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teologia
I suoi sconvolgenti paradossi hanno colpito le nostre menti e i nostri cuori, fin da bambini. Eppure sembra che ogni volta si presenti in modo sorprendentemente nuovo. Nel capitolo 6 di Matteo abbiamo i forti ammonimenti rivolti alle persone particolarmente “religiose”. In questo contesto Gesù propone la sua preghiera. Segue la riflessione sull’occhio semplice, sul tesoro a prova di ladri, sull’incompatibilità tra Dio e il denaro. Non sappia la tua sinistra Nella parte terminale del capitolo precedente, eravamo chiamati a rispondere alla provocatoria domanda: «Se amate quelli che vi amano … che cosa fate di straordinario?». Gli esempi del capitolo 6 riguardano la pratica dell’elemosina, della preghiera e del digiuno; potremmo tuttavia estendere l’esempio anche a tutto quello che potremmo definire «straordinario», tutto quello che noi potremmo tentare di fare per «cambiare il mondo». Credo che ogni rivoluzionario “cristiano” debba meditare sulle seguenti riflessioni di Bonhoeffer. «È troppo grande il rischio di darsi da fare per erigere un regno celeste in terra, rendere visibile un nuovo mondo, realizzare con ogni sforzo ciò che si addice al seguace di Cristo, lo straordinario. E con ciò cercare di soddisfare il desiderio vivo e sincero di vedere qualcosa con i propri occhi, e non solo credere. Lo straordinario deve essere fatto, ma… attenzione! non sia fatto per essere visto. Deve essere nascosto a colui che compie quest’opera visibile, non agli altri uomini che devono poter vedere la luce del discepolo di Gesù. Se il discepolo desse importanza allo straordinario, agirebbe come un esaltato. Il discepolo di Gesù non può vedere nello straordinario altro che l’atto naturale dell’obbedienza, per cui agisce inconsapevolmente, senza pensieri complicati. Nella frase “non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra” è annunziata la morte del vecchio uomo. Chi può vivere un amore che non sa di esistere? Nessuno, tranne colui che è morto nel suo vecchio uomo e ha trovato una vita nuova». A questa interpretazione è stata mossa l’obiezione che non è possibile fare il bene in modo del tutto inconsapevole. Gli antichi esegeti erano portati a un’interpretazione allegorica. Ma già Clemente Alessandrino sosteneva che «neppure chi fa l’elemosina (oudé autòs ho eleōn) deve sapere di fare l’elemosina». Schweitzer cita Matteo 25,31ss dove l’uomo se ne sta davanti a Dio come uno che non sa di avere fatto del bene. E si potrebbero proporre anche altre affermazioni di Gesù. Chi accoglie un bambino, chi dona un bicchier d’acqua, non fa nulla di cui vantarsi: accoglie Gesù, avrà la ricompensa. Certamente Bonhoeffer non intende l’azione del discepolo come quella di un sonnambulo, di un robot. Egli sa quello che fa. Ma lo fa naturalmente, spontaneamente (non automaticamente!) senza la pretesa di fare qualcosa di «straordinario». “Recitare” il Padre nostro Anzitutto, Gesù ci insegna come non dobbiamo pregare. «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti». Il termine «ipocrita» trae origine dal linguaggio teatrale: l’ipocrita era una specie di capocoro, colui che dialogava col coro, un attore, una maschera. Si presuppone che tutta la vita sia una sceneggiata: esiste solo ciò che appare. «Pregando poi, non sprecate parole come i pagani». Virgilio ci narra (Eneide, cap. IV) che «trecento volte la maga invoca con voce di tuono gli dei». Gli Atti degli apostoli (19,34) ricordano le invocazioni della folla ad Efeso: «Si misero tutti a gridare in coro per quasi due ore: “Grande è l’Artemide degli Efesini!”». Ma, senza guardare troppo indietro, chi non ha mai assistito a verbose liturgie “cattoliche”? Il Padre nostro si differenzia anche da molte preghiere giudaiche. La preghiera riflette la predicazione di Gesù che aveva al suo centro il regno di Dio e non la storia della salvezza di Israele e la liberazione dai suoi nemici. Gesù ci insegna a rivolgerci a Dio chiamandolo «padre», dato che noi siamo, o dobbiamo diventare, figli di Dio. Ciò significa, come risulta dall’ultima antitesi, imitare la natura di Dio: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del vostro Padre celeste». «Sia santificato il tuo nome». Non è una lode, è una richiesta. Si prega Dio di santificare lui stesso il suo nome. «Santificherò il mio nome grande, disonorato tra le genti, profanato da voi» (Ezechiele, 36,23). Dio deve proteggere il suo nome dalla nostra follia, dal nostro desiderio di farne una personificazione dei nostri desideri di potenza. «Venga il tuo Regno». Questo chiediamo? Ci rendiamo conto che il Regno appartiene ai poveri e ai perseguitati e non presenta apparenze spettacolari? E che dal Regno vengono esclusi i ricchi e chiunque è troppo sicuro di entrarci? Chiediamo che sia fatta la sua volontà oppure la nostra? Chiediamo solo il pane necessario oppure ci preoccupiamo perché temiamo di diventare poveri? Il pane che invochiamo è seguito dall’aggettivo epiousios. È un termine che troviamo solo in questa preghiera. È un pane speciale? È il pane del Regno (Luca 14,15), cioè il pasto comune di un banchetto in cui gli invitati d’onore saranno coloro che di solito ne sono esclusi? È il pane di domani (Vangelo degli Ebrei)? Pregare per il domani non è forse in contraddizione con l’ammonimento che seguirà al v. 34: «Non affannatevi dunque per il domani»? La preghiera fiduciosa è tuttavia profondamente diversa dall’affanno. In conclusione: chiediamo unicamente quello che ci è necessario. «Come anche noi rimettiamo». È l’unica espressione (sia pure introdotta da un «come») in cui chi prega si pone parte attiva e non solo come richiedente. Ma non si tratta di un’azione per cui si possa esigere da Dio la remissione dei peccati. L’uomo può esprimere la domanda di perdono solo quando da parte sua ha perdonato. E non è detto che colui che viene da noi perdonato non si faccia beffe del nostro perdono. Forse il perdono divino e quello umano stanno in un rapporto di coincidenza, poiché l’ordine di precedenza può essere invertito, come dimostra la parabola del servo spietato, cui era stato condonato un debito enorme. «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (Matteo 18,33). La richiesta di non «indurci in tentazione» è un grido, un’invocazione d’aiuto. Chi prega non è assolutamente sicuro di sé. Dio non tenta nessuno (Giacomo 1,13). Nel caso delle tentazioni di Gesù (Matteo 4,1-3) si ha un intreccio tra il comportamento di Dio e quello del Diavolo: il Diavolo tenta Gesù, ma è lo Spirito a portarlo nel deserto. Forse la tentazione di cui si parla è quella in cui è in gioco il fatto stesso di essere discepolo di Gesù. E come conclusione si ha la supplica di essere liberati dallo strapotere della malvagità. Così termina la preghiera, secondo i migliori manoscritti. È la preghiera di Gesù, che partecipa alla nostra umanità sempre esposta al dolore e insidiata dal male. Per attenuare questa impressione cui non erano abituate, le prime comunità cristiane, fin dall’inizio del II secolo, hanno aggiunto «Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli». La paga, il dono «Dove i ladri scassinano e rubano». Come afferma Fausti «ciò che è accumulato, tesaurizzato, è furto al Padre e ai fratelli: presto o tardi, verrà sottratto a chi l’ha rubato. O il dono resta tale e si fa principio di dono, o diventa furto e principio di furto. Il dono resti tale – e chi ne è derubato, non lo richieda indietro (Luca 6,30). In questo modo il suo tesoro non sarà mai rubato: resterà sempre dono, anche per chi lo fa oggetto di furto». «Se il tuo occhio è semplice (haploũs)». Il modo di vivere dipende dall’occhio e dal cuore, che rendono luminosa non solo la persona, ma anche la realtà che la circonda. Haplòtēs: semplicità, generosità. Nelle lettere di Paolo, quando si parla di «dare», viene aggiunto che bisogna farlo «con semplicità». È un termine che riprende quanto detto prima: fare il bene senza rendersene conto. «Nessuno può servire a due padroni». È l’alternativa radicale. Se servi Dio, diventi come lui. Se servi l’idolo, diventi come gli idoli. «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano, hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano, non emettono suoni dalla loro bocca. Siano come loro quelli che li fabbricano, e chiunque in essi confida» (Salmo 115,4-8). Così sono coloro che confidano nel denaro, coloro che scelgono di dedicare la vita a produrre denaro, a fecondare il denaro in modo che produca altro denaro. Diventano statue morte e fredde, maschere mortuarie di se stessi. Gli «idoli» sono anche le immagini di se stesso che ognuno si fabbrica. C’è un ossessivo bisogno di riconoscimento. Se lo cerco negli altri, non ne avrò mai abbastanza. Chi vuole esibire le proprie opere buone (elemosina, preghiera, digiuno) sarà sempre schiavo del giudizio degli altri e del tentativo di fornire una bella immagine di se stesso. Anche in Dio si può cercare ancora il proprio io, come nella parabola del fariseo e del pubblicano. «Hanno già ricevuto la loro ricompensa… Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» Vengono perciò presentati due generi di «ricompensa». C’è quella che spera di ottenere chi cerca a tutti i costi un risultato, in particolare il consenso del maggior numero di persone. C’è chi la cerca attraverso calcoli complicati, c’è chi ritiene di trovarla nel denaro, chi è in ansia per il timore di non raggiungerla, né per l’indomani né per gli anni che seguono. Ma c’è una «ricompensa» che non si basa su qualcosa che si vede e si prova nell’immediato. È un qualcosa che il credente può scorgere con gli occhi della fede, una fede che non sia l’adesione intellettuale agli articoli del Credo, ma che sia «fidarsi di Dio, affidarsi a lui», rischiando tutto per rispondere alla sua chiamata. Non è una ricompensa puramente «escatologica», rivelata solo alla fine dei tempi: consiste anzitutto nell’essere liberi dall’esigenza di essere ricompensati qui ed ora. È tentare di mettersi in sintonia col disegno del Creatore. È la libertà di godere delle bellezze della creazione. È intravedere il senso della vita di ognuno di noi. Dario Oitana (continua)
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