La scossa di Crimea, passata con orgoglio identitario dallo stato di Ucraina alla Federazione Russa, con le sue ripercussioni, ha indicato una volta di più la tensione altalenante tra globalizzazione e particolarismi, fibrillazione dei nostri anni nella società dei popoli umani. Si vede anche nella fragile unità europea, nella montata dell'estrema destra francese di Marianne Le Pen, nella febbre dei vari nazionalismi economici, ideologici, dialettali (il referendum telematico del Veneto) e nei muri armati, che tagliano la madre terra.
L'ondata di separatismo, di autosufficienza, di svincolamento e localismo centripeto, è un effetto perverso dell'universalismo distorto: la “globalizzazione”. In cielo, in terra e in ogni luogo stanno e viaggiano le cose, il denaro, la rapina finanziaria con occulta destrezza, l'industria mediatica, le armi come termiti cruente, ma non le persone, i diritti umani, le visioni, non il dialogo culturale, non l'ospitalità dei popoli. Due movimenti si scontrano, come venti o flutti opposti, ed è tempesta: dappertutto si comunica e ci si influenza reciprocamente (con costi o vantaggi non distribuiti equamente), e ci si accosta fisicamente; centri planetari di potere determinano la vita fino all'ultimo villaggio. Non c'è legge comune: la Nato e gli imperi comandano più dell'Onu. Le tante e varie aggregazioni umane, a molti livelli locali e culturali, si sentono frustrate e compresse, e sono indotte a difendersi esasperando la propria identità per paura della diversità. L'economico, il tecnologico, il materiale, è dovunque globale, ma non è globale l'equità, la tutela del cittadino nel vivere, alimentarsi, esprimersi, conoscere, stare insieme con pari diritti e doveri. Se la vita comune globale è una gara che esclude e non include, chi non riesce a vincere si ritira nel suo box, e chi vince erige il suo castello-fortezza, alza muri, ribadisce confini territoriali, culturali, economici, scale gerarchiche, e predica che così è la realtà, e il meglio è impossibile.
È risaputo con la mente che constata, ma non ancora nella coscienza che vive: l'umanità, mai come oggi, ha la possibilità di vivere unita, ma deve imparare che l'unità non è livellamento e omologazione. L'esercizio del potere non è evoluto bene dall'antico vizio dell'imporre fino alla capacità di coordinare le differenze, che sono fioritura di valori, nessuno assoluto, tutti in relazione. Davvero assoluta è l'esclusione dell'assolutezza, e il valore della relazione.
La politica, solo da un paio di secoli, dichiara come ideale la democrazia, cioè la capacità di vivere liberi molti insieme. Si può supporre che politica, da “polis”, implichi l'idea di “molti”, differenti, insieme. Il solitario, la congrega di identici, non ha politica. Questa è l'arte di vivere, molti e differenti, senza massificarsi, senza ignorarsi, senza violenza e sopraffazione. Impresa umana di gran valore, attraverso la storia e l'evoluzione, che è favorita dalla cooperazione e non dalla selezione. Inoltre, ogni identità è anche diversità: ognuno è quello che è, e pure cambia, evolve. Essere e divenire si intrecciano nella vita.
Siamo tutti, ci piaccia o no, imbarcati in un'unica scialuppa nello spazio, periclitante, senza vie di fuga. Giustizia e pace, comunicazione e cooperazione tra differenti, prima che una bella virtù, sono una semplice astuzia vitale, come il respirare, appena nati. Che cosa dunque può fare un comune cittadino per avere buona influenza sulla politica del mondo? Guardare il vicino e il lontano come un essere umano, di valore e diritto uguale al nostro, per qualificare così la convivenza, oggi e domani.
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