qualcuno ha criticato l’idea del digiuno come sacrificio, per il circuito mentale inaccettabile che sottintende: io digiuno, quindi soffro, quindi qualcuno in alto si accorge che sto soffrendo e si domanda perché, alla fine questo qualcuno fa qualcosa per accontentarmi e premiare il mio sacrificio. Certo che il digiuno sfiora e rischia la religione punitiva, l’auto-sacrificio. Però esso è anche allusione alla libertà che il violento non ha perché è schiavo di pulsioni distruttive, è un alleggerimento della primaria necessità (il cibo, che è anche un piacere) per indicare allo schiavo del meccanismo vendicativo una via d'uscita. Non si tratta di non mangiare nulla, ma di essere un po' liberi e non obbligati dalla fame bramosa, che ci fa anche rubare e sfruttare altri, ed è la sostanza del sistema capital-possessivo che ci domina, che ci fa fare le guerre. Non è un caso che si trova, con sfumature diverse, in tutte le spiritualità. La sapienza, anche l'islam spirituale, sa che la maggior lotta (jihad = guerra santa) è quella che esercitiamo su noi stessi.

E allora il digiuno diventa occasione per concentrarsi sulla preghiera, destinando a essa le attenzioni e non alla preparazione dei pasti, e diventa carità, destinando alla causa per cui digiuniamo i soldi che si sarebbero impiegati per mangiare, come se davvero ci si privasse dell’essenziale. Ci fa riscoprire la riscoprire la fragilità e la forza del corpo, per pregare con tutti noi stessi e ritrovare la consapevolezza per agire nella storia

Ma non è necessario credere in Dio per praticare il digiuno – come alcuni hanno sostenuto −, cioè fare propria qualche specifica credenza religiosa. A meno che «credere in Dio» non significhi essere coscienti che la nostra esistenza è legata a un'alterità che la fonda e la lega a tutte le altre esistenze. Solo con tale coscienza, infatti, possiamo riconoscere la nostra e l'altrui alterità come reciprocamente relative.

Non meno significativo che digiunare e pregare è dedicare tempo, pensiero e sforzo di comunicazione a un tema come quello della guerra. Il digiuno condiviso e pubblico ha, infatti, esattamente questo scopo: dare un segnale di attenzione, partecipazione e impegno su drammi che colpiscono altri, ma coinvolgono tutti. Avanzare con «timore e tremore» proposte è quanto ogni singolo può fare nella speranza che intorno a una di esse si coaguli un consenso capace di renderla operativa.

Sappiamo, realisticamente, che intervenire disarmati in una guerra per indurre i contendenti alla pace è problematico. Ma non dimentichiamo che intervenire con le armi in quella situazione complicata di cui ha parlato Quirico significa moltiplicarne gli effetti distruttivi. Se è con la forza che si vuole perseguire la pace, questa forza deve essere espressione di un consenso molto ampio e deve essere accompagnata da argomentazioni davvero convincenti, che non possono essere solo morali e giuridiche. Devono anche, almeno ragionevolmente, garantire il successo dell'iniziativa e il raggiungimento dei suoi fini a «costi umani» largamente inferiori a quelli previsti dal mancato intervento.

Non abbiamo la certezza che seguire il disarmo unilaterale sia politicamente e storicamente corretto. L'etica deve ispirare, non imporre le scelte ai governi. Il disarmo globale va perseguito limitando progressivamente la spesa per gli eserciti e la produzione militare, orientandosi non solo a limitare, ma a proibire il commercio delle armi. E le alternative non militari alla guerra vanno finanziate per tempo, non solo evocate quando le guerre scoppiano. A questo proposito, forse non tutti sanno che l'Italia spende all'incirca 30 miliardi di euro in spese militari e 80 milioni per l'insieme dei progetti di servizio civile.

Anche papa Francesco ha recentemente affermato che la guerra è l'effetto necessario della produzione di armi: una volta fatte bisogna impiegarle. Osservazione concreta, per niente moralistica e centrale nella cultura di pace, fin da Kant nel 1795: «gli eserciti permanenti vanno aboliti, come causa di guerre». La costruzione della pace è impresa molto più ardua e più a lungo a termine della soluzione militare e, se prima si è fatto poco o nulla per metterla in atto, non sono sufficienti i postumi di un digiuno.

 


 
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