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 405 - Albania tra paesaggi folgoranti e modernizzazione forzata / 2

 

«UN INCONTRO CHE ASPETTAVO DA UNA VITA»

 

L’impostazione hegeliana del Museo Nazionale a Tirana dà l’impressione che sin dall’antichità tutto in quell’area geografica tendesse verso la formazione dello Stato albanese (in fin dei conti, però, mai completato, dal momento che almeno un terzo della popolazione di lingua albanese vive fuori dai confini statali).

 

Una retorica fastidiosa

Nei quadri che raffigurano la lotta di liberazione, i tedeschi sono sempre guerci, stramazzati a terra, invece i partigiani sono grandi, atletici, vittoriosi. La quantità di statue del partigiano (il modello sembra essere sempre lo stesso) è il corrispettivo di questa impostazione in giro per il paese: dopo averne fotografato una, non ti viene voglia di fotografarne altre. Quelle immagini e quelle statue di combattenti forti e sicuri danno fastidio al nostro senso della misura e della correttezza storica.

Ma c’è un altro elemento che colpisce: il fattore militare è l’aspetto dominante in tutte le ricostruzioni storiche. Basti pensare alla quantità di armi esposte al museo di Tirana come a quello di Girocastro: pistole, fucili, mitragliatori, bombe e chissà quali altri strumenti di morte. Gli stessi partigiani sono sempre dei lottatori che portano la morte, uccidono, naturalmente per il bene, ma l’elemento mortifero è quello primario. Insomma una logica assolutamente maschilista, fatta di forza, eroismo e coraggio dove si gioca il tutto per tutto. Una partita in cui c’è il bianco e il nero assoluti e dove la giustizia richiede un sacrificio assoluto. Quale il ruolo delle donne? Anche loro, quando venivano rappresentate, erano dei valorosi «maschi»: si nota l’aspetto asessuato, ma in fondo maschile anche se privato dagli aspetti visivi degli attributi virili, dei personaggi rappresentati. Un mondo al maschile, esaltato nei luoghi della memoria e trasmesso attraverso l’immaginario collettivo.

 

Che cosa è rimasto del comunismo

Ci chiediamo che cosa sia rimasto di questo mezzo secolo comunista, come sia possibile che la politica di Hoxha non abbia lasciato tracce, se non in negativo. Insomma: come è possibile che un paese sia stato «comunista» solo in superficie, senza che una “spiritualità” (per così dire) abbia pervaso il popolo? L’impressione è che Hoxha abbia avuto un grande merito: quello di aver costruito di fatto uno stato che non c’era. Il dittatore è il vero artefice del paese, ben più del “mitico” Skanderbeg. Nazionalismo e comunismo si sono sposati inscindibilmente. Il prezzo che ha pagato il paese per l’affermazione dell’identità nazionale è stato un cinquantennio di isolazionismo e di totalitarismo, ma una vera adesione popolare all’ideologia comunista non c’è stata, forse anche a causa della distruzione della classe media.

Del resto una vera soluzione di continuità tra Hoxha e il suo successore Berisha (amico personale di Berlusconi, conosciuto e apprezzato dagli albanesi) e ora di Rama, ex sindaco di Tirana e amico della cultura, non c’è stata. Come può essere stato estraneo a un certo sistema di potere Berisha, medico personale del dittatore? Come può essere avvenuta una sua conversione democratica istantanea? La cosa si complica se si va ad analizzare la situazione degli intellettuali. Fatos Lubonja ha accusato, di fatto, il più famoso scrittore albanese Ismail Kadarè, di collaborazionismo. Lui gli anni di carcere duro durante il regime se li è fatti per colpe commesse dal padre, Kadarè pubblicava già durante il regime senza criticarlo. Se si pensa a cosa è stata la transizione dal regime fascista al dopoguerra democristiano, non si avrà difficoltà a vedere alcune somiglianze con la storia italiana.

Un obiettivo, però, forse il regime comunista lo ha raggiunto in Albania: l’ateizzazione. Se chiedi di che religione sono, di solito ti rispondono: di famiglia musulmana, di famiglia ortodossa. La fede è una questione di discendenza, ma ormai nella maggioranza del popolo non ha a che vedere con una pratica quotidiana: il regime nel corso di due generazioni è riuscito almeno in questo, a rendere assai difficile praticare il culto, e dunque a disaffezionare la gente dalla religione.

 

Per chi prega il muezzin

Eppure vediamo dappertutto moschee e chiese ortodosse, molte in costruzione, alcune grandiose, come a Tirana (la moschea vicino a piazza Skanderbeg) o a Korça (la chiesa ortodossa davanti alla piazza principale). Di sera, quando cala il silenzio, e di notte risuona in ogni città il richiamo del muezzin. Non ci va molto a capire, anche senza chiedere, che dietro la rivincita delle religioni c’è una rivendicazione identitaria. Forse dietro le moschee ci sono i soldi della Turchia, e dietro le chiese ortodosse i pope che arrivano dalla Grecia. Di gente dentro i luoghi sacri ne vediamo poca. Ma in moschea, per esempio, troviamo dei giovani nel pomeriggio che fanno la preghiera rituale con convinzione. Sono vestiti normalmente, uno è in canottiera. Ci avvicina, ci dice di aspettarlo per andare a fare due chiacchiere col suo gruppo di italiano. Un altro, quando vede che chiediamo ad altri che cosa ne era stato della moschea durante il regime (ne ricaviamo che fu chiusa), ci avvicina per raccontarci la sua storia in un italiano quasi perfetto. Praticanti, dunque, ce ne sono, ma l’impressione è che gli edifici sacri siano sovradimensionati: in fondo siamo nella moschea centrale della capitale dell’Albania! Ci rimane impressa la risposta di una signora che ci affittava la casa in cui notiamo il ritratto di padre Pio sul comodino: «È un portafortuna! Stamattina, mentre pulivo, gli ho dato un bacio».

 

Italiani rimasti dopo il 45

Visitare l’Albania per noi ha significato non solo osservare il paesaggio, molto variegato, e talora molto bello, anche se spesso scempiato, come testimoniano le foto che abbiamo scattato, ma soprattutto incontrarne alcune persone. Gli incontri, perfino quando sono programmati, come alcuni dei nostri, hanno sempre qualcosa di aleatorio e di poco scientifico. Ma proprio per questo, forse, finiscono per dire qualcosa di più vero sul paese stesso.

Anche perché in realtà il nostro andare in Albania ha avuto una ragione in più: due di noi sono impegnati in una ricerca sugli italiani rimasti in Albania dopo la fine della guerra, donne sposate a uomini albanesi, e viceversa, militari ma anche civili – quelli che interessano di più. Una storia poco conosciuta, come quella della occupazione greco-albanese: ma sia pur per pochi anni, dal 1939 al 1943, l’Albania ha fatto parte del Regno d’Italia, era Italia. Alcuni sono rimasti italiani, altri sono diventati albanesi, pochi hanno accettato le condizioni del regime, di tornare in Italia lasciando coniuge e figli, le donne non pare che abbiano accettato. Dopo la fine del regime comunista, alcuni di questi italiani, mal visti ed emarginati, hanno potuto fare ritorno nel paese natale. Avevamo alcuni nomi di persone che abbiamo cercato, qualche altra l’abbiamo trovata per caso, chiacchierando.

L'Albania è un Paese piccolo, grazie a raccomandazioni informali dei nostri buoni contatti in Italia possiamo incontrare importanti personaggi pubblici, che qui invece sono inarrivabili: ci dedica tempo e attenzione la Direttrice generale dell'Archivio centrale di Tirana, la dott.ssa Nika, che ci parla dei tanti destini di italiani emigrati in Albania, cuochi del XIX sec. e marxisti-leninisti ai tempi di Hoxha, di cui l'Archivio custodisce le tracce; o ancora passiamo il pomeriggio con «Sifi» Droboniku, l'artista che ha realizzato i suggestivi mosaici della nuova e imponente cattedrale ortodossa di Tirana e che prima fu coautore della facciata musiva che campeggia in piazza Scanderbeg.

 

Sognare l’Italia

Questa piccolezza favorisce anche gli incontri occasionali; semplicemente domandando in giro, ci imbattiamo in uno di questi italiani d'Albania, bloccati dalla discesa della Cortina di ferro che separò i Balcani dall'Italia: Domenico ha vissuto tutta la vita a Girocastro, salvo per le poche settimane dell'89 passate a cercare invano un impiego a Mogliano Veneto, paese natale del padre. Nonostante ripeta spesso «Sono stato fortunato!», ci rendiamo conto invece che nessuno all'ambasciata italiana di Tirana abbia capito che aveva diritto per ius sanguinis al passaporto italiano e non semplicemente al visto che era andato a richiedere, nessuno s'è adoperato a renderlo al paese che da sempre sente come suo e per cui è stato osteggiato durante il regime. Con l'amico di una vita, Çimi, ora che sta per andare in pensione, spera di poter fare un viaggio in Italia: una passeggiata in piazza di Spagna, una foto in piazza S. Marco, una partita di coppa della Juve sono i desideri di questa coppia di amici, le cui vite sono state mortificate dalle scelte inumane degli attori del potere. Mentre ci lascia Domenico si emoziona: «È tutta la vita che aspettavo questo incontro».

In lui come negli altri italiani colpisce la fame di raccontare: a Durazzo incontriamo Nico, un fiume in piena. Dopo oltre un'ora di intervista, non vuole smettere, perciò all'una passata ci spostiamo nel suo ristorante di pesce preferito. Mentre noi ci concediamo piatti su piatti, le triglie del suo piatto si fredderanno intatte, perché non si prende il tempo di mangiarle: con la sua voce marcata e mulinando le sue mani forti in gesti secchi, ci racconta della diffidenza dei suoi capisquadra, che mai permisero a lui, uno straniero, automaticamente sospetto di sabotaggio del socialismo, di mettere le mani sulle macchine più sofisticate e imparare le lavorazioni delicate; del primo lavoro in Italia come addetto ai camion dei rifiuti, lasciato dopo due anni per la durezza della nostra accoglienza; della perdita di tutti i risparmi investiti nelle finanziarie piramidali per guadagnare, una volta almeno, dei soldi facili; infine della perdita dell'impiego come uomo di fiducia in Albania di una conceria campana piegata dalla crisi.

 

Tolleranza bektashi

Alcuni di noi hanno avuto la fortuna di andare a visitare a Tirana la teke dei bektashi. Un’oasi di quiete e di serenità collocata sulla cima di una collina inglobata in un quartiere popolare costituito da modesti edifici scrostati, non troppo distanti dai scintillanti negozi del centro. L’impressione di trovarsi di fronte a una autentica spiritualità entrando in quel luogo è in parte influenzata dal fascino che ha sempre la mistica sufi. Allo stesso tempo, però, le parole pronunciate dal derviscio  di rispetto verso tutti gli uomini e le donne (considerate da loro uguali nei diritti ai maschi) così come verso tutte le religioni, ci sono sembrate sincere e autentiche. Non potrebbe esserci contrasto maggiore in una terra, come quella balcanica, bagnata dal sangue versato a causa delle contrapposizioni identitarie che hanno usato proprio la religione come arma da brandire contro l’altro, in un mondo come quello uscito dal comunismo in cui paradossalmente quasi più nessuno si sente religioso. Questa comunità islamica shiita di origine iraniana sviluppatasi in Turchia, immersa in un mare sunnita, da sempre ispiratasi alla nonviolenza verso le persone e gli animali, convintamente pacifista, si era opposta all’occupazione italiana, al punto che il suo più alto rappresentante venne fatto assassinare per ordine di Mussolini negli anni ’30. Successivamente, nonostante il fatto che i dervisci parteciparono attivamente alla lotta di liberazione (esistono foto di dervisci insieme a combattenti partigiani), il regime comunista non esitò a reprimere duramente le loro comunità. Lo stesso derviscio che ci ha ricevuto ha trascorso lunghi anni nei campi di lavoro.

 

A cavallo tra Occidente e Oriente

Insomma, grande è il fascino che questo paese trasmette a partire dai volti delle persone, dal cibo, dalla morfologia e dalla struttura urbanistica ed estetica delle città storiche, dagli infiniti minareti e dalle bellissime icone bizantine. Un insieme che ti fa sentire a cavallo tra due mondi, tra l’Occidente e l’Oriente, che ti porta a ripensare a ciò che hai sempre creduto essere l’Europa, un mondo cristiano o post-cristiano con caratteristiche particolari, che però dall’altra parte dell’Adriatico assume connotazioni, sfumature, forme diverse, mischiandosi con influenze provenienti dall’area medio-orientale e centro-asiatica. Un mondo che nonostante il delirio nazionalista, nato in Europa occidentale e ora tragicamente dilagante anche in quello orientale, dimostra la straordinaria bellezza e spontaneità dell’incontro e dell’intreccio dei popoli con i loro rispettivi bagagli culturali. Finora in Albania non si sono registrati scontri tra le diverse religioni: cristiani di diverse appartenenze e musulmani, a loro volta divisi tra shiiti e sunniti, hanno convissuto in un rapporto di reciproco rispetto. Una lezione per tutti.

Rimangono negli occhi l’intensità della luce, la ruvidezza e la severità della natura ancora in molta parte selvaggia con le sue montagne simili a giganti seduti sulla riva del mare intenti a bagnarsi i piedi, con i suoi fiumi che disegnano valli aride bruciate dal sole, con il suo lago che ha la forza e la bellezza del mare. Un paesaggio a volte maestoso, immenso, pericolosamente minacciato dall’uomo, ma ancora capace di sprigionare una bellezza folgorante. Un patrimonio dell’umanità da tutelare e valorizzare. Forse una delle poche aree in Europa ancora in buona parte incontaminate (si pensi per esempio al nord verso il Kossovo, ma anche l’interno, il sud…) che dovrebbero trasformarsi in un bene comune di tutti, al di là delle frontiere. Invece di pensare solo agli aspetti finanziari, l’Unione europea potrebbe fare di quelle aree (allargandosi alla Macedonia e alle altre nazioni confinanti) un territorio protetto con investimenti, strutture ecc. Ciò proteggerebbe l’ambiente e favorirebbe lo sviluppo, modificando anche l’immagine negativa che quelle terre hanno nell’immaginario collettivo occidentale. Falemindërit, Shqipëria!

 

William Bonapace e Antonello Ronca

con la collaborazione di Luca Bonomo

 

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