Si fa presto a parlar male dell’Europa. È la memoria corta di più generazioni, ormai, che per loro fortuna non hanno combattuto guerre e hanno conosciuto un benessere crescente fino a pochi anni fa. Dopo la battuta d’arresto della crisi economica ed epocale iniziata nel 2007 e non ancora conclusa, tutto viene rimesso in dubbio e, come spesso accade, fioriscono gli equivoci e si tende a scambiare cause ed effetti. L’utopia si capovolge nel suo contrario.
La costruzione europea muove i primi passi negli anni 50 per impulso di alcune grandi personalità politiche, molto più che per spinta popolare. Chi ha memoria di quel tempo può immaginare cosa volesse dire proporre una stretta collaborazione a francesi e tedeschi, a pochi anni dal 1945. Per l’Italia fu, tra l’altro, una grande occasione per riaccreditarsi tra i popoli liberi, dopo il periodo fascista. La costruzione europea proseguì con lena sempre minore, fino a fermarsi dopo l’accordo chiamato Atto Unico del 1987, che unificò le varie istituzioni prima di allora esistenti. Intanto vi aderivano altri stati, alcuni con convinzione, altri obtorto collo, come il Regno Unito, sempre tentato dall’isolazionismo e dall’asse preferenziale con gli Usa.
Alle soglie degli anni 90, proprio perché la costruzione politica non progrediva, di nuovo alcuni lungimiranti politici ed economisti posero le basi della moneta unica, come grimaldello per superare uno stallo, ormai evidente. Chi ora accusa l’euro e la Banca Centrale Europea di non avere alle spalle uno stato dovrebbe ricordare che senza quella scommessa oggi le istituzioni europee sarebbero ancora più fragili e arretrate. Da allora gli stati non permisero più alcuna significativa cessione di sovranità (si vedano i vari tentativi abortiti di costituzione europea), e anzi cercarono di riprendersi gli spazi perduti. Senza mezzi termini, se ora l’Unione Europea è in crisi ciò è dovuto a questo pericoloso ritorno di angusti e gelosi nazionalismi. Inoltre, benché il Parlamento europeo (elettivo dal 1979) abbia notevolmente aumentato le sue competenze, resta lontano e sbiadito rispetto ai parlamenti nazionali. Sono scarsissime le notizie sulla sua attività e mediocre è la qualità dei suoi membri, specie quelli italiani.
Scalfari, nel suo recente “racconto autobiografico”, riferisce di un tentativo, insieme ad altri giornalisti di nazioni diverse, di fondare a Parigi un quotidiano in lingua francese ma con diffusione europea. Non se ne fece nulla dopo più di un anno di incontri preparatori e fu un peccato: sarebbe stata un’ottima idea per dare maggiore visibilità alle istituzioni europee, per approfondire una cultura comune, e non ultimo, per uscire dalle gabbie linguistiche che persistono e si moltiplicano con gli attuali 28 membri dell’Unione.
Nel contempo quando esistono istituzioni rappresentative deboli, le burocrazie tendono a rafforzarsi e a divenire autoreferenziali. Vengono perciò viste come altro da sé dagli stati e soprattutto dai popoli, fino a diventare delle pericolose controparti, mentre, è banale ricordarlo, l’Europa siamo noi, cittadini europei. Si aggiunga, dopo l’unificazione, la debordante potenza economica della Germania, il sostanziale defilarsi della Gran Bretagna e il venir meno di quell’asse franco-tedesco che da Schumann e Adenauer fino a Mitterrand e Kohl era stato motore e al contempo garanzia di una costruzione equilibrata. Va detto infine che l’Europa unita presupponeva un carburante essenziale: una robusta e costante crescita economica. La previsione, eccessivamente ottimistica, si è rivelata fallace. Essa, tra l’altro, avrebbe consentito di tenere sotto controllo i debiti pubblici e in particolare quello italiano, del tutto abnorme. Fummo ammessi nella moneta unica, è bene ricordarlo, a patto di ricondurre il rapporto con il prodotto lordo al 60% entro il 2011 (nel ’96 era al 125%), ma se si escludono gli sforzi di ministri come Ciampi e Padoa Schioppa nei governi Prodi, nulla fu seriamente tentato per raggiungere o almeno avvicinare l’obiettivo. È certo d’altronde che le misure decise dall’Unione europea per superare il difficile momento sono state eccessivamente rigide e talora contraddittorie, senza mai dimenticare che sono state assunte da una Commissione (espressione dei governi nazionali) dominata da forze conservatrici.
È dunque il momento di cercare di modificare col voto (che per la prima volta eleggerà il presidente dell’esecutivo) questo assetto, nel senso di favorire istituzioni più aperte al sociale (in ultima analisi, più democratiche). Va percorso con decisione lo stretto sentiero che, respingendo l’assalto scomposto della demagogia e degli esiziali riflussi nazionalistici, ci permetta, tenendoci stretti l’Europa e l’euro, di imboccare la via che ha come meta finale un vero stato federale. Il primo passo non potrà che essere la graduale ed equilibrata messa in comune dei debiti pubblici nazionali.
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