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410 - il foglio e gli «anni spezzati» del terrorismo |
LA FOLLIA DEL «BENE»
Una recente serie televisiva, Gli anni spezzati, ci ha riportato nel clima degli anni ’70, quelli del terrorismo. |
E ci ha indotto a riflettere su quel periodo tragico e cruciale per l’Italia e per il mondo e sulle nostre reazioni a quegli avvenimenti: come ha reagito il foglio durante gli anni del terrorismo? Ripercorriamo, per sommi capi, le drammatiche vicende degli anni Settanta.
Maggio 1972: assassinio di Calabresi. Il quotidiano «Lotta Continua» lo definisce un «atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia», mentre il quotidiano «il manifesto» prende le distanze. Allora erano venduti (e comprati!) altri due quotidiani della sinistra “extraparlamentare”: il «quotidiano dei lavoratori» e «Servire il popolo». A quanto ricordo, diffusa era l’opinione (condivisa anche da me) secondo cui Calabresi fosse responsabile della morte di Pinelli. Nessuno poteva immaginare quanto sarebbe avvenuto 37 anni più tardi (2 maggio 2009): la calorosa stretta di mano tra le vedove Calabresi e Pinelli.
Negli anni successivi si verifica un’escalation del terrorismo “rosso”. Aprile-maggio 1974: sequestro Sossi. Il giudice non viene assassinato, ma ormai le Brigate Rosse iniziano a compiere frequenti e cruente azioni di terrorismo e a occupare le prime pagine dei giornali.
Come reagiva l’opinione pubblica di sinistra, anche coloro che criticavano la debolezza del Pci? A lungo molti (me compreso) si rifiutavano di credere alla stessa esistenza del terrorismo rosso. «Sono fascisti travestiti! Sono manovrati dai servizi segreti e dalla Cia!». Ancora nel giugno del 1975, celebrando la vittoria del Pci nel comune di Torino, dal palco si cantava: «Le brigate rosse… sono nere!».
Eppure dalle dichiarazioni roboanti dei brigatisti nei vari processi, emergeva sempre più che questi individui che si macchiavano di efferati delitti, erano comunisti, erano dei “nostri”. Essi erano, a loro modo, degli autentici eroi, desiderosi di cambiare il mondo, pronti a rischiare il carcere e la vita per quegli ideali per cui anche noi lottavamo da anni. È stata dura, anche per me. Come potevo immaginare che dal massimo «bene» potesse scaturire il massimo male?
Ma non ci eravamo accorti che dalle parole, da slogan che dovevano rimanere tali, si era passati ai fatti. Per ogni compagno morto scattava la promessa: «Sarai vendicato!». E ancora: «Faremo più rosse le nostre bandiere, col sangue delle camicie nere», o «Mettiamo fuori legge il Mis e la Dicì!». O ancora: «Uccidere un fascista non è reato». E «fascisti» erano definiti tutti coloro che non erano d’accordo con la «linea giusta» stabilita dagli ideologi dei vari gruppetti. Occorre anche aggiungere che parecchi di questi ideologi intransigenti, li ho poi ritrovati nella Lega Nord o in Forza Italia. Ma sempre altrettanto duri e puri. E sempre con ruoli dirigenziali.
Ottobre 1977: il rogo del bar Angelo Azzurro, in via Po. All’inizio si cercò di minimizzare. Così si esprimeva il «quotidiano dei lavoratori»: «Dopo un sacrosanto incendio alla sede Cisnal… qualche gruppo ha lanciato contro un bar (il classico bar di fighetti) numerose bottiglie molotov. L’incendio ha provocato ustioni gravissime a un avventore, Roberto Crescenzio, 22 anni… Un atto inqualificabile che ha sollevato costernazione tra i compagni che hanno preso parte alla manifestazione. Non doveva succedere, quattro stronzi rovinano il significato di una manifestazione antifascista».
Da allora penetrò nelle coscienze, in particolare tra i giovani, una maggiore sensibilità per la vita e per il carattere “umano” anche del nemico. Infatti, in occasione del rapimento Moro, piazza San Carlo era riempita di comunisti, con pochissimi democristiani, e lo slogan era: «Moro vive e lotta insieme a noi». Ma gli omicidi e le “gambizzazioni” di “sinistra” continuavano. E così pure una parte dei lavoratori credeva ancora nel «tutto e subito» e si verificavano, alla Fiat, atti di puro luddismo. Allora insegnavo al serale e alcuni dei miei allievi erano operai Fiat. Ascoltavo la loro voglia di lottare ma anche la perplessità di fronte a certi metodi.
Seguirono la raffica di licenziamenti, i 35 giorni di sciopero, il pieno appoggio di Berlinguer e l'esortazione di Ballestrero in favore delle famiglie degli operai in difficoltà. E infine, ottobre 1980: la «marcia dei quarantamila» a cui hanno parteciparono, oltre a numerosi impiegati e “capetti”, anche schiere di semplici operai. Da allora, il potere dei sindacati e, in genere, delle lotte operaie sarebbe stato notevolmente ridimensionato.
Ma che cosa scriveva il foglio in quegli anni? Nei primi anni Settanta, il fenomeno della violenza “rossa” veniva trattato solo di sfuggita. A partire dal 1978, le nette prese di posizione si moltiplicarono. Caro fratello brigatista: così iniziava una “lettera”ai terroristi che proseguiva con drammatiche domande: «Quanti sono gli uomini che avete giudicato e ucciso, in nome di un ideale che non può più essere ormai l’ideale dei poveri, perché porta il marchio sanguinario dei loro padroni?» (n. 63). Sull’assassinio di Moro, così ci si esprimeva: «Prima del 16 marzo Moro poteva essere giudicato politicamente. Dopo, e fino alla morte, egli è stato il più debole, la vittima del sopruso, è diventato uno dei poveri del mondo, spogliato di tutto. Perciò lo abbiamo difeso e oggi lo onoriamo» (n. 64). In seguito mi limito a citare il commosso ricordo di Vittorio Bachelet, amico di Peyretti (n. 79). Nel numero 80 si proclama che il “sistema”, il tanto esecrato “sistema”, «è migliore del terrorismo». Nel n. 84, col significativo titolo Abbiamo perso tutti, si opera una profonda analisi della “storica” vertenza in Fiat. La famosa «marcia dei quarantamila» non viene né esaltata né demonizzata. Abbiamo infine un illuminante e originale studio sul linguaggio delle Brigate Rosse: Le parole che uccidono (n. 87). È stato il foglio all’altezza della tragica e difficile epoca storica? Credo di sì.
Dario Oitana
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