
menu | :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: ::
|
|
|
chiesa
413 - Un tema conciliare dimenticato, tornato centrale |
Chiesa povera, chiesa per i poveri
Una versione diversa di questo articolo è stata pubblicata su «Adista» n. 20 del 31 maggio 2014. |
Superiore alle aspettative la partecipazione al convegno interregionale organizzato dalle delegazioni regionali di Lombardia, Piemonte e Liguria del Meic (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale) dal titolo «Chiesa povera. Chiesa per i poveri» presso l’abbazia cistercense di Santa Maria di Rivalta Scrivia (Tortona), sabato 10 maggio. Il Convegno si inserisce nel Progetto Concilio del Meic.
Vangelo e povertà
Enzo Bianchi ha parlato di «Vangelo e povertà», un tema molto sentito nel Concilio e nel primo post-concilio, ma poi dimenticato. Oggi con papa Francesco è tornato di nuovo al centro della vita ecclesiale. È stata una delle sue prime affermazioni: «vorrei una chiesa povera e per i poveri». Bianchi distingue tre tipi di povertà: antropologica, materiale, interiore. La povertà antropologica è contraddistinta da precarietà e fragilità della condizione umana: nasciamo nella nudità, viviamo nella precarietà, moriamo nella solitudine. Soprattutto viviamo oppressi dalla paura della morte. Siamo bisognosi degli altri e dell’Altro, costantemente tentati di sfuggire e di rimuovere questa povertà elaborando strategie per sottrarci a esse ed eludere la coscienza della fine. Quanto alla povertà materiale, meglio parlare di poveri: persone che sono nell’indigenza e mancano dei beni essenziali, ma anche libertà, riconoscimento, giustizia. Si riconoscono i poveri solo quando li si incontra nell’ascolto dei loro bisogni, nella capacità di sentirsi responsabili nei loro confronti. Sono sempre segno di un’ingiustizia regnante, di oppressione di uomini su uomini. Sono vittime di non-riconoscimento da parte degli altri. Spetta a noi – e solo nella prossimità − ascoltare e leggere la povertà di chi incontriamo. Infine, povertà interiore (e forse spirituale), interiorizzata: si nutre di distacco dai beni, dalle ricchezze, dal successo, dal potere. È una povertà che sente una mancanza e lì trova una profonda fiducia nel Signore. Non cerca serenità o atarassia, ma accoglie la propria esistenza perché sia colmata dalla presenza del Signore. È quella che intravede Matteo nelle sue beatitudini: beati i poveri nello spirito, coloro che hanno il respiro del povero. È la condizione di quelli che sono fedeli al Signore e attendono tutto da lui, che dicono “amen”, “sì” al Signore.
C’è un’idea di povertà “romantica”, impossibile, che non è quella di Gesù e del Vangelo. Gesù non apparteneva alle classi più povere, agli indigenti. La sua famiglia era sostenuta da Giuseppe, un artigiano del villaggio. Non sappiamo nulla degli anni dalla giovinezza sino all’attività pubblica come predicatore. La sua vita era itinerante, semplice e sobria, sostenuta dai discepoli che continuarono a lavorare e dall’accoglienza di amici e simpatizzanti. C’era una cassa comune (tenuta da Giuda) e l’aiuto di donne con i beni. È una povertà che va letta come sobrietà, semplice e decorosa, nella caratteristica della condivisione. Non aveva niente di “suo”, ma era tutto della comunità. E dalla cassa comune si traevano anche i soldi per i poveri. La povertà di Gesù è quella di un uomo come noi, di un povero tra i poveri, di un Messia che si fa schiavo, non signore (Is 53). In Gesù la povertà è presente come tema cristologico: non si può dare identità a Gesù Cristo senza povertà. Non a caso Paolo sintetizza il mistero dell’incarnazione come una discesa dalla ricchezza alla povertà (2Cor). Dobbiamo contemplare la scelta della kenosi: ha rifiutato le tentazioni del messianismo glorioso. Si è sottomesso, ma non si è arreso (il titolo originale del libro di Bonhoeffer va tradotto Resistenza e sottomissione, non resa).
Tutti i Vangeli contengono testimonianze sull’attenzione di Gesù per i poveri, come primi destinatari dell’annuncio (soprattutto Luca ricorda i gesti nei loro confronti, basti pensare al Magnificat). Già il Battista chiedeva la conversione, attraverso gesti di povertà concreta, la condivisione in vista di equità e giustizia. Gesù è stato consacrato proprio per portare il lieto annuncio ai poveri (Lc 4), poveri di una povertà materiale, che si trovano in una situazione più propizia per accogliere il Regno di Dio, che attendono di essere liberati dalla loro condizione di bisogno, che sono più disposti ad accogliere la predicazione di Gesù. Egli non promette loro di farli ricchi, ma garantisce che la loro sofferenza ha un termine e svela che per loro è più facile accogliere il Signore che non i ricchi. Se il Signore preferisce i poveri è perché hanno desiderio di cambiare, mentre chi è ricco non vuole cambiare e non ha desiderio di condivisione. Per questo Gesù rivolge loro i “guai”. È necessaria la conversione, la condivisione dei beni, perché vi sia una certa equità. Sigillo è la profezia sul giudizio: è alla fine della storia, ma si consuma nella nostra vita ogni giorno. Discepoli e comunità cristiana sono chiamati a conformare la loro vita e il loro stile a quelli di Gesù. Per Gesù la povertà è stato un tratto essenziale della sua missione: è sulla povertà che la Chiesa gioca la sua fedeltà al Signore. Papa Giovanni, e poi il Concilio, rimisero al centro i poveri. Oggi spetta a noi portare avanti questo annuncio, ricordando che si tenta, e non si realizza mai.
La lezione del Concilio
Cettina Militello ha ripercorso «La lezione del Concilio». Papa Francesco appartiene alla parte del mondo caratterizzata da rapporti economici sbilanciati e povertà generalizzata. Questo chiede soluzioni concrete, operatività creativa dal punto di vista della prassi. Nella storia possiamo trovare la permanenza della nostalgia della condivisione di Atti 2 e del suo tradimento, con uno stile differente, che non ne ha colto e affermato l’istanza cristologica. Oggi siamo però di fronte allo scandalo di una povertà che cresce a dismisura, che interpellò il Concilio già cinquant’anni fa.
Al Concilio l’intervento più stimolante fu il discorso di Lercaro del 6 dicembre 1962, a conclusione della prima sessione conciliare. Non possiamo coglierlo se non nel travaglio chiesa-modernità dell’ultimo periodo che precede il Concilio. In questo contesto il problema di fondo è come leggere la sfida della povertà, se farne un tema tra tanti o quello su cui riaggregare l’intera esperienza ecclesiale. Per Lercaro il tema della chiesa dei poveri è principio chiarificatore e di sintesi. Il mistero di Cristo nei poveri e l’annuncio del Vangelo dei poveri è da mettere al centro della riflessione del Concilio. Ma al Concilio operavano anche gruppi informali. Il “gruppo del collegio belga” si riunì intorno alle idee di Paul Gauthier, radunando vescovi di 18 nazioni. Accanto al messaggio di apertura di papa Giovanni e ai discorsi di Lercaro e di Dossetti, va perciò ricordato anche il cosiddetto «patto delle catacombe», firmato da più di 500 vescovi. Il discorso sui poveri non è sociologico o politico, ma cristologico: è il rapporto che intercorre tra Cristo e la Chiesa. La proposta del gruppo belga non ebbe successo, nonostante i numerosi interventi sul tema della povertà. E neanche si colse la forza del gesto di Paolo VI di deporre la tiara e di dare il ricavato della vendita ai poveri: è il simbolo della fine della chiesa costantiniana e del riconoscersi nella kenosi di Cristo.
Il testo conciliare più importante sul nostro tema è Lumen Gentium 8,3. Qui l’istanza della povertà non viene accolta con radicalità, ma ha un’eco potente: anche se un inciso («quantunque per compiere la sua missione la Chiesa abbia bisogno di mezzi umani») fa emergere le due linee dialettiche presenti al Concilio. Comunque la LG pone un legame tra povertà di Cristo e povertà della Chiesa. La povertà è un tema cristologico: non si può dare identità a Gesù Cristo senza povertà. Non a caso Paolo sintetizza il mistero dell’incarnazione come una discesa dalla ricchezza alla povertà (2Cor). Non si tratta di condizione sociologica, quanto di un orizzonte all’interno del quale leggere il proprio limite esistenziale e stabilire rapporti con il deficit creaturale che contraddistingue la condizione umana. Come scriveva Y. Congar (Per una Chiesa serva e povera, Parigi 1963; Bose 2013), c’è simmetria tra Cristo e la Chiesa, tra Cristo e la sposa. La sposa vive del suo Cristo e dunque non può non essere povera. Ecco il discorso della radice cristologica come modello kenotico, è modello che evolve nel servizio altrimenti è salvezza del singolo e non della chiesa nella sua globalità. La LG non considera quanto ci si deve evolvere dalle forme che sono state impedimento nella testimonianza della povertà. Il testo è prudente e porta a omettere la memoria del giudizio e, dunque, della beatitudine. Il tema torna poi almeno una ventina di volte nei documenti conciliari. Nel post-concilio questo tema è stato assunto dalla teologia della liberazione, richiamando l’opzione preferenziale dei poveri.
Teologia della liberazione
Siamo sulla soglia di un cambiamento complesso: un ripensamento della Chiesa anche da punto di vista strutturale. È istanza che la Chiesa è sempre bisognosa di riforma, assumendo in proprio le parole di papa Giovanni (chiesa di tutti, specialmente dei poveri). Abbiamo vissuto una sospensione del dettato conciliare per trent’anni, bisogna cogliere l’ora presente per riprendere i cammini interrotti e riprendere interesse verso il tema della povertà come esigenza di riforma. Il problema vero è il servizio, perché lo stesso annuncio ai poveri diventa poca cosa se non si trasforma in modi concreti di operatività solidale del Regno di Dio e dei suoi segni.
Armido Rizzi ha sintetizzato la storia della teologia della liberazione, la prima teologia che abbia parlato della Chiesa dei poveri. Lo “sviluppismo”, una visione del mondo presente allora ma anche oggi, riteneva che il capitalismo internazionale avrebbe portato allo sviluppo di tutti i Paesi, ma non coglieva la portata della povertà nell’America Latina. Non si tratta di ritardo rispetto agli altri, ma del fatto che la ricchezza dei Paesi occidentali si appoggiava sulla miseria degli altri, così come sta capitando nuovamente oggi. La reazione era di vedere che l’America Latina avrebbe dovuto esprimersi in modo proprio e quindi era necessario “liberarsi”. La teologia della liberazione non nasce dunque da sé, ma dando pensiero e voce ai poveri, come atto secondo. Si riscopre il carattere non dogmatico o non filosofico della teologia. Ha fatto parte della liberazione anche il martirio di Romero e dei sei preti e due donne dell’Uca. Ma i martiri dell’America Latina sono stati migliaia. Non confessio fidei ma confessio caritatis, fede operante attraverso la carità. Non martiri dell’ortodossia, ma dell’ortoprassi. Martiri non dell’anticristianesimo, ma di sedicenti governi cristiani.
Simona Borello e Antonello Ronca
|
|

il foglio | :: :: :: :: :: ::
|
avviso agli abbonati | Ci risulta che alcuni abbonati non ricevono a tempo debito, o non del tutto, la copia del nostro periodico. Ce ne scusiamo precisando che tale situazione non dipende da un nostro difetto bensì dal disservizio delle Poste. |
Numeri recenti | :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: :: ::
|
|