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 412 - Due domenicani: Girotti e Giuliani

 

Un convento, due storie diverse

 

San Domenico è una delle più belle chiese di Torino, tra le più antiche e l’unica d’impianto gotico medievale: mantiene intatto il suo fascino benché lo scriteriato allargamento di via Milano abbia privato l’edificio nel Settecento ad opera del grande architetto Benedetto Alfieri, di buona parte della navata destra. Anche l’interno è sobrio e misurato, ad onta dei molti successivi rimaneggiamenti.

Su una colonna che divide la navata centrale da quella destra, a poca distanza dall’altar maggiore, si nota un dipinto naif, in una cornice neogotica, che ritrae un domenicano, bibbia aperta tra le mani e per sfondo un campo di concentramento. È Giuseppe Girotti, nativo di Alba, cultore dell’ebraico, insigne biblista e commentatore di libri dell’antico Testamento. Apprendiamo, da una pagina che illustra il dipinto, che, privandosi spesso dal cibo a lui destinato, nella Torino devastata dalla guerra, aiutava i più deboli e poveri e che, durante la repubblica di Salò, soccorreva e nascondeva gli ebrei «perseguitati dal nazismo». Non si precisa: «in base alle leggi razziali italiane del 1938». Denunciato da un delatore italiano, la cui identità probabilmente è nota, ma sempre prudentemente taciuta, è arrestato nell’agosto del 1944 e deportato a Dachau, dove muore, non ancora quarantenne, il primo aprile 1945, 29 giorni prima che il campo venga raggiunto dalle truppe alleate. È stato riconosciuto giusto tra le nazioni allo Yad Vashem di Gerusalemme. Di carattere non proprio accomodante, padre Girotti ebbe grane con i superiori, i quali lo privarono dell’insegnamento alla scuola teologica di Santa Maria delle Rose (benché le sue indiscusse doti lo avessero portato a perfezionarsi all’Ecole Biblique di Gerusalemme) e lo trasferirono a S. Domenico. Ma anche su questo punto l’agiografia preferisce sorvolare (cfr. ad es. «Il nostro tempo» del 6 aprile 2014, p. 11).

Il 26 aprile scorso, con molto ritardo, padre Girotti è stato beatificato in Alba e se non fosse per il bell’articolo di Alberto Cavaglion su «La Stampa» del 25 aprile c’è da giurare che ben pochi se ne sarebbero ricordati. L’evento mediatico e turistico del giorno successivo, sul palcoscenico romano, in cui due papi viventi hanno, come si usa dire, elevato all’onore degli altari due papi defunti avrebbe oscurato ogni altra cosa. Oltre a rievocare la figura di Girotti, Cavaglion la accosta a quella del medico ebreo Giuseppe Diena, agnostico e libero pensatore, di vent’anni più anziano, già arrestato una volta per antifascismo. Erano molto amici e la trappola del delatore li sorprese insieme. Anche Diena fu deportato e morì nel campo di Flossenbuerg: «Quando si ama la libertà, le barriere religiose e generazionali si frantumano», conclude Cavaglion.

Ma continuiamo la nostra visita in S. Domenico: se dal dipinto di Girotti, con una lieve deviazione a destra fate 12 passi vi imbattete in un busto (anzi, tecnicamente in un’erma marmorea) sotto la quale, appena leggibile, è scritto: «P. R. Giuliani». Chi era costui? Confratello di Girotti, anche se mai presenti insieme nel convento di via Milano, Reginaldo Giuliani, diciotto anni più anziano, fu facondo predicatore in molte chiese dell’Italia intera, nonché fascista convinto e cappellano delle Camicie Nere. Morì in combattimento a Mai Beles. durante la guerra d’Etiopia il 21 gennaio 1936 e fu insignito della medaglia d’oro al valor militare. Erano i tempi in cui il cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, sosteneva che la conquista avrebbe portato la civiltà e la fede a quelle popolazioni, dimenticando che in Etiopia esisteva una delle più antiche chiese cristiane, quella copta, cioè egizia. E le truppe italiane avrebbero contribuito a distruggerla, fucilando migliaia di monaci e diaconi dell’antico monastero di Debrà Libanòs (A. Del Boca, Italiani, brava gente?, pp. 228-29). Erano gli stessi tempi in cui Mussolini sollecitava l’uso dei gas per piegare la resistenza abissina e che Badoglio e Graziani usavano senza troppi scrupoli (ibid., p. 204). Ancora, erano gli stessi tempi in cui, dopo il fallito attentato a Graziani, era stata di fatto assicurata l’impunità a tutti coloro, civili o militari, che avevano massacrato vecchi, donne e bambini nel corso delle «spedizioni punitive» (ibid., pp. 218-19).

La figura di Giuliani, oggi così pudicamente ricordato, senza pitture naif o fogli illustrativi nella penombra della chiesa, passò tuttavia indenne attraverso quella difficile temperie e trovò ammiratori ed esaltatori. I suoi resti mortali, riportati in Italia nel 1956, furono tumulati nella Cappella del Rosario in San Domenico, anziché nel portico dei domenicani all’interno del muro di cinta del cimitero monumentale. Almeno così è riferito in Figure domenicane di fr. Enrico Ibertis (Torino 1970), il quale scrive un’accurata biografia (Sei 1960) e riporta anche un giudizio del card. Maurilio Fossati: «padre Giuliani è sempre il religioso osservante, il sacerdote integerrimo, il domenicano coi suoi tre grandi amori: a Dio, alla Chiesa, alla Patria».

Come si possa trarre dalle parole dello stesso Vangelo comportamenti così diversi resta, per me, un mistero. E, detto tra noi, accentua il mio scetticismo verso ogni religione e sulla perfettibilità dell’uomo ad opera delle medesime. Poi, per carità, comportamenti opposti si verificano anche nelle migliori famiglie e con le migliori intenzioni. L’importante è saperlo.

 

Pier Luigi Quaregna

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